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XV
PERCHÉ NAPOLI DOPO LA FUGA DEL RE NON SI ORGANIZZÒ A REPUBBLICA?
Il re era partito, il popolo non lo desiderava piú. Egli avea spinto fino al furore l’amor d’indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all’antica schiavitú. Quando il popolo napolitano spedí la deputazione a Championnet, non volle dir altro che questo: – La repubblica francese avea guerra col re di Napoli, ed ecco che il re è partito; la nazione francese non avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i soldati francesi voglion vincere coloro che offrono volontari la loro amicizia? – Questo linguaggio era saggio, ed i napolitani, senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani dalla repubblica.
Ma, siccome in ogni operazione umana vi si richiede la forza e l’idea, cosí per produrre una rivoluzione è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi. Piú facili sono le rivoluzioni in un popolo che da poco abbia perduta una forma di governo, perché allora le idee del popolo son tratte facilmente dall’abolito governo, di cui tuttavia fresca conserva la memoria. Perciò «ogni rivoluzione – al dir di Macchiavelli – lascia l’addentellato per un’altra». Quanto piú lunga è stata l’oppressione da cui si risorge, quanto maggiore è la diversitá tra la forma del governo distrutto e quella che si vuole stabilire, tanto piú incerte, piú instabili sono le idee del popolo, e tanto piú difficile è ridurlo all’uniformitá, onde avere e concerto ed effetto nelle sue operazioni. Questa è la ragione per cui e piú sollecito e piú felice fine hanno avuto le rivoluzioni di quei popoli, ne’ quali o vi era ancor fresca memoria di governo migliore, o i rivoluzionari attaccati si sono ad alcuni dritti (come la Gran carta, che è stata la bussola di tutte le rivoluzioni inglesi) o a talune magistrature e taluni usi (come fecero gli olandesi), che essi aveano conservati quasi a fronte del dispotismo usurpatore.
Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi, e, quel ch’è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da’ nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietá ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e che intanto vi entrarono.
Quanto maggiore è questa varietá, tanto maggiore è la difficoltá di riunire il popolo e tanto maggior forza ci vuole per vincerla. Se le idee fossero uniformi, potrebbero tutti agire senza concerto, perché tutti agirebbero concordemente alle loro idee; ma, quando sono difformi, è necessario che agisca uno solo. Di rado avviene che una rivoluzione si possa condurre a fine se non da una persona sola: la stessa libertá non si può fondare che per mezzo del dispotismo. Il popolo ondeggia lungo tempo in partiti: diresti quasi che la nazione vada a distruggersi, ne vedi giá scorrere il sangue; finché una persona si eleva, acquista dell’ascendente sul popolo, fissa le idee, ne riunisce le forze: col tempo, o costui forma la felicitá della patria o, se vuole opprimerla, talora ne rimane oppresso. Ma egli ha giá indicata la strada, ed allora il popolo può agire da sé.
Quest’uomo non si trova se non dopo replicati infelici esperimenti, dopo lungo ondeggiar di vicende, quando i suoi fatti medesimi lo abbiano svelato: le guerre civili mettono ciascuno nel posto che gli conviene. Se taluno si voglia far conoscere e seguire dal popolo ne’ primi moti di una rivoluzione, a meno che la rivoluzione sia religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore: convien che abbia gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt’altro che pel merito.
Il modo piú certo e piú efficace per guadagnar la pubblica opinione è una regolaritá di giurisdizione, che taluno ancora conservi nel passar dagli ordini antichi ai nuovi. La Cittá era nelle circostanze di poter farsi seguire da tutto il popolo; dopo la Cittá, poteva Moliterni: ma né Moliterni ebbe idea di far nulla, né la Cittá, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche, seppe determinarsi a quelle che il tempo richiedeva.
Parve che in Napoli niuno si fosse preparato a questo avvenimento; e, quando si videro in mezzo al vortice, tutti si abbandonarono in balía delle onde. Non è molto onorevole a dirsi per lo genere umano, ma pure è vero: quasi tutte le nazioni, nelle loro crisi politiche, allora sono giunte piú facilmente al loro termine quando si è trovato tra loro un uomo profondamente ambizioso, il quale, prevedendo da lontano gli avvenimenti, vi si sia preparato e, riunendo tutte le forze a proprio vantaggio, abbia prodotto poi il vantaggio della nazione: poiché, o è stato saggio e virtuoso, ed ha fondata la sua grandezza sulla felicitá della patria; o è stato uno stolto, uno scellerato, ed è caduto vittima de’ suoi progetti. Ma allora, lo ripeto, egli avea giá insegnata la strada.
In Napoli Pignatelli, viceré, non ebbe neanche il pensiero di far nulla; la Cittá non seppe risolversi; Moliterni non ardí; niun altro si mostrò; tra’ repubblicani molti, che menavan piú rumore, erano piú francesi (27) che repubblicani, ed ai veri repubblicani allora una folla infinita si era rimescolata di mercatanti di rivoluzione, che desideravano per calcolo un cangiamento. Era giá passato il primo momento: troppo innanzi era trascorso il popolo; gli stessi saggi disperavano di poterlo piú frenare, gli stessi buoni desideravano una forza esterna che lo contenesse.
Forse i francesi istessi eran giá troppo vicini. Quell’operazione che avrebbe potuto riuscire a’ 25 di dicembre, allorché la Cittá la fece da re, facendo aprir di suo ordine le cacce del sovrano giá partito, difficilmente potea eseguirsi allorché i francesi erano a Capua. Per quanto disinteressata fosse stata la Cittá nelle sue operazioni e lontana dalle sue idee di oligarchia, volendo però formar la felicitá della nazione, non potea né dovea allontanarsi dalle idee nazionali; e troppo queste idee sarebbero state lontane dall’idee di molti altri. Ora i piú leggeri dispareri si conciliano con difficoltá, quando vi sia una forza esterna pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se non per diseguaglianza di forza o per vicendevole stanchezza di combattere: molte offese si tollerano e, tollerando, molti mali si evitano, sol perché non possiamo sul momento farne vendetta; e la concordia tra gli uomini è meno effetto di saviezza che di necessitá. Le potenze estere, pronte in tutt’i tempi a prender parte, prima nelle gare tra fazione e fazione di una medesima cittá, indi nelle dispute tra uno Stato e l’altro, hanno distrutta prima la libertá e poscia l’indipendenza dell’Italia.
Niuna nazione piú della napolitana ne ha provati gl’infelici effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un titolo su quel regno, ogni gara che sorgeva tra’ cittadini, vi era un estero che vi prendeva parte: talora gli esteri stessi fomentavano le gare; i cittadini, per essere piú forti, univano i loro disegni a quelli dell’estero, simili al cavallo che, per vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone; e cosí quel regno è stato per cinque secoli (quanti se ne contano dall’estinzione della dinastia de’ Normanni fino allo stabilimento di quella dei Borboni) l’infelice teatro d’infinite guerre civili, senza che una di esse abbia potuto giammai produrre un bene alla patria.
Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autoritá, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novitá contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse… chi sa?… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte migliore.
(27) Per questa espressione non s’intende indicare se non due classi di persone: la prima, di coloro che volevano piú un cangiamento che un buon cangiamento; la seconda, di coloro che credevano doversi imitare in tutto la Francia, anche in quello che non poteva e non doveva, per le differenze che vi erano tra le due nazioni, imitarsi. La prima era la classe de’ furbi, la seconda de’ fantastici. Non s’intende al certo parlare di quel ragionevole attaccamento che anche gli uomini dabbene doveano provare per quella nazione trionfatrice, da cui allora dipendeva la felicitá della patria. Ma il nobile attaccamento di costoro onorava ambedue le nazioni, mentre il vile o sciocco partegianismo de’ primi era indegno e della nazione liberata e della liberatrice.
XVI
STATO DELLA NAZIONE NAPOLITANA
L’armata francese entrò in Napoli a’ 22 di gennaio. La prima cura di Championnet fu quella d’«istallare» un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione permanente dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque persone, le quali, divise in sei «comitati», si occupavano de’ dettagli dell’amministrazione ed esercitavano quello che chiamasi «potere esecutivo»; riunite insieme, formavano l’assemblea legislativa.
I sei comitati erano: 1° centrale, 2° dell’interno, 3° di guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di legislazione. Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.
Ma l’immaginare un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una repubblica. In un governo in cui la volontá pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontá privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini liberi. Prima d’innalzare sul territorio napolitano l’edificio della libertá, vi erano, nelle antiche costituzioni, negl’invecchiati costumi e pregiudizi, negl’interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli avea de’ potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente gl’inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che difficilmente sussistere.
Dall’epoca de’ romani in qua, la sorte dell’Italia meridionale dipende in gran parte da quella della Sicilia. I romani ridussero l’Italia a giardino, il quale ben presto si cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de’ romani, s’incominciò ad udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell’Italia; detto quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda. Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma, quando l’Italia bastava sola ad alimentare trenta milioni di uomini industriosi e guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne’ secoli di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia turbò a suo talento l’Italia. Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de’ goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli, finché i normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino all’epoca di Carlo primo d’Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia influito a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltá, la quale, prima che in ogni regione d’Italia, vi avevan destata il gran Federico di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa Austriaca di Spagna. In que’ tempi appunto Napoli incominciò ad ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per sussistere ha bisogno del formento e piú dell’olio delle province lontane che bagna l’Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che picciole e mal sicure rade.
Avea il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l’antico governo in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da’ proclami del re; altre pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro ispirava una conquista sí rapida ed accorte della debolezza della forza francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un’ingiustizia, anche apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.
Il numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che l’affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che, per la sua singolaritá, merita d’esser ricordato.
Trovavansi in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che impediscono colá l’uscita dal porto, impedirono la partenza de’ còrsi, i quali loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al piú giovane e gli protestò tutti gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e, dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda, senz’aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte, cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due altri principi del sangue. Questi due impostori, uno cognomi nato Boccheciampe e l’altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl’insurretti. Il primo restò nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione.
Con questa truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini d’armi dei baroni, dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi delle due province, riuscì loro facile l’impadronirsi di tutti i paesi che proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio Martina ed Acquaviva, le quali cittá giurato avevano piuttosto morire che riconoscer gl’impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi coi francesi, i quali erano giá padroni di una buona porzione della provincia di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono,
il Boccheciampe in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle mani dei francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l’antico Metaponto, e andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.
La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti(28) e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il piú grande ostacolo allo stabilimento della libertá. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, cosí la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Cosí la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva (29).
Le disgrazie de’ popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle piú utili veritá. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autoritá sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metá della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da seguire, gli ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra civile, ed allora tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che scelgono sempre i minori tra’ mali, e gl’indifferenti i quali non calcolano che sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza esterna, la quale non manca mai di profittare di simili torbidi o per se stessa o per ristabilire il re discacciato.
Quell’amore di patria, che nasce dalla pubblica educazione e che genera l’orgoglio nazionale è quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt’i mali che per la sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l’Europa collegata contro di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de’ tedeschi o degl’inglesi.
Niuno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei diritti borbonici fosse stata la cagione e non giá il pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere un re, era inutile.
La nazione napolitana, lungi dall’avere questa unitá nazionale, si potea considerar come divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte le varietá: diverso è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi benefíci della natura, ed il sistema feudale, che ne’ secoli scorsi, tra l’anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietá ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la proprietá ed i mezzi di sussistenza.
Conveniva, tra tante contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva, dall’altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzone.
Si avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era però docile a riceverla da un’altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de’ due pretendenti, avrebbe seguíto quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo s’illude difficilmente, ma facilmente si governa.
Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne avrebbe ben accettato il dono.
Le insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá di odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non iscoppiarono che molto tempo dopo.
Vi furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l’entusiasmo della libertá, che prevennero l’arrivo de’ francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto.
La popolazione immensa della capitale era piú istupidita che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso da’ tributi e piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepí di quella popolazione, fece sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si ebbe infatti la controrivoluzione.
(28) «Patriota». Che è mai un «patriota»? Questo nome dovrebbe indicare un uomo che ama la patria. Nel decennio scorso esso era sinonimo di «repubblicano»; ben inteso però che non tutti i repubblicani eran patrioti.
(29) Il fondo delle maniere e de’ costumi di un popolo in origine è sempre barbaro, ma la moltiplicazione degli uomini, il tempo, le cure de’ sapienti possono egualmente raddolcire ogni costume, incivilire ogni maniera. Il dialetto pugliese, per esempio, che fu il primo a scriversi in Italia, era atto, al pari del toscano, a divenir colto e gentile: se non lo è divenuto, è colpa de’ nostri, che lo hanno abbandonato per seguire il toscano. Noi ammiriamo le maniere degli esteri, senza riflettere che questa ammirazione appunto ha recato pregiudizio alle nostre: esse sarebbero state eguali, e forse superiori a quelle degli esteri, se le avremmo coltivate. Una nazione che si sviluppa da sé acquista una civiltá eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione. Cosí in Atene la femminuccia parlava colla stessa eleganza di Teofrasto ed il ciabattino giudicava Demostene. Ammirando ed imitando le nazioni straniere, né si coltivano tutti gli uomini che compongono un popolo, né si coltivano bene: non tutti, perché non tutti possono vedere ed imitare gli esteri; non bene, perché l’imitatore, per eterna legge della natura, resta sempre al disotto del suo modello. La coltura straniera porta in una nazione divisioni e non uniformitá, e quindi non si acquista che a spese della forza. Quali sono oggi le nazioni preponderanti in Europa? Quelle che non solo non imitano, ma disprezzano le altre. E noi volevamo far la repubblica indipendente incominciando dal disprezzare la nostra nazione! N. B. – A scanso di ogni equivoco, questa nota, poco piú poco meno, vale per tutta l’Italia.
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XVII
IDEE DE’ PATRIOTI
Quali dunque esser doveano le operazioni da farsi per spingere avanti la rivoluzione del regno di Napoli?
Il primo passo era quello di far sí che tutti i patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o almeno che per essi vi fosse convenuto il governo.
Tra i nostri patrioti (ci si permetta un’espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; alcuni lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertá colla licenza, e credeva acquistar colla rivoluzione il diritto d’insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che piú lo aveva colpito nell’antico governo. Non intendo con ciò offendere la mia nazione: questo è un carattere di tutte le rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della nostra, presentare un numero maggiore o anche eguale di persone che solo amavano l’ordine e la patria?
Si prendeva però, come suol avvenire, per oggetto principale della riforma ciò che non era che un accessorio, ed all’accessorio si sagrificava il principale. Seguendo le idee de’ patrioti, non si sapeva né donde incominciare né dove arrestarsi.
Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi delle altre. Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire, la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirá la rivoluzione ed andrá avanti solo per quell’oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti rimarranno forse trascurati? No; ma ciascuno adatterá il suo interesse privato al pubblico, la volontà particolare seguirá la generale, le riforme degli accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerá in ordine.
Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perché comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso e poi anche agli altri: – Ma per ora potrebbe bastare… Il di piú, che si vuol fare, è inutile…, è dannoso. – Comincia ad ascoltarsi l’interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi piú forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú quello che ha perduto che quello che ha guadagnato. Le volontá individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o non può avere altro garante ed altro esecutore che la volontá individuale, le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi, i poteri caderanno nel languore; il languore o menerá all’anarchia, o, per evitar l’anarchia, sará necessitá affidare l’esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non è piú quella del popolo libero; e voi non avrete piú repubblica.
Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirá: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole; egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un re sul trono, lo credevano però ancor necessario nell’altare.
La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta il rigore delle leggi; perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e lascia tutti gli altri alla volontá individuale del popolo. «Idque apud imperitos‘humanitas’ vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia libertá risveglia in essi l’amore della libertá contro gli stessi loro liberatori.
XVIII
RIVOLUZIONE FRANCESE
Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt’i popoli della terra, e specialmente della rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non han poco contribuito ai nostri mali.
Hanno voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto che la rivoluzione francese fosse l’opera della filosofia, mentre la filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta.
La rivoluzione francese aveva un’origine quasi legale, che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee erano state convocate.
Quello stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si formò l’Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell’Assemblea. Che vi sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui non vi è ancora rivoluzione.
Essa incominciò allorché il re si separò dall’Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed il partito dell’Assemblea seppe guadagnare il popolo coll’idea della giustizia.
E fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosí, delle sue idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati dall’autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò l’Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito dell’Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del 1789, le trovo piú simili che non si pensa: s’incomincia la riforma in nome del re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche.
Le operazioni de’ popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini.
Se invertite, se turbate l’ordine e la serie delle medesime, se volete esporre nell’Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al pari che l’uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l’esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l’esterna solennitá delle formole sostiene un’operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l’errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessitá quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando l’errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è piú difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi decimo sesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica – dice Macchiavelli – fare una legge e non la osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l’ha fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l’infelice Luigi decimosesto.
Nell’epoca istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti non si intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si correva dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltre rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo?
Robespierre salvò la Francia, facendo rivoltare tutt’i partiti contro di lui ed, in conseguenza, riunendoli (30); ma Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la costituzione sua.
Le idee erano giunte all’estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di quello che il popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de’ moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L’uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt’i suoi affetti, giunti all’estremo, s’indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l’uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo romano: a me pare che si possa dire di tutt’i popoli della terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all’estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il cambiamento?
La vita e le vicende de’ popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra l’estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt’i popoli corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt’i popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non aveva proprietá di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza delle persone e de’ beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l’eguaglianza di fatto: s’incominciò a parlar di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a quell’estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese, non si pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l’Europa; nel terzo però si pretendeva l’eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall’etá di Menenio Agrippa a quella de’ Gracchi. Che dico io mai? Nell’etá de’ Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne dall’eseguire la divisione de’ beni.
In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio la legittimitá delle doti, quella de’ testamenti, l’istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di quelle de’ Gracchi: ed ecco perché, contando da quest’epoca, la repubblica francese ha avuto un secolo meno di vita della romana.
Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.
Le idee di Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti de’ francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo.
Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de’ suoi amici ed anche de’ suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è ben lontano dall’esser evidente che Robespierre, predicando libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell’autoritá, che Macchiavelli chiama «pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá divenir tirannici. Né l’uno né l’altro comprese la massima o di non offender nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro cagioni di quietare e fermare l’animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne’ cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l’impero col terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla medesima sostituita l’inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora.
Questa specie di tirannide, che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la piú terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.
Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto il Direttorio la sua indipendenza (31).
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!
(30) Robespierre operò sulla Francia come lo stimolo opera sull’eccitabilitá umana, nel sistema di Brown.
(31) Questo punto oggi è provato.
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XIX
QUANTE ERANO LE IDEE DELLA NAZIONE?
Il male, che producono le idee troppo astratte di libertá, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La libertá è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l’agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l’accrescimento dell’industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertá. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertá, rassomiglierebbe l’Alcibiade di Marmontel, il quale voleva esser amato «per se stesso».
La nazione napolitana bramava veder riordinate le finanze, piú incomode per la cattiva distribuzione che per la gravezza de’ tributi; terminate le dissensioni che nascevan dalla feudalitá, dissensioni che tenevano la nazione in uno stato di guerra civile; divise piú equamente le immense terre che trovavansi accumulate nelle mani degli ecclesiastici e del fisco. Questo era il voto di tutti: quest’uso fecero della loro libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse si democratizzarono, e dove o non pervennero o sol pervennero tardi gli agenti del governo e de’ francesi.
Molte popolazioni si divisero i terreni, che prima appartenevano alle «cacce regie» (32). Molti si revindicarono le terre litigiose del feudo. Ma io non ho cognizione di tutti gli avvenimenti, né importerebbe ripeterli, essendo tutti gli stessi. In Picerno, appena il popolo intese l’arrivo de’ francesi, corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie al «Dio d’Israele, che avea visitato e redento il suo popolo». Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento, ed il primo atto della sua libertá fu quello di chieder conto dell’uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica de’ suoi diritti: chi fu presente a quell’adunanza udí con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: – Non conviene a noi, che ci lagniamo dell’ingiustizia degli altri, il darne l’esempio. – Il secondo uso della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la libertá istessa, quello di battersi fino a che ebbero munizioni, e, quando non ebbero piú munizioni, per aver del piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi delle chiese… – I nostri santi – si disse – non ne hanno bisogno. – Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche gl’istrumenti piú necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono in modo da ingannarlo piú col loro valore che colle vesti loro.
Non son questi gli estremi dell’amore della libertá? Ed a questo stesso segno molte altre popolazioni pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse idee, i bisogni medesimi ed i medesimi desidèri.
Ma, mentre tutti avean tali desidèri, moltissimi desideravano anche delle utili riforme, che avessero risvegliata l’attivitá della nazione, che avessero tolto l’ozio de’ frati, l’incertezza delle proprietá, che avessero assicurata e protetta l’agricoltura, il commercio; e questi formavano quella classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra il popolo e la nobiltá. Questa classe, se non è potente quanto la nobiltá e numerosa quanto il popolo, è però dappertutto sempre la piú sensata. La libertá delle opinioni, l’abolizione de’ culti, l’esenzione dai pregiudizi era chiesta da pochissimi, perché a pochissimi interessava. Quest’ultima riforma dovea seguire la libertá giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva la forza, e questa non si potea ottenere se non seguendo le idee del maggior numero. Ma si rovesciò l’ordine, e si volle guadagnar gli animi di molti, presentando loro quelle idee che erano idee di pochi.
Che sperare da quel linguaggio che si teneva in tutt’i proclami diretti al nostro popolo?
«Finalmente siete liberi»… Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá: essa è un sentimento e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra colle parole. «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»… Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicitá?
«L’uomo riacquista tutt’i suoi diritti»… E quali? «Avrete un governo libero e giusto, fondato sopra i princípi dell’uguaglianza; gl’impieghi non saranno il patrimonio esclusivo de’ nobili e de’ ricchi, ma la ricompensa de’ talenti e della virtú»… Potente motivo per il popolo, il quale non si picca né di virtú né di talenti, vuol esser ben governato, e non ambisce cariche! «Un santo entusiasmo si manifesti in tutt’i luoghi, le bandiere tricolori s’innalzino, gli alberi si piantino, le municipalitá, le guardie civiche si organizzino»… Qual gruppo d’idee che il popolo o non intende o non cura! «I destini d’Italia debbono adempirsi». «Scilicet id populo cordi est: ea cura quietos sollicitat animos».
«I pregiudizi, la religione, i costumi»… Piano! mio caro declamatore; finora sei stato solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso (33).
Il corso delle idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono le idee di tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E, siccome coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno piú idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono piú beni, cosí molte volte è necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si scordino di loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo Bruto, moltissimi ne previde, ma, finché fu solo a soffrire ed a prevedere, tacque; molti ne soffrirono i patrizi prima che si lagnasse il popolo; finalmente il fatto di Lucrezia fece ricordare ad ognuno che era marito: allora Bruto parlò prima al popolo e lo mosse, poscia parlò al senato, e, quando la rivoluzione fu compíta, ascoltò se stesso. Tutto si può fare: la difficoltá è sola nel modo. Noi possiamo giugnere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler giugner oggi: impresso una volta il moto, si passa da un avvenimento all’altro, e l’uomo diventa un essere meramente passivo. Tutto il segreto consiste in saper donde si debba incominciare.
Non si può mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia una rivoluzione religiosa, seguendo idee troppo generali, né seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad ogni passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni d’interessi, che, non potendosi distruggere, è necessitá conciliare. Il popolo è un fanciullo, e vi fa spesso delle difficoltá alle quali non siete preparato. Molte nostre popolazioni non amavano l’albero perché non ne intendevano l’oggetto, e talune, che s’indispettivano per non intenderlo, lo biasimavano come magico; molte, invece dell’albero, avrebbero voluto un altro emblema. È indifferente che una rivoluzione abbia un emblema o un altro, ma è necessario che abbia quello che il popolo intende e vuole.
In molte popolazioni eravi un male da riparare, un bene da procurare per poter allettare il popolo: le stesse risorse non vi erano in altre popolazioni; né potevano la legge o il governo occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era giá compiuta. Le rivoluzioni attive sono sempre piú efficaci, perché il popolo si dirige subito da se stesso a ciò che piú da vicino l’interessa.
In una rivoluzione passiva conviene che l’agente del governo indovini l’animo del popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non saprebbe procacciarsi.
Talora il bene generale è in collisione cogl’interessi de’ potenti. L’abolizione de’ feudi, per esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, piú del feudatario, sono da temersi coloro che vivono sul feudo. Il popolo trae ordinariamente la sussistenza da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il feudatario vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque maggiore. Il talento del riformatore è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il rispetto, l’amicizia, l’ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione.
Spesse volte ho visto che una popolazione ama una riforma anziché un’altra. Molte popolazioni desideravano la soppressione de’ monasteri, molte non la volevano ancora: piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il maggiore o minor bisogno in cui erano de’ terreni. Non urtate la pubblica opinione; crescerá col nuovo ordine di cose il bisogno, e voi sarete sollecitato a distruggere ciò che un momento prima si voleva conservare.
Basta dar avviamento alle cose; di molte non si comprende oggi la necessitá o l’utile, e si comprenderá domani: cosí avrete il vantaggio che farete far dal popolo quello che vorreste far voi.
Non vi curate degli accessorii, quando avete ottenuto il principale. Io, che ho voluto esaminar la rivoluzione piú nelle idee de’ popoli che in quelle de’ rivoluzionari, ho visto che il piú delle volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senza talune apparenze e senza talune solennitá che il popolo credeva necessarie. Avviene nelle rivoluzioni come avviene nella filosofia, dove tutte le controversie nascono meno dalle idee che dalle parole. I riformatori chiamano «forza di spirito» l’audacia colla quale attaccano le solennitá antiche; io la chiamo «imbecillitá» di uno spirito che non sa conciliarle colle cose nuove.
Il gran talento del riformatore è quello di menare il popolo in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu. Ho visto molte popolazioni fare da per loro stesse ciò che, fatto dal governo, avrebbero condannato. «Volendo – dice Macchiavelli – che un errore non sia favorito da un popolo, gran rimedio è fare che il popolo istesso lo abbia a giudicare». Ma a questo grande oggetto non si perviene se non da chi ha giá vinto tanto la vanitá de’ fanciulli di preferir le apparenze alle cose reali, quanto la vanitá anche di quegli uomini doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria e che la fanno consistere nel far tutto da loro stessi.
Siccome nelle rivoluzioni passive il gran pericolo è quello di oltrepassare il segno in cui il popolo vuole fermarsi e dopo del quale vi abbandonerebbe, cosí il miglior partito, il piú delle volte, è di restarsene al di qua. Il governo avea ordinata la soppressione istantanea di molti monasteri; e questa, commessa a persone non sempre fedeli, non avea prodotto que’ vantaggi che se ne speravano. Si poteano i conventi far rimanere, ma colla legge di non ricever piú nuovi monaci; i loro fondi, con altra legge, si dichiaravano censiti a coloro che ne erano affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá; e cosí si otteneva la ripartizione de’ terreni, l’abolizione del monistero a capo di pochi anni, e frattanto ai monaci si avrebbe potuto vender anche caro questo prolungamento di esistenza. Il voler far in un momento tutto ciò che si può fare non è sempre senza pericolo, perché non è senza pericolo che il popolo non abbia piú né che temere né che sperare da voi.
Il popolo è ordinariamente piú saggio e piú giusto di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo correggono de’ suoi errori. Ho veduto delle popolazioni diventar repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano state saccheggiate dagl’insorgenti. In Caiazzo taluni della piú vile feccia del popolo insursero ed attaccarono le autoritá costituite; tutti gli altri erano spettatori indolenti: gl’insorgenti soli furono i piú forti, vollero rapinare, e questo ruppe il letargo degli altri. Allora gl’insorgenti non furono piú soli: tutta la popolazione difese le autoritá costituite; ed, istruita dal pericolo, Caiazzo divenne la popolazione piú attaccata alla repubblica.
Da tutto si può trar profitto: tutto può esser utile ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia sistemi. Tutt’i popoli si rassomigliano; ma gli effetti delle loro rivoluzioni sono diversi, perché diversi sono coloro che le dirigono. Molti avvenimenti io potrei narrare in prova di ciò che ho detto; ma si potrebbe dir tutto senza una noia mortale? Agli esteri bastano i risultati; i nazionali, quando vogliano, possono applicare a ciascuno di essi i fatti ed i nomi che giá sanno.
(32) Estesissima caccia che il re teneva nella provincia di Salerno: intorno alla medesima erano le popolazioni nominate nel testo.
(33) Questo linguaggio può star bene in bocca di un conquistatore che voglia nobilitare le sue conquiste, di un retore che parli ad un’adunanza di oziosi, di un filosofo che parli agli altri filosofi; potrá esser anche il linguaggio dello storico che trasmetta alla posteritá i risultati degli avvenimenti: ma non deve esser mai il linguaggio di un uomo che parli al popolo e voglia muoverlo. Noi abbiamo perduta ogni idea dell’eloquenza popolare: la nostra non è che l’eloquenza delle scuole; e questa è la ragione per cui piú non si veggono tra noi ripetuti quegli effetti che appena crediamo negli antichi. Dopo essersi or da pedanti or da eruditi or da filosofi analizzato il meccanismo del discorso, calcolata la sua forza, fissati i princípi per dirigerlo onde produca il massimo effetto, mi par che ancora resti a farsi un libro in cui si calcoli la forza dell’eloquenza non sull’individuo ma sulle nazioni, e si vegga il rapporto che lo stato della nazione può aver sull’eloquenza, e la natura di questa sullo stato di quella. Si conoscerebbe allora qual differenza vi sia tra i pomposi proclami che dall’Ottantanove inondano l’Europa, e la forza segreta ma irresistibile. Pericle tuonava, fulminava, sconvolgeva la Grecia intera, ed i figli d’Isacco e d’Ismaele si dividevano l’impero della terra e de’ secoli.
XX
PROGETTO DI GOVERNO PROVVISORIO
Nello stato in cui era la nazione napolitana, la scelta delle persone che formar doveano il governo provvisorio era piú importante che non si pensa. Noi riferiremo a questo proposito ciò che taluno propose a Championnet ed a coloro che consigliavano Championnet.
«Il primo passo in una rivoluzione passiva è quello di guadagnar l’opinione del popolo; il secondo è quello d’interessare nella rivoluzione il maggior numero delle persone che sia possibile. Queste due operazioni, sebbene in apparenza diverse, non sono però in realtá che una sola; poiché quello istesso che interessa nella rivoluzione il maggior numero delle persone vi fa guadagnare l’opinione del popolo, il quale, non potendo giudicar mai di una rivoluzione e di un governo per princípi e per teorie, non potendo ne’ primi giorni giudicarne dagli effetti, deve per necessità giudicarne dalle persone, ed approvare quel governo che vede commesso a persone che egli è avvezzo a rispettare.
«Tra gl’impiegati del re di Napoli molti ve ne sono, i quali non hanno giammai fatta la guerra alla rivoluzione; amici della patria perché amanti del bene, ed attaccati al governo del re sol perché quel governo dava loro un mezzo onesto di sussistenza. Molti di costoro meritano di esser impiegati per i loro talenti e possono guadagnare alla rivoluzione l’opinione di molte classi del popolo.
«Il fòro ne somministra moltissimi; e la classe del fòro, una volta guadagnata, strascina seco il quinto della popolazione. Moltissimi ne somministra la classe degli ecclesiastici, e vi è da sperare altrettanto di bene: il resto si avrebbe dalla nobiltá (uso per l’ultima volta questa parola per indicare un ceto che piú non deve esistere, ma che ha esistito finora) e dalla classe de’ negozianti. I nobili si crederanno meno offesi, quando si vedranno non del tutto obbliati; ed i negozianti, finora disprezzati da’ nobili, saranno superbi di un onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la nazione sperar da loro aiuti grandissimi ne’ suoi bisogni. In Napoli questa è la classe amica del popolo, poiché da questa classe dipende e vive quanto in Napoli vi sono pescatori, marinai, facchini e di altri tali, che formano quella numerosa e sempre mobile parte del popolo che chiamansi ‘lazzaroni’.
Utili anche sarebbero molti ricchi proprietari delle province, i quali possono colá ciò che possono i negozianti in Napoli, e potranno dare al governo quei lumi che non ha e che non può avere altrimenti sulle medesime.
«Per effetto della nostra mal diretta educazione pubblica, la cognizione delle nostre cose si trova riunita al potere ed alla ricchezza: coloro che hanno per loro porzione il sapere, per lo piú, tutto sanno fuorché ciò che saper si dee. Allevati colla lettura de’ libri inglesi e francesi, sapranno le manifatture di Birmingham e di Manchester, e non quelle del nostro Arpino; vi parleranno dell’agricoltura della Provenza, e non sapranno quella della Puglia; non vi è tra loro chi non sappia come si elegga un re di Polonia o un imperatore dei romani, e pochi sapranno come si eleggono gli amministratori di una nostra municipalitá; tutti vi diranno il grado di longitudine e di latitudine d’Othaiti: se domandate il grado di Napoli, nessuno saprá dirlo. Un tempo i nostri si occuparono di tali cose, ed ebbimo scrittori di questi oggetti prima che le altre nazioni di Europa ancora vi pensassero. Oggi ciascuno sdegna di occuparsene, vago di una gloria straniera, quasi che si potesse meritare maggior stima dagli altri popoli ripetendo loro male ciò che essi sanno bene, che dicendo loro ciò che ancora non sanno. Queste cognizioni intanto sono necessarie, e, per averle, o convien ricorrere ai libri senza ordine e senza gusto scritti due secoli fa, o convien dipendere da coloro i quali, per avere maneggiati gli affari del Regno e viste diverse nostre regioni, conoscono e gli uomini e lo stato degli uomini. Per difetto della nostra educazione, la scienza che noi abbiamo è inutile, e siam costretti a mendicare le utili dagli altri.
«Ma, affinché le cognizioni delle cose patrie non siano scompagnate dai lumi della filosofia universale di Europa, ed affinché coloro de’ quali abbiam bisogno per opinione non diventino i nostri padroni per necessitá, affinché gli antichi interessi (se pure costoro avessero interesse per l’antico governo) non opprimano i nuovi, a costoro si unirá un doppio numero di savi e virtuosi patrioti: cosí avremo il vantaggio del patriotismo nelle decisioni, ed il patriotismo avrá il vantaggio delle cognizioni patrie nell’esame e dell’opinione pubblica nell’esecuzione.
«Invece di fare l’assemblea, che chiamar si potrebbe ‘costituente’, di venticinque persone, far si potrebbe di ottanta, e combinare in tal modo insieme tutti questi vantaggi. Un’assemblea provvisoria di ottanta non è troppo grande per una nazione che dee averne una costituzionale piú che doppia: all’incontro una di venticinque può sembrare troppo piccola, specialmente non essendosi ancora pubblicata la costituzione. Il popolo potrá credere che si voglia prender giuoco di lui e che si pensi ad escluderlo da tutto. Un generale estero, che venisse egli solo a darci la legge, si tollererebbe come un re conquistatore, e l’oppressione, in cui ciascuno vedrebbe gli altri tutti, gli renderebbe tollerabile la propria; ma, subito che chiamate a parte della sovranitá la nazione, conviene che usiate piú riguardi: o conviene dar a tutti o a nessuno; i consigli di mezzo non tolgono l’oppressione e vi aggiungono l’invidia».
Si passava ad indicare, in tutte le classi, de’ veri patrioti, i quali, senza esser ascritti a verun club, amavano la patria ed avrebbero saputo renderla felice… Ma i nomi di costoro sarebbe ora colpevole imprudenza rivelare.
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XXI
MASSIME CHE SI SEGUIRONO
Io prego tutti coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non credere che io intenda scrivere la satira de’ patrioti. Se il patriota è l’uomo che ama la patria, non sono io stesso un patriota? Come potrei condannare un nome che onora tanti amici, de’ quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo esser superbi che in Napoli la classe de’ patrioti sia stata la classe migliore: ivi, e forse ivi solamente, la rivoluzione non è stata fatta da coloro che la desideravano sol perché non avevano che perdere. Ma in una grande agitazione politica è impossibile che i scellerati non si rimescolino ai buoni, come appunto, agitando un vaso, è impossibile che la feccia non si rimescoli col fluido. Il grande oggetto delle leggi e del governo è di far sí che, ad onta de’ nomi comuni de’ quali si vogliono ricoprire, si possano sempre distinguere i buoni dai cattivi, e che si riconosca per patriota solo colui che è degno di esserlo. Allora i cattivi non corromperanno l’opera de’ buoni. Allora il governo de’ patrioti sará il migliore de’ governi, perché sará il governo di coloro che amano la patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose umane, che spesso le maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere i buoni, non fanno che allontanarli e verificare l’antico adagio: che nelle rivoluzioni trionfano sempre i pessimi.
Nelle altre rivoluzioni i rivoluzionari non buoni han fatto sorgere princípi pessimi. In quella di Napoli princípi non nostri e non buoni fecero perdere gli uomini buoni. Nulla di migliore degl’individui che avevamo, perché i princípi loro individuali erano retti: se le operazioni politiche non corrisposero alle loro idee, ciò avvenne perché i princípi pubblici non erano di essi ed erano fallaci. Questi princípi politici per necessitá doveano corromper tutto.
Alcuni falsi patrioti o maligni speculatori, ai quali né la classe de’ buoni né un solo del governo aderí mai, dicevano che tutti gli aristocratici, che tutt’i vescovi, tutt’i preti, tutt’i ricchi dovevano essere distrutti. Non erano contenti che fossero eguagliati agli altri. La repubblica fiorentina operava una volta cogli stessi principi; e la repubblica fiorentina fu perciò in una continua guerra civile, che finalmente produsse la sua morte. Questo avviene inevitabilmente tutte le volte che la repubblica non è fondata sopra la giustizia; e non lo è mai ogni qual volta, dopo aver distrutta la classe, continua a perseguitar l’individuo, non perché ami le distinzioni della classe giá estinta, ma solo perché le apparteneva un giorno. I romani si contentarono di far che i plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo era il giusto e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i patrizi sol perché erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che voler rimettere il patriziato dopo averlo distrutto e voler far nascere la guerra civile.
Pretendevano non doversi impiegar nessuno di coloro che aveano ben servito il re. Era giusto che non s’impiegassero coloro, se mai ve ne erano, che lo aveano servito nei suoi capricci, nelle sue dissolutezze, nelle sue tirannie; che doveano l’onore di servire all’infamia onde si eran ricoperti. Ma molti, servendo il re, avean servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto servire il re, perché non meritavano servir la patria: l’escluder quelli, l’ammetter questi, sol perché quelli aveano servito il re e questi non giá, non era lo stesso che tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano servirla?
Chi dunque dovea impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La repubblica napoletana fu considerata come una preda, la di cui divisione spettar dovea a pochissimi; e questo fu il segnale, né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra la parte numerosa della nazione e la parte debole.
Questo fece mancare tutt’i buoni agenti della repubblica: se un uomo di genio e da bene è raro in tutto il genere umano, come mai può ritrovarsi poi facilmente in una classe poco numerosa? È vero che i clamori della folla né esprimevano il voto de’ buoni né eran di norma al governo; ma, in circostanze precipitose ed incerte, quando la curiositá pubblica è grandissima ed ignote sono ancora le massime di un governo nuovo, né vi è tempo e modo da paragonare le voci ai fatti, i clamori, sebben falsi, producono un male reale, perché il popolo li crede massime del governo e se ne offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far sorgere una opinione che dir si possa pubblica; fare che nel tempo istesso e parlassero molti, perché le voci riunite producono effetto maggiore, e le parole fossero concordi, onde l’effetto, per contrasto delle medesime, non venisse distrutto. Questo, per altro, era in Napoli piú difficile ad ottenersi che altrove; tra perché la rivoluzione non era attiva, ma passiva, né vi era, in conseguenza, un’opinione predominante, ma si imitavano quelle di Francia, le quali erano state molte e diverse, onde è che vi erano alcuni «terroristi», altri «moderati», ecc.; tra perché le opinioni non eran libere, e spesso prevaleva per effetto di forza quella che non era la piú comune; tra perché finalmente il tempo fu brevissimo, e l’opinione pubblica, ovunque non vi è forza che possa dirigerla, ha bisogno di tempo lunghissimo.
È un’osservazione costante che il popolo non s’inganna mai ne’ particolari; ma una fazione s’inganna, e molto piú una fazione la quale riduce le virtú ed i talenti tutti ad un solo nome, di cui usa egualmente e Catilina e Catone. Il vero «patriotismo» è l’amor della patria, ed ama la patria chi vuole il suo bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo separate da queste idee sensibili, allora formate del patriotismo una parola chimerica, la quale apre il campo alla calunnia ed impedisce all’uomo da bene, che non è fazioso, di accostarsi al governo; allora si sostituisce al merito reale un merito di opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale rimane sempre dietro a quello dei ciarlatani.
Con questi mezzi abbiam veduti allontanati dal corpo legislativo il virtuoso Vincenzio Russo ed alcuni altri, tra’ quali uno che, in quelle circostanze, avrebbe potuto esser utile alla patria.
Se la nostra rivoluzione fosse stata attiva, i nostri patrioti si sarebbero conosciuti nell’azione precedente, il che non avrebbe lasciato luogo alla impostura, e si sarebbero conosciuti per quello che ciascun valea. Si è detto realmente che le guerre civili fanno sviluppare i geni di una nazione, non perché li facciano nascere, ma perché li fanno conoscere; perché ciascuno nell’azione si mette al posto che il suo genio gli assegna, e la scelta per lo piú suole riuscir buona, perché si giudica dell’uomo dai suoi fatti.
Presso di noi l’uomo era riputato patriota da che apparteneva ad un club. Ma, quando anche questa invenzione inglese di club fosse stata atta a produrre un giorno una rivoluzione, pure, non avendola prodotta, non potea far giudicare degli uomini se non dalle parole. I nostri clubs non avean ancora superata la prima prova delle congiure, che è quella di conservare il segreto tra il numero: composti sulle prime da pochi individui, allorché incominciò la persecuzione, si sciolsero. Quando venne la rivoluzione, si trovarono moltissimi, i quali non aveano fatto altro che dare il loro nome negli ultimi tempi, uomini che non si conoscevano neanche tra loro, e tra costoro fu facile a qualunque audace rimescolarsi e dichiararsi patriota.
Cosí la patria fu in pericolo di esser vittima dell’ambizione de’ privati, poiché non si trattava di soddisfar questa con servigi resi alla patria medesima, ma bensí con quelli che taluno forsi voleva renderle; non si esaminava chi sapeva, chi potea, ma si cercava chi voleva; ed in tale gara il piú audace mentitore, il piú sfacciato millantatore doveano vincere il merito e la virtú sempre modesta.
XXII
ACCUSA DI ROTONDO – COMMISSIONE CENSORIA
S’incominciò dai primi giorni della repubblica a fare una guerra a tutti gl’impiegati: accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una carica non dovea far altro che mettersi alla testa di un certo numero di patrioti e far dello strepito. Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva, cosí la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il numero e lo strepito, prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché passino ad usarne un’altra piú efficace e piú crudele. All’uomo ragionevole e dabbene non rimaneva che involgersi nel suo mantello e tacere.
Prosdocimo Rotondo, eletto rappresentante, offese l’invidia di qualche suo nemico. Si mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba, che non conosceva Rotondo, ma, entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea che ei fosse indegno della carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un’accusa di tale natura non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l’indegnitá di taluno potrá far sí che il sovrano non lo elegga; ma, eletto che l’abbia, perché sia deposto prima del tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa però una volta l’accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve esser libera l’accusa, ma punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so però ch’egli insisteva perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla carica, pubblicò il conto della sua amministrazione, e tutti tacquero. Il presidente allora del comitato centrale vedea in
questo affare, in apparenza privato, quanto importasse conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed intendeva bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione, subito che non fosse piú nazione. Ma, poco di poi, alcuni, disperando di farsi amare e rendersi forti colla nazione, vollero adular la fazione, e non si permise che dell’affare di Rotondo piú si parlasse. Palomba partí pel dipartimento del quale era stato nominato commissario. Gli fu data, è vero, la facoltá di proseguir l’accusa anche per mezzo de’ suoi procuratori: ma non si trattava di dargli una facoltá; era necessario imporgli un’obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire, se prima non adempiva al dovere che gl’imponeva l’accusa. In un governo giusto l’accusatore è nel tempo istesso accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era degno o no di seder tra i legislatori, Palomba non avea diritto di esser nominato commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutt’i buoni un silenzio che sacrificava il governo alla fazione e la fazione all’individuo.
Il segreto, una sola volta svelato, tolse ogni freno all’intrigo. Napoli si vide piena di adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le persone del governo. Ma non si contentavano di mettere cosí un freno alla condotta di coloro che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la libertá de’ partiti produce nella repubblica; non si contentavano di osservarsi a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro censure voleano che avessero la forza di accuse, e cosí lo studio delle parti dovea degenerare in guerra civile.
Non vi fu piú uno il quale non fosse accusato; ma, siccome le accuse non erano dirette dall’amore della patria, cosí non erano fondate sulla ragione: motivi personali le facevano nascere, gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi per autoritá degli esteri. Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste, non potevano però mai esser legali, perché, anche quando si eseguiva la legge, parlava l’uomo. Cosí gli uomini non si avvezzavano mai a credere che a soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che quella della legge; e, senza questa intima e profonda persuasione, non vi è repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le sètte non servono piú la patria, ma bensí l’uomo che esse credono superiore alla legge, e quest’uomo fomenta in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I partiti corrompono l’uomo, e l’uomo corrompe la nazione. Gl’intriganti prendono le loro misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i faziosi (importa poco di qual partito essi siano: è fazioso chiunque non è del partito della patria) trionfano; e, siccome l’unico mezzo di acquetarli è quello di dar loro una carica, cosí si vedono elevati molti che la nazione non vuole e che ruinano poi la nazione.
Male funesto, non ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai obbliare, onde esser piú cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che la forza della rivoluzione spinge sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in una rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si vede, un nome che si può fingere, tengono spesso il luogo delle vere virtú e del merito reale; in una rivoluzione prodotta da armi straniere, in cui è inevitabile la sconsigliata profusione delle cariche: tra il conquistatore, il quale spesso non sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui impiegati, i quali rammentano piú i bisogni di un amico che quelli di uno Stato che odiavano, e, pieni ancora dell’impazienza di obbedire, di rado sanno temperarsi nell’uso di comandare.
Il governo, per acquetare un poco i rumori, istituí una commissione di cinque persone per esaminare coloro che doveano impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali che dalla commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso per sempre.
Questa istituzione fu effetto delle circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti; il tempo era breve; il bisogno di ben conoscere le persone urgente. La commissione della quale parliamo, fu imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni limitatissime, quasi private: ma essa divenne, contro la mente del governo, una magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare, manteneva un officio, riceveva petizioni, faceva decreti. L’istituzione cangiò natura, e questo avvien sempre in tutte le istituzioni simili. Se, invece di istituire una commissione, si fosse obbligato Palomba a proseguire l’accusa; se fosse stato condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro quinti de’ clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe conosciuto meglio le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine, specialmente ne’ primi giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce la vera cagione del medesimo, e tutto attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il quale deve persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma non eran sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché li princípi, dalli quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un governo nuovo è necessitá far quanto meno si possa d’istituzioni tali che possino divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla mano di chi governa.
XXIII
LEGGI – FEDECOMMESSI
Io seguo il corso delle mie idee anziché quello de’ tempi. Tanti avvenimenti si sono accumulati e quasi addensati in sí breve tempo, che essi, invece di succedersi, s’incrocicchiano tra loro, né se ne può giudicar bene se non osservandone i loro rapporti.
Il momento della rivoluzione in un popolo è come un momento di tumulto in un’assemblea: i dispareri, il calore della disputa, destano tanti e sí vari rumori, che impossibile riesce far ascoltare la voce della ragione. Se allora un uomo rispettabile per la sua prudenza e pel suo costume si mostra, gli animi si acchetano, tutti l’ascoltano: il suo nome gli guadagna l’attenzione di tutti, egli può far udire la voce della ragione. Nel primo momento l’opinione è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel secondo conviene che la ragione sostenga e confermi l’opinione.
Que’ fatti che finora abbiam riferiti aveano per iscopo il guadagnare la confidenza del popolo prima che il governo avesse agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea colle opere meritarsi quella confidenza che avea giá guadagnata… Esso si occupò dell’abolizione de’ fedecommessi e della feudalitá, che formavano presso di noi i piú grandi ostacoli all’eguaglianza ed al governo repubblicano.
L’istituzione de’ fedecommessi porta seco lo spirito di conservar i beni nelle famiglie, spirito non compatibile coll’eguaglianza nelle repubbliche ben ordinate. Forse, cosí in Roma come in Sparta, l’amor dell’eguaglianza avea fatto nascere lo spirito della conservazione de’ beni. Ma i nostri fedecommessi non aveano di romano altro che il nome e le formole esterne di ciò che chiamasi «sostituzione»: queste antiche istituzioni, unite alle idee di nobiltá ereditaria e di successione feudale, avean prodotto presso di noi un mostro, di cui a torto incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte le ricchezze sono territoriali, si erano i fedecommessi moltiplicati all’estremo, e moltiplicato avevano ancora il numero de’ celibi, degli oziosi, de’ poveri, de’ litiganti, ecc.
La riforma fu semplice e ragionevole. Non si distrusse la volontá de’ testatori che fino a quel tempo aveano ordinato de’ fedecommessi, tra perché una legge nuova non deve mai annullare i fatti precedenti, tra perché la riforma della proprietá non deve distruggerne il fondamento, il quale altro non è che il possesso autorizzato dal costume pubblico (34). Ma i beni de’ fedecommessi rimanendo liberi in mano de’ possessori e la legge proibendo di ordinarne de’ nuovi, una sola generazione sarebbe stata sufficiente a produrre quella divisione che si desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá, si sarebbe mal volentieri accettata.
A’ secondogeniti ed a’ legatari fu disposto darsi il capitale di quella parte del fedecommesso di cui godevano la rendita: cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere ai loro figli. Il calcolo de’ capitali fu ordinato farsi sulla rendita alla ragione del tre per cento; e cosí, in una nazione ove i fondi sono in commercio alla ragione non minore del cinque e del sei per cento, le porzioni de’ legatari venivano indirettamente a duplicarsi, e si correggeva, senza violenza, quella disuguaglianza che lo spirito di primogenitura avea introdotta nelle porzioni de’ figli di uno stesso padre.
Questa legge fu saggia e ben accetta a tutti: i possessori stessi de’ fedecommessi non perdevano tanto colla cessione ai legatari, quanto guadagnavano coll’acquistar la libera proprietá de’ loro beni in una nazione che incominciava a sviluppare qualche attivitá. I legami de’ fedecommessi erano giá mal tollerati, e da’ dissipatori che volean abusare dei loro beni, e da’ saggi i quali voleano usarne in bene.
Forse sarebbe stato giusto aggiugnere alla legge la condizione aggiuntavi dall’imperatore Leopoldo, allorché fece la riforma dei fedecommessi di Toscana. Giudicando questo ottimo sovrano che manca alla giustizia chiunque priva del diritto alla successione un uomo nato e nodrito con esso, riserbò la capacitá di succedere ai fedecommessi non solo ai possessori, ma anche ai chiamati giá nati o da nascere da matrimoni contratti prima della legge, molti de’ quali eransi fatti colla speranza di una successione fedecommessaria.
Rimanevano ancora alcuni altri oggetti da determinarsi: rimaneva a prendersi delle misure sui tanti e sí ricchi monti di maritaggi che vi sono in Napoli e che altro in realtá poi non sono che fedecommessi di famiglia e di gente… Ma tali oggetti dipendevano dalla legge testamentaria, dallo stato della nazione e da tante altre considerazioni, che era meglio aspettare tempo piú opportuno. Di rado nella rivoluzione francese ed in quelle che sono scoppiate in conseguenza, di rado si è peccato per soverchia lentezza in far le leggi: spessissimo per soverchia precipitanza.
(34) Una legge, dice Macchiavelli, che guarda molto indietro, è sempre tirannica.
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XXIV
LEGGE FEUDALE
La legge feudale richiedeva piú lungo esame e presentava interessi piú difficili a conciliarsi.
Quella dei fedecommessi toglieva poco ai possessori dei medesimi, e quel poco davalo ai figli ed ai fratelli loro: la legge dei feudi toglieva ai feudatari moltissimo, e questo passava agli estranei, che talvolta erano i loro nemici. Intanto, l’abolizione dei feudi era il voto generale della nazione. Gli abitanti delle province ardevano di tanta impazienza, che aveano quasiché strascinato il re a dare alla feudalitá de’ colpi, i quali sentivano piú di democrazia che di monarchia. Io dico ciò per un modo di dire, ma non son certo che la feudalitá convenga piú all’una che all’altra di queste due forme di governo. La forma di governo a cui la feudalitá meglio conviene è l’aristocrazia: aristocratici erano i governi di tutta l’Europa nell’epoca in cui la feudalitá prevaleva. Le monarchie presenti dell’Europa eransi elevate sulle rovine della medesima: ove essa era rimasta intatta, il governo era rimasto aristocratico, siccome in Polonia; ove era stata temperata, ma non distrutta, era
surto una specie di governo misto, come in Inghilterra e nella Svezia: ove era stata interamente distrutta, era surto un governo aristocratico, come in una grandissima parte dell’Europa, e specialmente in quella parte che altre volte componeva l’immensa monarchia di Spagna, essa era rimasta in uno stato singolare, dove, avendo perduti tutt’i diritti che rappresentava in faccia al sovrano, avea conservati tutti quelli che una volta avea sul popolo. Prendendo per punto di paragone un vassallo degl’imperatori svevi, un pari della Gran Bretagna gli somiglia molto piú che un napolitano quando è nel parlamento, il napolitano gli somiglia molto piú dell’inglese quando è nelle sue terre.
Ma i primi diritti sono gloriosi al feudatario e posson esser utilissimi ed al sovrano ed allo Stato; i secondi sono al feudatario vergognosi, perché non è mai glorioso tutto ciò che è oppressivo e nocivo allo Stato, al sovrano, agli stessi baroni, perché tendono a distruggere l’industria, dalla quale solamente dipende la vera prosperitá di una nazione. Questi diritti sono i diritti dei popoli barbari. Ovunque si sviluppa l’industria, essi vanno a cadere in obblio, ed è interesse degli stessi feudatari che ciò succeda. In Russia gli stessi grandi possessori di terra hanno incominciato a dar libertá e proprietá agli uomini che le abitano: con questa sola operazione, han quasi triplicato il valore delle terre loro.
I feudatari prevedevano che la rivoluzione li avrebbe obbligati a nuovi sacrifici, e bramavano che fossero i minori possibili. Taluni repubblicani troppo ardenti avrebbero voluto loro toglier tutto. Tra questi due estremi il mezzo era difficile a rinvenirsi. Non vi era neanche un esempio da seguire: la Francia, ove i grandi feudatari eran rimasti distrutti dalla guerra civile, non ebbe bisogno di leggi dopo l’opera delle armi (35). Giuseppe secondo nella Lombardia avea da lungo tempo eguagliata la condizione de’ beni.
Molte popolazioni incominciarono dal fatto, prendendo il possesso di tutti i beni de’ baroni: se tutte avessero fatto lo stesso, la legge sarebbe stata men difficile a concepirsi. La forza autorizza molte cose che la ragione non deve ordinare, ed il popolo stesso ama di veder approvati molti trascorsi che fremerebbe vedendo comandati.
La discussione del progetto di legge fu interessante. Le due parti contendenti seguivano opinioni diverse, secondo i loro diversi interessi; i princípi erano opposti, e, come suole avvenire allorché si va agli estremi, né sempre veri né sempre atti alla quistione.
I feudatari credevano che la conquista potesse essere un diritto; i repubblicani la credevano sempre una forza, e, quando anche avesse potuto diventar diritto, dicevano che, se un tempo i baroni aveano conquistata la nazione, ora la nazione avea conquistati i baroni: una nuova conquista potea spogliare gli usurpatori nel modo stesso e collo stesso diritto con cui essi spogliato aveano altri usurpatori piú antichi.
I feudatari credevano legittimi tutti i titoli che dipendevano dall’antico governo, che essi riputavano del pari legittimo: i patrioti credevano illegittimo tutto ciò che non era stato fatto da una repubblica. Se si udivano i feudatari, tutto dovea conservarsi; se si udivano i patrioti, tutto dovea distruggersi, poiché, dichiarato una volta illegittimo un governo, non vi era ragione per cui parte dei suoi atti si dovesse abolire e parte conservare.
Questo era lo stesso che far la causa degli usurpatori e dei governi e non dell’umanitá e della nazione, che eran tradite per soverchio zelo dai loro stessi difensori. Oggi si dice: – Un re non potea far questo; – domani un re avrebbe detto: – Questo non si potea far da una repubblica. – Quando prenderemo noi per principio la salute del popolo ed esamineremo, non ciò che un governo potea, ma solo ciò che dovea fare?
Voler ricercare un titolo di proprietá nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietá: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa proprietá se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica imperiosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni, nulla hanno e nulla debbono aver di piú sacro che i costumi dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è necessario riformare, la rivoluzione avrá molti nemici e pochissimi amici.
La feudalitá presso di noi presentava una massa immensa di possessi, di proprietá, di esazioni, di preminenze, di diritti, acquistati, ricevuti, usurpati da diverse mani ed in tempi diversi. I feudatari non furono in origine che semplici possessori di fondi coll’obbligo della fedeltá, e, colla legge della devoluzione, essi non differivano dagli altri proprietari se non per aver ricevute dalla mano di un uomo quelle terre che altri ricevute avea dalla sorte. Ma i grandi feudatari erano nel tempo istesso
grandi officiali della corona, ed, in tempi di anarchia o di debolezza, quei rappresentanti della sovranitá, potenti ed inamovibili, fecero obbliar la sovranitá che rappresentavano: quei diritti, che essi esercitavano come officiali della corona, divennero prima diritti del feudatario, indi della sua famiglia, finalmente del feudo. In tempi di continue guerre civili, i pochi uomini liberi che eran rimasti nelle nostre regioni, non avendo né sicurezza né proprietá, chiesero la protezione dei potenti e l’ottennero a prezzo di libertá.
Grandi erano certamente questi abusi; ma tale era l’infelicitá dei tempi, tale la condizione degli uomini, tale la desolazione delle nostre contrade, che essi dovettero sembrar tollerabili effetti, e talora, giunti all’estremo, produssero il ritorno del bene. Gli uomini moltiplicati dovettero estendere la loro industria e reclamarono la loro libertá civile: è questo il primo passo che le nazioni fanno verso la coltura. Un re di spirito generoso, che voleva elevarsi, si rese forte col favore del popolo, che egli difese contro gli altri tiranni minori, e le monarchie di Europa sorsero dalle rovine dell’aristocrazia feudale. Noi vediamo nella nostra storia tutti i passi dati dal popolo, le opposizioni de’ baroni, l’ondeggiar perpetuo de’ sovrani a seconda che temevano o de’ baroni o de’ popoli, e la rapacitá del fisco, eterno traditore de’ baroni, de’ popoli e dei re. La storia indica la strada da seguire uniforme alle idee de’ popoli; le stesse leggi feudali indicano la riforma della feudalitá; quella riforma, che i popoli bramano, che i baroni non possono impugnare.
Non bastava una legge che dichiarasse abolita la feudalitá: questa legge sarebbe stata piú pomposa che utile. Poco rimaneva presso di noi che avesse l’apparenza feudale: il difficile era riconoscer la feudalitá anche dove parea che non vi fosse. I feudatari aveano de’ diritti acquistati come officiali della corona e come protettori de’ popoli: tali diritti non doveano piú esistere in una forma di governo, in cui la sovranitá veniva restituita al popolo ed il cittadino non dovea aver altro protettore che la legge. I baroni possedevano delle terre: non bastava che queste fossero eguagliate alla condizione delle altre. Se la riforma fosse rimasta a questi termini, i baroni, sgravati dall’adoa e dalla devoluzione, divenuti proprietari di terre libere, avrebbero guadagnato molto piú di quello che loro dava l’esazione de’ diritti incerti, vacillanti ed odiosi: il popolo non avrebbe guadagnato nulla.
In una nazione, in cui l’industria è attiva, sará vantaggio del feudatario far coltivare le sue terre dall’uomo libero, anziché dallo schiavo. Una nazione oziosa e povera chiede esser sgravata dai tributi: una nazione ricca ed industriosa è contenta di pagare, purché abbia mezzi di accrescer la sua industria. Nell’immensa estensione di terreni che i baroni possedevano, non vi erano che pochi i quali appartenessero al feudo: negli altri voi vedevate un cumulo di diritti diversi accatastati l’uno sopra l’altro ed appartenenti a persone diverse, tra le quali era facile il riconoscere che il piú potente dovea esser l’usurpatore. Quindi veniva restituita alle popolazioni gran parte di quella massa di terreni feudali, chiamati «demaniali de’ feudi» e che ne formavano la maggior parte; i boschi doveano per necessitá divenire oggetti di pubblica ispezione; ai feudatari veniva a rimaner pure tanto di terreno da esser ricchi, quando all’ozio avessero sostituita l’industria; e la nazione, senza legge agraria, avrebbe avuta, se non la perfetta eguaglianza, almeno quella moderazione di beni, che in una gran nazione è piú utile, meno pericolosa e piú vicina alla vera eguaglianza.
Non mai si vide piú chiaramente quanto il freddo e costante esame sia piú pericoloso agli usurpatori che il caldo e momentaneo entusiasmo. I baroni avrebbero mille volte amato ritornare ai princípi della «conquista» e della «legittimitá», che, sebbene in apparenza piú distruttivi, erano piú facili a combattersi, piú facili ad eludersi nell’esecuzione. Ma come combattere princípi evidenti, che essi stessi aveano riconosciuti anche nell’abolito governo?
Ad onta di tutto ciò, il progetto non passò senza grandi dispareri: la spirante feudalitá avea tuttavia molti difensori. Talun legislatore credeva nulla potersi decidere sulla feudalitá, perché nulla avea deciso la Francia: invincibile argomento per un rappresentante di una nazione libera ed indipendente! Pagano credeva non esser giunto ancora il tempo di decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni de’ diritti, ma voleva che non si toccassero i terreni, quasi che un popolo non dovesse esser oppresso, ma potesse essere legittimamente misero. Taluno volea che l’affare si fosse commesso ad un tribunale, che si sarebbe di ciò incaricato; ma, se le leggi sono fatte pel popolo, i giudizi sono fatti per i potenti, i quali, col possesso, coi cavilli e talora colla prevaricazione, riacquistano coi giudizi tutto ciò che il popolo avea guadagnato colle leggi.
Tanto importa che le idee del legislatore sieno a livello con quelle della nazione e che i progetti di legge contengano quelle idee medie, che tutti gli uomini sentono ed a cui tutti convengono! Se si fosse rimasto agli estremi, la legge non si sarebbe avuta o avrebbe prodotta una guerra civile; essa avrebbe portata con sé l’apparenza dell’ingiustizia. Fondata su princípi che nessuno poteva negare, gli stessi baroni piú avversi alla rivoluzione l’avrebbero sofferta, se non con indifferenza (poiché chi potrebbe pretendere che taluno resti indifferente alla perdita di tante ricchezze?), almeno con decoro.
Ma, nel tempo appunto in cui il governo era occupato della discussione del progetto di questa legge, Championnet fu richiamato, e Magdonald, che a lui successe, fu ben lontano dal voler sanzionare ciò che il governo avea fatto. Si dovette aspettare Abrial, il quale fu ragionevole e giusto. Ma intanto il tempo era scorso, ed il timore di disgustar diecimila potenti fece perdere ai francesi ed alla repubblica l’occasione di guadagnar gli animi di cinque milioni.
È degna di osservazione la differenza che passa tra la discussione che sulla feudalitá vi fu in Francia e quella che vi è stata tra noi. Parlando della prima, Anquetil dice che la discussione dell’Assemblea incominciò da una proposizione fatta per render sicura l’esazione delle rendite a coloro che ne possedevano i diritti, e, passando da idea in idea, si finí coll’abolizione di tutti i diritti.
In Francia s’incominciò dalle massime moderate e si passò alle esagerate; in Napoli da queste si ritornò a quelle. Ed era ciò nell’ordine della natura, perché noi riprendevamo le idee dal punto istesso nel quale le avean lasciate i francesi. Quindi è che tra noi furono piú esagerate le opinioni de’ privati che le idee del governo. Il governo seguí la massima che le leggi sulle proprietá hanno una giustizia propria, la quale consiste nel far sí che ciascuno perda il meno che sia possibile; e, nel caso della riforma feudale, si può far in modo che guadagnino ambedue i partiti. Io per me son sicuro che i feudatari potrebbero guadagnar piú con una legge nuova che colle antiche. I diritti feudali si sostengono pel solo uso del fòro. Da che fu imposto tra noi l’obbligo ai giudici di dettar le loro sentenze sul testo espresso della legge, i diritti feudali sono stati di giorno in giorno aboliti, e col tempo lo saranno tutti. Ma una legge nuova dovea considerarsi piuttosto come una transazione che come un decreto; ed il lunghissimo possesso poteva per essa acquistar forza di titolo. La nuova legge feudale non dovea aver per iscopo né chimerica eguaglianza di beni né revindica di domíni, ma solamente di liberare il popolo da tutto ciò che turbava l’esercizio dell’autoritá pubblica, comprimeva e distruggeva l’industria ed impediva la libera circolazione delle proprietá.
(35) Nella Francia vi fu ne’ primi giorni dalla rivoluzione una legge feudale, ma essa non riformò che i disordini piú orribili, i quali non vi erano piú tra noi. La feudalitá in Francia era piú gravosa che in Napoli. Noi dovevamo incominciare precisamente dal punto in cui eransi arrestate le leggi francesi. Or questa seconda riforma era stata fatta in Francia dalla guerra civile.
XXV
RELIGIONE
Oggi le idee de’ popoli di Europa sono giunte a tale stato, che non è possibile quasi una rivoluzione politica senza che strascini seco un’altra rivoluzione religiosa, doveché prima la rivoluzione religiosa era quella che per lo piú produceva la politica. Da ciò forse nasce che le rivoluzioni moderne abbiano meno durata delle antiche? (36).
In Francia la parte della rivoluzione religiosa dovette esser violenta, perché violento era lo stato della nazione a questo riguardo. Si riunivano in Francia tutti gli estremi. Essa avea innalzata in Europa l’autoritá papale; essa era stata la prima a scuoterne il giogo, ma scuotendolo non l’avea rotto come si era fatto in Inghilterra, ma le antiche idee erano rimaste per materia di eterne dispute su degli oggetti che conviene solamente credere. Il clero era continuamente alle prese con Roma; i parlamenti lo erano col clero; la corte ondeggiava tra il clero, i parlamenti e Roma. La nazione non si potea arrestare ai primi passi, una volta dati: l’incredulitá venne dietro all’esame; ma, nata in mezzo ai partiti, risvegliar dovette la gelosia dei potenti, e si vide in Francia la massima tolleranza ne’ filosofi e la massima intolleranza nel governo e nella nazione. Poche nazioni di Europa possono, in questo pregio di barbara intolleranza, contendere coi colti ed umani francesi.
La nazione napolitana trovavasi in uno stato meno violento. La religione era un affare individuale; e, siccome esso non interessava né il governo né la nazione, cosí le ingiurie fatte agli dèi si lasciavano agli dèi istessi. Il popolo napolitano amava la sua religione, ma la religione del popolo non era che una festa, e, purché la festa se gli fosse lasciata, non si curava di altro. In Napoli non vi era da temere nessuno de’ mali che l’abuso della religione ha persuasi a tanti popoli della terra.
Il fondo della religione è uno, ma veste nelle varie regioni forme diverse a seconda della diversa indole dei popoli. Essa rassomiglia molto alla favella di ciascuno di essi. In Francia, per esempio, al pari della lingua, è piú didascalica che in Italia; in Italia è piú poetica, cioè piú liturgica, che in Francia. In Francia la religione interessa piú lo spirito che il cuore ed i sensi; in Napoli, piú i sensi ed il cuore che lo spirito.
Qual altra nazione di Europa si può vantare di non aver mai prodotta una setta di eresia e di essersi sempre ribellata ogni volta che le si è parlato di Sant’officio e d’Inquisizione? La nazione che ha eretto un tribunale nazionale indipendente dal re contro questa barbara istituzione, che tutte le altre nazioni di Europa hanno almen per qualche tempo riconosciuta e tollerata, deve essere la piú umana di tutte.
In Napoli era facile far delle riforme sulle ricchezze del clero tanto secolare quanto regolare. Una gran parte della nazione era in lite col medesimo per ispogliarlo delle sue rendite, né il rispetto per la religione e per i suoi ministri l’arrestava. Perché dunque, quando queste riforme si vollero tentare dalla repubblica, furono odiate? Perché i nostri repubblicani, seguendo sempre idee troppo esagerate, voleano far due passi nel tempo in cui ne doveano far uno: l’altro avrebbe dovuto venir da sé, e sarebbe venuto. Ma essi, mentre voleano spogliare i preti, volean distruggere gli dèi; si uní
l’interesse dei primi e dei secondi, e si rese piú forte la causa dei primi. Ritorniamo sempre allo stesso principio: si volea fare piú di quello che il popolo volea, e conveniva retrocedere; si potea giugnere alla mèta, ma se ne ignorava la strada.
Conforti credeva che una religione non si possa riformare se non per mezzo di un’altra religione. La religione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicitá del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal governo e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio di ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale(37).
Nessun’altra religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertá. La pagana avea per suo dogma fondamentale la forza: produceva degli schiavi indocili e dei padroni tirannici. La religion cristiana ha per base la giustizia universale: impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re, e rende quelli piú docili, questi meno oppressori. La religione cristiana è stata la prima che abbia detto agli uomini che Iddio non approva la schiavitú: per effetto della religione cristiana, abbiamo nell’Europa moderna una specie di libertá diversa dall’antica; ed è probabile che i primi cristiani, nella loro origine, altro non fossero che persone le quali volevano, in tempi corrottissimi, ridurre la piú superstiziosa idolatria alla semplicitá della pura ed eterna ragione, ed il piú orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere umano (tale era quello di Roma) alle norme della giustizia.
Ma gli uomini (diceva Conforti) corrono sempre agli estremi. La filosofia, dopo aver predicata la tolleranza, è diventata intollerante(38), senza ricordarsi che, se non è degno della religione il forzar la religione, non è degno neanche della filosofia. Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerá una da se stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sé, allora la religione sará indifferente al governo e talora nemica. Cosí tutti gli abusi della religione cristiana sono nati da quegli stessi mezzi che si voglion prendere oggi per ripararli.
Conforti credeva che la Francia istessa si sarebbe un giorno ricreduta de’ suoi princípi, e che, quando si credeva di aver distrutti i preti, altro non avea fatto che accrescerne il desiderio, e che avrebbe dovuto renderli di nuovo, contentandosi il governo di potersi restringere a quelle riforme alle quali si sarebbe dovuto arrestare.
Ma gli altri erano lontani dall’avere le idee di Conforti, né seppero mai determinarsi a prendere su tale oggetto un espediente generale (39). Ondeggiando tra lo stato della nazione e gli esempi della rivoluzion di Francia, abbandonarono quest’oggetto importante alla condotta degli agenti subalterni; e questo fu il peggior partito a cui si potessero appigliare. Un atto di forza avrebbe fatto odiare e temere il governo: questa indolenza lo fece odiare e disprezzare nel tempo istesso.
Il popolo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggior odio contro i repubblicani quanto che vedeva le loro operazioni essere effetti della sola loro volontá individuale. L’odio contro gl’individui che governano, odio che poco può in un governo antico, è pericolosissimo in un governo nuovo; perché, siccome il governo nuovo è tale quale lo formano gl’individui che lo compongono, il popolo contro gl’individui niun soccorso aspetta da un governo che conosce, e l’odio contro di quelli diventa odio contro di questo.
È un carattere indelebile dell’uomo quello di sostener con piú calore le opinioni proprie che le altrui, piú le opinioni che crede nuove e particolari che le antiche e comuni. Io credo, e fermamente credo, che, se le operazioni che taluni agenti si permisero contro i preti fossero state ordinate dal governo, il loro zelo sarebbe stato minore. La legge nulla determinava: il suo silenzio proteggeva le persone ed i beni degli ecclesiastici; quindi quei pochi agenti del governo, che voleano dare sfogo alle loro idee proprie, si doveano restringere agl’insulti. Or gl’insulti ricadono piú direttamente contro gli dèi, e le operazioni contro gli uomini. La condotta di molti repubblicani era tanto piú pericolosa quanto che si restringeva alle sole parole: mentre si minacciavano i preti, si lasciavano; ed essi ripetevano al popolo che gli agenti del governo l’aveano piú colla religione che coi religiosi, perché, mentre si lasciavano i beni, si attaccavano le opinioni. Si avrebbe dovuto far precisamente il contrario, ed allora tutto sarebbe stato nell’ordine.
Il governo si avvide, ma tardi, dell’errore: volle emendarsi e fece peggio. Il popolo comprese che il governo operava piú per timore che per interna persuasione; e, quando ciò si è compreso, tutto è perduto.
(36) Rousseau, domandato dall’autore de’ Studi della natura perché mai, con tanto amore per l’umanitá e tanto disgusto per gli uomini, non avea imitato Penn e non si era ritirato con pochi saggi a fondare una colonia in America, rispose: -Qual differenza! Si credeva nel secolo di Penn, e non si crede piú nel mio! – (37) Queste idee erano giá popolari in Napoli. La disputa sulla chinea avea istruiti tutti sulla legittimitá di un concilio nazionale. Si era veduto un gran prelato declamare contro l’abuso delle indulgenze e del celibato, e ciò senza scandalo.
(38) Lo stesso cammino tenne il cristianesimo, che in origine non fu che filosofia. Cominciò dal predicar la tolleranza: essa non era venuta per i soli figli di Abramo, ma per tutte le genti; ma in seguito, divenuta dominante, neanche i figli di Abramo furono da lei risparmiati.
(39) Rendiamo giustizia ai migliori tra’ nostri. Essi intendevano l’importanza delle opinioni religiose in un popolo.
XXVI
TRUPPA
Un governo nuovo ha piú bisogno di forza che un governo antico, perché l’esecuzione della legge, per quanto sia giusta, non può esser mai con sicurezza affidata al pubblico costume: gli scellerati, che non mancano giammai, hanno campo maggiore di calunniarla e di eluderla; ed i deboli sono piú facilmente sedotti o trascinati nell’ondeggiar dubbioso tra le antiche opinioni e le nuove.
I francesi impedirono però ogni organizzazione di forza nella repubblica napolitana. Il primo loro errore fu quello di temer troppo la capitale; il secondo, di non temere abbastanza le province.
Essi non aveano truppa per inviarvene, e di ciò non poteano esser condannati; ma essi non permisero che si organizzasse truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di ciò non possono esser scusati.
Dagli avanzi dell’esercito del re di Napoli si potea formare sul momento un corpo di trentamila uomini, di persone che altro non chiedevano che vivere. Essi formavano il fiore dell’esercito del re, poiché erano quelli appunto che erano stati gli ultimi a deporre le armi. Tra questi, per il loro coraggio, si distinsero i «camisciotti»: contesero a palmo a palmo il terreno fino al castello del Carmine. Ciò dovea farli stimare, e li fece odiare. Furono fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per la repubblica o mandarli via. Si lasciarono liberi per Napoli, e furono stipendiati da coloro che in segreto macchinavano la rivoluzione. Si tennero cosí i controrivoluzionari nel seno istesso della capitale.
S’incominciò a raccogliere i soldati del re in Capua, indi un’altra volta in Portici. La repubblica napolitana era in istato di mantenerli; essi avrebbero potuto salvar la patria, salvar l’Italia: ma, appena si vide incominciare l’operazione, che fu proibita. A quei pochissimi soldati che si permise di ritenere non si accordarono se non a stento le armi, che erano tutte nei castelli in potere dei francesi.
Intanto si volea disarmare la popolazione. Come farlo senza forze? Ma i francesi temeano egualmente le popolazioni ed i patrioti; e questo loro soverchio timore fece dipoi che le popolazioni si trovassero armate per offenderli, ed i patrioti per difendersi disarmati. Si ordinava il disarmo, ed
intanto i custodi francesi delle armi, non conoscendo gli uomini e le cose in un paese per essi nuovo, le vendevano; e ne compravano egualmente tanto il governo repubblicano, a cui era giusto restituirle senza paga, quanto i traditori, a cui era ingiusto darle anche con paga. I mercenari, che avrebbero potuto diventar nostri amici, non avendo onde vivere, passarono a raddoppiar la forza dei nemici nostri.
Oltre di una truppa di linea, si avrebbe potuto sollecitamente organizzare una gendarmeria: allora quando ordinossi a tutt’i baroni di licenziare le loro genti d’armi, costoro sarebbero passati volentieri al servizio della repubblica; essi non sapevano far altro mestiere: abbandonati dalla repubblica, si riunirono agl’insorgenti. Essi avrebbero potuto formare un corpo di cinque in seimila uomini, e tutti valorosi.
Si ordinò congedarsi gli armigeri baronali, e non si pensò alla loro sussistenza; si soppressero i tribunali provinciali, e non si pensò alla sussistenza di tanti individui che componevano le loro forze e che ascendevano ad un numero anche maggiore degli armigeri… – Essi sono dei scellerati – diceva taluno, il quale voleva anche i gendarmi eroi. Ma questi scellerati continuarono ad esistere, poiché era impossibile ed inumano il distruggerli, ed esistettero a danno della repubblica. Erasi obbliato il gran principio che «bisogna che tutto il mondo viva».
L’avea del tutto obbliato De Rensis, allorché pubblicò quel proclama con cui diceva agli uffiziali del re che «a chiunque avesse servito il tiranno nulla a sperar rimanea da un governo repubblicano». Questo linguaggio, in bocca di un ministro di guerra, dir volea a mille e cinquecento famiglie, che aveano qualche nome e molte aderenze nella capitale: – Se volete vivere, fate che ritorni il vostro re. – Questo proclama segnò l’epoca della congiura degli uffiziali. Il proclama fu corretto dal governo col fatto, poiché molti uffiziali del re furono dalla repubblica impiegati. Ben si vide dalle persone che avean senno esser stato esso piuttosto feroce nelle parole che nelle idee, effetto di quella specie di eloquenza che allora predominava, e per la quale la parola la piú energica si preferiva sempre alla piú esatta; ma, io lo ripeto, nelle rivoluzioni passive, quando le opinioni sono varie ed ancora incerte, le parole poco misurate posson produrre gravissimi mali. Le eccezioni, le quali si reputan sempre figlie del favore, non distruggevano le impressioni prodotte una volta dalla legge generale: molti rimasero ancora ondeggianti; moltissimi si trovavano giá aver dati passi irretrattabili contro un governo che credevano ingiusto. La durata della nostra repubblica non fu che di cinque mesi: nei primi gli uffiziali non poterono ottener gradi; negli ultimi non vollero accettarne.
Si vuole dippiú? Degli stessi insorgenti si avrebbero potuto formare tanti amici. Essi seguivano un capo, il quale per lo piú non era che un ambizioso: questo capo, quando non avesse potuto estinguersi, si poteva guadagnare, e le sue forze si sarebbero rivolte a difendere quella repubblica, che mostrava di voler distruggere.
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XXVII
GUARDIA NAZIONALE
Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze della patria sulla guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev’essere la forza del popolo, e non mai quella del governo.
Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo credette non dover avere altra forza: la Vandea non fu mai ridotta, gli assassini ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú sicurezza pubblica ed invece della tranquillitá si ebbero le sedizioni. Il primo difetto di ogni guardia nazionale è l’esser piú atta all’entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando non difende la nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è armata contro dell’altra, è impossibile evitare che ciascun partito non abbia tra le forze dell’altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno ritardino le operazioni.
La vera forza della guardia nazionale risulta dall’uniformitá dell’opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformitá, convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario attaccamento alla causa, o che abbiano
nella loro educazione princípi di onestá e nel loro stato civile una cautela di responsabilitá. Quei tali che Aristotile direbbe formare in ogni cittá la classe degli ottimi, se non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori.
Io parlo sempre de’ princípi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella cittá, disperando dell’abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l’opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formar la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialitá anche nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si ritirò, e non si ebbe l’avvertenza neanche di conservare il libro che conteneva i loro nomi.
Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano piú. Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si ordinò un’imposizione per coloro che volessero essere esentati: dico «volessero», perché i motivi di esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i migliori del paese, ma essi per lo piú erano ricchi, e comprarono l’esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestá né beni, e cosí la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici.
Si volle sforzar la nazione, che solo si dovea invitare. L’imposizione riuscí gravosissima per le province. Il governo era passato da un estremo all’altro: prima non volea nessuno, poi voleva tutti.
Era però da riflettersi che questa misura fu presa quando giá incominciava a vedersi lo stato intero delle cose volgersi ad inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera non vi è luogo a calcolo, cosí in chi giudica non deve predominar il sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi, tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è poi costretto a volere ciò che non può! Altre massime, altra direzione nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di dover fondare tutte le speranze della patria nella guardia nazionale; e forse la patria sarebbesi salvata.
Se la guardia nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché, essendo la rivoluzione passiva, la massima parte della nazione dovea supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre trovata piú diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o temevasi danno dalle insorgenze. L’amor di sé ridestava l’amor della patria. Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e nella capitale fu piú numerosa e piú attiva di quello che si avrebbe potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette intenzioni, né il popolo di buona volontá: l’errore era tutto nelle massime e nella prima direzione data agli affari. A misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio, vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che trar si possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto quello di vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo errore. Gli uomini diventeranno piú saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo avvenimento può produrre.
XXVIII
IMPOSIZIONI
Championnet, entrando coll’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi avea fatte.
Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabilì quindici milioni per le province, a suo tempo.
Ma chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un’imposizione per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla quantitá dei beni che nell’officio della decima trovavasi giá liquidata. Si videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta a chi avea sessantamila ducati all’anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era piú giusto che dassero le prime l’esempio di contribuire con generositá ai bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era imposizione fu considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di aristocrazia che taluno avea nel cuore. – Noi tassiamo l’opinione – risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l’affare una massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di un’armata vittoriosa e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all’arbitrio. Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate e mal dirette; quando anche evitate l’ingiustizia, non potete evitare il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi dell’ingiustizia.
Difatti non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l’imposizione. Fu permesso di pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu nel tempo istesso il tesoriere, il ricevitore, l’apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse trafficato non colla bilancia dell’equitá, ma con quella dell’interesse dell’esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni sospetto.
Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche l’attrasso di ciò che doveano all’antico. Quest’ordine fatale dovette esser segnato in qualche momento d’inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí l’antico stile, lo stile di tutt’i governi: difatti fu un solo dei membri componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed avea fatta sperare l’abolizione intera. La decima interessava piú la capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá, si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione?
In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de’ principali della cittá e che conosceva gli uomini, si oppose alla pubblicazione ed all’esecuzione dell’ordine. Egli ne prevedeva le funeste conseguenze.
Il governo non si rimosse; e quale ne fu l’effetto? Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore popolare.
Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell’energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni dei privati non turbino l’unitá delle pubbliche operazioni. L’esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell’esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de’ popoli verso colui che ha vinto, e impongono al vincitore verso l’umanitá l’obbligo di un compenso infinito, che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
XXIX
FAIPOULT(40)
Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la libertá; e, per conciliar la promessa e l’editto, si chiamava «frutto della conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re.
Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la reggia, che suo padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del re» i fondi dell’ordine di Malta e dell’ordine costantiniano, i quali erano certamente de’ privati (41); i monasteri, che erano de’ monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de’ quali il re non era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni del re i banchi, deposito del danaro de’ privati, la fabbrica della porcellana e gli avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso, ne’ momenti della maggior ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione che si osservava nell’editto di Faipoult.
Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult.
O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito. Tu diventasti allora l’idolo della nazione nostra.
Il richiamo di Championnet fu un male per la repubblica napolitana. Io non voglio decidere del suo merito militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo era un merito ben grande.
(40) Prendo il nome di Faipoult come il nome dell’esecutore, e forsi non volontario, degli ordini del Direttorio francese. Faipoult era un ottimo uomo, che amava e che stimava la nazione nostra: ma egli, come commissario del suo governo, non era altro che esecutore di ordini non suoi. Il governo che oggi ha la Francia gli avrebbe dati al certo ordini diversi.
(41) Quando i francesi aggregarono alla nazione i beni dell’ordine di Malta, dimostrarono che essi non erano dell’ordine, ma della nazione. Se i beni dell’ordine di Malta in Francia eran della nazione francese, i beni dello stesso ordine in Napoli doveano esser dalla nazione napolitana.
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Victor Hugo, Les Miserables, Tome II,Livre Premier
WATERLOO
CE QU’ON RENCONTRE EN VENANT DE NIVELLES
L’an dernier (1861), par une belle matinée de mai, un passant, celui qui raconte cette histoire, arrivait de Nivelles et se dirigeait vers La Hulpe. Il allait à pied. Il suivait, entre deux rangées d’arbres, une large chaussée pavée ondulant sur des collines qui viennent l’une après l’autre, soulèvent la route et la laissent retomber, et font là comme des vagues énormes. Il avait dépassé Lillois et Bois-Seigneur-Isaac. Il apercevait, à l’ouest, le clocher d’ardoise de Braine-l’Alleud qui a la forme d’un vase renversé. Il venait de laisser derrière lui un bois sur une hauteur, et, à l’angle d’un chemin de traverse, à côté d’une espèce de potence vermoulue portant l’inscription : Ancienne barrière n° 4, un cabaret ayant sur sa façade cet écriteau : Au quatre vents. Échabeau, café de particulier.
Un demi-quart de lieue plus loin que ce cabaret, il arriva au fond d’un petit vallon où il y a de l’eau qui passe sous une arche pratiquée dans le remblai de la route. Le bouquet d’arbres, clair-semé mais très vert, qui emplit le vallon d’un côté de la chaussée, s’éparpille de l’autre dans les prairies et s’en va avec grâce et comme en désordre vers Braine-l’Alleud.
Il y avait là, à droite, au bord de la route, une auberge, une charrette à quatre roues devant la porte, un grand faisceau de perches à houblon, une charrue, un tas de broussailles sèches près d’une haie vive, de la chaux qui fumait dans un trou carré, une échelle le long d’un vieux hangar à cloisons de paille. Une jeune fille sarclait dans un champ où une grande affiche jaune, probablement du spectacle forain de quelque kermesse, volait au vent. À l’angle de l’auberge, à côté d’une mare où naviguait une flottille de canards, un sentier mal pavé s’enfonçait dans les broussailles. Ce passant y entra.
Au bout d’une centaine de pas, après avoir longé un mur du quinzième siècle surmonté d’un pignon aigu à briques contrariées, il se trouva en présence d’une grande porte de pierre cintrée, avec imposte rectiligne, dans le grave style de Louis XIV, accostée de deux médaillons plans. Une façade sévère dominait cette porte ; un mur perpendiculaire à la façade venait presque toucher la porte et la flanquait d’un brusque angle droit. Sur le pré devant la porte gisaient trois herses à travers lesquelles poussaient pêle-mêle toutes les fleurs de mai. La porte était fermée. Elle avait pour clôture deux battants décrépits ornés d’un vieux marteau rouillé.
Le soleil était charmant ; les branches avaient ce doux frémissement de mai qui semble venir des nids plus encore que du vent. Un brave petit oiseau, probablement amoureux, vocalisait éperdument dans un grand arbre.
Le passant se courba et considéra dans la pierre à gauche, au bas du pied-droit de la porte, une assez large excavation circulaire ressemblant à l’alvéole d’une sphère. En ce moment les battants s’écartèrent et une paysanne sortit.
Elle vit le passant et aperçut ce qu’il regardait.
— C’est un boulet français qui a fait ça, lui dit-elle. Et elle ajouta :
— Ce que vous voyez là, plus haut, dans la porte, près d’un clou, c’est le trou d’un gros biscaïen. Le biscaïen n’a pas traversé le bois.
— Comment s’appelle cet endroit-ci ? demanda le passant.
— Hougomont, dit la paysanne.
Le passant se redressa. Il fit quelques pas et s’en alla regarder au-dessus des haies. Il aperçut à l’horizon à travers les arbres une espèce de monticule et sur ce monticule quelque chose qui, de loin, ressemblait à un lion.
Il était dans le champ de bataille de Waterloo.
II
HOUGOMONT
Hougomont, ce fut là un lieu funèbre, le commencement de l’obstacle, la première résistance que rencontra à Waterloo ce grand bûcheron de l’Europe qu’on appelait Napoléon ; le premier nœud sous le coup de hache.
C’était un château, ce n’est plus qu’une ferme. Hougomont, pour l’antiquaire, c’est Hugomons. Ce manoir fut bâti par Hugo, sire de Somerel, le même qui dota la sixième chapellenie de l’abbaye de Villiers.
Le passant poussa la porte, coudoya sous un porche une vieille calèche, et entra dans la cour.
La première chose qui le frappa dans ce préau, ce fut une porte du seizième siècle qui y simule une arcade, tout étant tombé autour d’elle. L’aspect monumental naît souvent de la ruine. Auprès de l’arcade s’ouvre dans un mur une autre porte avec claveaux du temps de Henri IV, laissant voir les arbres d’un verger. À côté de cette porte un trou à fumier, des pioches et des pelles, quelques charrettes, un vieux puits avec sa dalle et son tourniquet de fer, un poulain qui saute, un dindon qui fait la roue, une chapelle que surmonte un petit clocher, un poirier en fleur en espalier sur le mur de la chapelle, voilà cette cour dont la conquête fut un rêve de Napoléon. Ce coin de terre, s’il eût pu le prendre, lui eût peut-être donné le monde. Des poules y éparpillent du bec la poussière. On entend un grondement, c’est un gros chien qui montre les dents et qui remplace les Anglais.
Les Anglais là ont été admirables. Les quatre compagnies des gardes de Cooke y ont tenu tête pendant sept heures à l’acharnement d’une armée.
Hougomont, vu sur la carte, en plan géométral, bâtiments et enclos compris, présente une espèce de rectangle irrégulier dont un angle aurait été entaillé. C’est à cet angle qu’est la porte méridionale gardée par ce mur qui la fusille à bout portant. Hougomont a deux portes, la porte méridionale, celle du château, et la porte septentrionale, celle de la ferme. Napoléon envoya contre Hougomont son frère Jérôme ; les divisions Guilleminot, Foy et Bachelu s’y heurtèrent, presque tout le corps de Reille y fut employé et y échoua, les boulets de Kellermann s’épuisèrent sur cet héroïque pan de mur. Ce ne fut pas trop de la brigade Bauduin pour forcer Hougomont au nord, et la brigade Soye ne put que l’entamer au sud, sans le prendre.
Les bâtiments de la ferme bordent la cour au sud. Un morceau de la porte nord, brisée par les Français, pend accroché au mur. Ce sont quatre planches clouées sur deux traverses, et où l’on distingue les balafres de l’attaque.
La porte septentrionale, enfoncée par les français, et à laquelle on a mis une pièce pour remplacer le panneau suspendu à la muraille, s’entrebâille au fond du préau ; elle est coupée carrément dans un mur, de pierre en bas, de brique en haut, qui ferme la cour au nord. C’est une simple porte charretière comme il y en a dans toutes les métairies, deux larges battants faits de planches rustiques ; au delà, des prairies. La dispute de cette entrée a été furieuse. On a longtemps vu sur le montant de la porte toutes sortes d’empreintes de mains sanglantes. C’est là que Bauduin fut tué.
L’orage du combat est encore dans cette cour ; l’horreur y est visible ; le bouleversement de la mêlée s’y est pétrifié ; cela vit, cela meurt ; c’était hier. Les murs agonisent, les pierres tombent, les brèches crient ; les trous sont des plaies ; les arbres penchés et frissonnants semblent faire effort pour s’enfuir.
Cette cour, en 1815, était plus bâtie qu’elle ne l’est aujourd’hui. Des constructions qu’on a depuis jetées bas y faisaient des redans, des angles et des coudes d’équerre.
Les anglais s’y étaient barricadés ; les français y pénétrèrent, mais ne purent s’y maintenir. À côté de la chapelle, une aile du château, le seul débris qui reste du manoir d’Hougomont, se dresse écroulée, on pourrait dire éventrée. Le château servit de donjon, la chapelle servit de blockhaus. On s’y extermina. Les français, arquebusés de toutes parts, de derrière les murailles, du haut des greniers, du fond des caves, par toutes les croisées, par tous les soupiraux, par toutes les fentes des pierres, apportèrent des fascines et mirent le feu aux murs et aux hommes ; la mitraille eut pour réplique l’incendie.
On entrevoit dans l’aile ruinée, à travers des fenêtres garnies de barreaux de fer, les chambres démantelées d’un corps de logis en brique ; les gardes anglaises étaient embusquées dans ces chambres ; la spirale de l’escalier, crevassé du rez-de-chaussée jusqu’au toit, apparaît comme l’intérieur d’un coquillage brisé. L’escalier a deux étages ; les anglais, assiégés dans l’escalier, et massés sur les marches supérieures, avaient coupé les marches inférieures. Ce sont de larges dalles de pierre bleue qui font un monceau dans les orties. Une dizaine de marches tiennent encore au mur ; sur la première est entaillée l’image d’un trident. Ces degrés inaccessibles sont solides dans leurs alvéoles. Tout le reste ressemble à une mâchoire édentée. Deux vieux arbres sont là ; l’un est mort, l’autre est blessé au pied, et reverdit en avril. Depuis 1815, il s’est mis à pousser à travers l’escalier.
On s’est massacré dans la chapelle. Le dedans, redevenu calme, est étrange. On n’y a plus dit la messe depuis le carnage. Pourtant l’autel y est resté, un autel de bois grossier adossé à un fond de pierre brute. Quatre murs lavés au lait de chaux, une porte vis-à-vis l’autel, deux petites fenêtres cintrées, sur la porte un grand crucifix de bois, au-dessus du crucifix un soupirail carré bouché d’une botte de foin, dans un coin à terre un vieux châssis vitré tout cassé, telle est cette chapelle. Près de l’autel est clouée une statue en bois de sainte Anne, du quinzième siècle ; la tête de l’enfant Jésus a été emportée par un biscaïen. Les français, maîtres un moment de la chapelle, puis délogés, l’ont incendiée. Les flammes ont rempli cette masure ; elle a été fournaise ; la porte a brûlé, le plancher a brûlé, le christ, en bois, n’a pas brûlé. Le feu lui a rongé les pieds dont on ne voit plus que les moignons noircis, puis s’est arrêté. Miracle, au dire des gens du pays. L’enfant Jésus, décapité, n’a pas été aussi heureux que le christ.
Les murs sont couverts d’inscriptions. Près des pieds du Christ on lit ce nom : Henquinez. Puis ces autres : Conde de Rio Maïor. Marques y Marquesa de Almagro (Habana). Il y a des noms français avec des points d’exclamation, signes de colère. On a reblanchi le mur en 1849. Les nations s’y insultaient.
C’est à la porte de cette chapelle qu’a été ramassé un cadavre qui tenait une hache à la main. Ce cadavre était le sous-lieutenant Legros.
On sort de la chapelle, et à gauche on voit un puits. Il y en a deux dans cette cour. On demande : pourquoi n’y a-t-il pas de seau et de poulie à celui-ci ? C’est qu’on n’y puise plus d’eau. Pourquoi n’y puise-t-on plus d’eau ? Parce qu’il est plein de squelettes.
Le dernier qui ait tiré de l’eau de ce puits se nommait Guillaume Van Kylsom. C’était un paysan qui habitait Hougomont et y était jardinier. Le 18 juin 1815, sa famille prit la fuite et s’alla cacher dans les bois.
La forêt autour de l’abbaye de Villiers abrita pendant plusieurs jours et plusieurs nuits toutes ces malheureuses populations dispersées. Aujourd’hui encore de certains vestiges reconnaissables, tels que de vieux troncs d’arbres brûlés, marquent la place de ces pauvres bivouacs tremblants au fond des halliers.
Guillaume Van Kylsom demeura à Hougomont « pour garder le château » et se blottit dans une cave. Les anglais l’y découvrirent. On l’arracha de sa cachette, et, à coups de plat de sabre, les combattants se firent servir par cet homme effrayé. Ils avaient soif ; ce Guillaume leur portait à boire. C’est à ce puits qu’il puisait l’eau. Beaucoup burent là leur dernière gorgée. Ce puits, où burent tant de morts, devait mourir lui aussi.
Après l’action, on eut une hâte : enterrer les cadavres. La mort a une façon à elle de harceler la victoire, et elle fait suivre la gloire par la peste. Le typhus est une annexe du triomphe. Ce puits était profond, on en fit un sépulcre. On y jeta trois cents morts. Peut-être avec trop d’empressement. Tous étaient-ils morts ? la légende dit non. Il parait que, la nuit qui suivit l’ensevelissement, on entendit sortir du puits des voix faibles qui appelaient.
Ce puits est isolé au milieu de la cour. Trois murs mi-partis pierre et brique, repliés comme les feuilles d’un paravent et simulant une tourelle carrée, l’entourent de trois côtés. Le quatrième côté est ouvert. C’est par là qu’on puisait l’eau. Le mur du fond a une façon d’œil-de-bœuf informe, peut-être un trou d’obus. Cette tourelle avait un plafond dont il ne reste que les poutres. La ferrure de soutènement du mur de droite dessine une croix. On se penche, et l’œil se perd dans un profond cylindre de brique qu’emplit un entassement de ténèbres. Tout autour du puits, le bas des murs disparaît dans les orties.
Ce puits n’a point pour devanture la large dalle bleue qui sert de tablier à tous les puits de Belgique. La dalle bleue y est remplacée par une traverse à laquelle s’appuient cinq ou six difformes tronçons de bois, noueux et ankylosés, qui ressemblent à de grands ossements. Il n’a plus ni seau, ni chaîne, ni poulie ; mais il a encore la cuvette de pierre qui servait de déversoir. L’eau des pluies s’y amasse, et de temps en temps un oiseau des forêts voisines vient y boire et s’envole.
Une maison dans cette ruine, la maison de la ferme, est encore habitée. La porte de cette maison donne sur la cour. À côté d’une jolie plaque de serrure gothique il y a sur cette porte une poignée de fer à trèfles, posée de biais. Au moment où le lieutenant hanovrien Wilda saisissait cette poignée pour se réfugier dans la ferme, un sapeur français lui abattit la main d’un coup de hache.
La famille qui occupe la maison a pour grand-père l’ancien jardinier Van Kylsom, mort depuis longtemps. Une femme en cheveux gris nous dit : ― J’étais là. J’avais trois ans. Ma sœur, plus grande, avait peur et pleurait. On nous a emportées dans les bois. J’étais dans les bras de ma mère. On se collait l’oreille à terre pour écouter. Moi, j’imitais le canon et je faisais boum, boum.
Une porte de la cour, à gauche, nous l’avons dit, donne dans le verger.
Le verger est terrible.
Il est en trois parties, on pourrait presque dire en trois actes. La première partie est un jardin, la deuxième est le verger, la troisième est un bois. Ces trois parties ont une enceinte commune, du côté de l’entrée les bâtiments du château et de la ferme, à gauche une haie, à droite un mur, au fond un mur. Le mur de droite est en brique, le mur du fond est en pierre. On entre dans le jardin d’abord. Il est en contre-bas, planté de groseilliers, encombré de végétations sauvages, fermé d’un terrassement monumental en pierre de taille avec balustres à double renflement. C’était un jardin seigneurial dans ce premier style français qui a précédé Lenôtre ; ruine et ronce aujourd’hui. Les pilastres sont surmontés de globes qui semblent des boulets de pierre. On compte encore quarante-trois balustres sur leurs dés ; les autres sont couchés dans l’herbe. Presque tous ont des éraflures de mousqueterie. Un balustre brisé est posé sur l’étrave comme une jambe cassée.
C’est dans ce jardin, plus bas que le verger, que six voltigeurs du 1er léger, ayant pénétré là et n’en pouvant plus sortir, pris et traqués comme des ours dans leur fosse, acceptèrent le combat avec deux compagnies hanovriennes, dont une était armée de carabines. Les hanovriens bordaient ces balustres et tiraient d’en haut. Ces voltigeurs, ripostant d’en bas, six contre deux cents, intrépides, n’ayant pour abri que les groseilliers, mirent un quart d’heure à mourir.
On monte quelques marches, et du jardin on passe dans le verger proprement dit. Là, dans ces quelques toises carrées, quinze cents hommes tombèrent en moins d’une heure. Le mur semble prêt à recommencer le combat. Les trente-huit meurtrières percées par les anglais à des hauteurs irrégulières, y sont encore. Devant la seizième sont couchées deux tombes anglaises en granit. Il n’y a de meurtrières qu’au mur sud, l’attaque principale venait de là. Ce mur est caché au dehors par une grande haie vive ; les français arrivèrent, croyant n’avoir affaire qu’à la haie, la franchirent, et trouvèrent le mur, obstacle et embuscade, les gardes anglaises derrière, les trente-huit meurtrières faisant feu à la fois, un orage de mitraille et de balles ; et la brigade Soye s’y brisa. Waterloo commença ainsi.
Le verger pourtant fut pris. On n’avait pas d’échelles, les français grimpèrent avec les ongles. On se battit corps à corps sous les arbres. Toute cette herbe a été mouillée de sang. Un bataillon de Nassau, sept cents hommes, fut foudroyé là. Au dehors le mur, contre lequel furent braquées les deux batteries de Kellermann, est rongé par la mitraille.
Ce verger est sensible comme un autre au mois de mai. Il a ses boutons d’or et ses pâquerettes, l’herbe y est haute, des chevaux de charrue y paissent, des cordes de crin où sèche du linge traversent les intervalles des arbres et font baisser la tête aux passants, on marche dans cette friche et le pied enfonce dans les trous de taupes. Au milieu de l’herbe on remarque un tronc déraciné, gisant, verdissant. Le major Blackmann s’y est adossé pour expirer. Sous un grand arbre voisin est tombé le général allemand Duplat, d’une famille française réfugiée à la révocation de l’édit de Nantes. Tout à côté se penche un vieux pommier malade pansé avec un bandage de paille et de terre glaise. Presque tous les pommiers tombent de vieillesse. Il n’y en a pas un qui n’ait sa balle ou son biscaïen. Les squelettes d’arbres morts abondent dans ce verger. Les corbeaux volent dans les branches, au fond il y a un bois plein de violettes.
Bauduin tué, Foy blessé, l’incendie, le massacre, le carnage, un ruisseau fait de sang anglais, de sang allemand et de sang français, furieusement mêlés, un puits comblé de cadavres, le régiment de Nassau et le régiment de Brunswick détruits, Duplat tué, Blackmann tué, les gardes anglaises mutilées, vingt bataillons français, sur les quarante du corps de Reille, décimés, trois mille hommes, dans cette seule masure de Hougomont, sabrés, écharpés, égorgés, fusillés, brûlés ; et tout cela pour qu’aujourd’hui un paysan dise à un voyageur : Monsieur, donnez-moi trois francs ; si vous aimez, je vous expliquerai la chose de Waterloo !
III
LE 18 JUIN 1815
Retournons en arrière, c’est un des droits du narrateur, et replaçons-nous en l’année 1815, et même un peu avant l’époque où commence l’action racontée dans la première partie de ce livre.
S’il n’avait pas plu dans la nuit du 17 au 18 juin 1815, l’avenir de l’Europe était changé. Quelques gouttes d’eau de plus ou de moins ont fait pencher Napoléon. Pour que Waterloo fût la fin d’Austerlitz, la providence n’a eu besoin que d’un peu de pluie, et un nuage traversant le ciel à contre-sens de la saison a suffi pour l’écroulement d’un monde.
La bataille de Waterloo, et ceci a donné à Blücher le temps d’arriver, n’a pu commencer qu’à onze heures et demie. Pourquoi ? Parce que la terre était mouillée. Il a fallu attendre un peu de raffermissement pour que l’artillerie pût manœuvrer.
Napoléon était officier d’artillerie, et il s’en ressentait. Le fond de ce prodigieux capitaine, c’était l’homme qui, dans le rapport au Directoire sur Aboukir, disait : Tel de nos boulets a tué six hommes. Tous ses plans de bataille sont faits pour le projectile. Faire converger l’artillerie sur un point donné, c’était là sa clef de victoire. Il traitait la stratégie du général ennemi comme une citadelle, et il la battait en brèche. Il accablait le point faible de mitraille ; il nouait et dénouait les batailles avec le canon. Il y avait du tir dans son génie. Enfoncer les carrés, pulvériser les régiments, rompre les lignes, broyer et disperser les masses, tout pour lui était là, frapper, frapper, frapper sans cesse, et il confiait cette besogne au boulet. Méthode redoutable, et qui, jointe au génie, a fait invincible pendant quinze ans ce sombre athlète du pugilat de la guerre.
Le 18 juin 1815, il comptait d’autant plus sur l’artillerie qu’il avait pour lui le nombre. Wellington n’avait que cent cinquante-neuf bouches à feu ; Napoléon en avait deux cent quarante.
Supposez la terre sèche, l’artillerie pouvant rouler, l’action commençait à six heures du matin. La bataille était gagnée et finie à deux heures, trois heures avant la péripétie prussienne.
Quelle quantité de faute y a-t-il de la part de Napoléon dans la perte de cette bataille ? le naufrage est-il imputable au pilote ?
Le déclin physique évident de Napoléon se compliquait-il à cette époque d’une certaine diminution intérieure ? les vingt ans de guerre avaient-ils usé la lame comme le fourreau, l’âme comme le corps ? le vétéran se faisait-il fâcheusement sentir dans le capitaine ? en un mot, ce génie, comme beaucoup d’historiens considérables l’ont cru, s’éclipsait-il ? entrait-il en frénésie pour se déguiser à lui-même son affaiblissement ? commençait-il à osciller sous l’égarement d’un souffle d’aventure ? devenait-il, chose grave dans un général, inconscient du péril ? dans cette classe de grands hommes matériels qu’on peut appeler les géants de l’action, y a-t-il un âge pour la myopie du génie ? La vieillesse n’a pas de prises sur les génies de l’idéal ; pour les Dantes et les Michel-Anges, vieillir, c’est croître ; pour les Annibals et les Bonapartes, est-ce décroître ? Napoléon avait-il perdu le sens direct de la victoire ? en était-il à ne plus reconnaître l’écueil, à ne plus deviner le piége, à ne plus discerner le bord croulant des abîmes ? manquait-il du flair des catastrophes ? lui qui jadis savait toutes les routes du triomphe et qui, du haut de son char d’éclairs, les indiquait d’un doigt souverain, avait-il maintenant cet ahurissement sinistre de mener aux précipices son tumultueux attelage de légions ? était-il pris, à quarante-six ans, d’une folie suprême ? ce cocher titanique du destin n’était-il plus qu’un immense casse-cou ?
Nous ne le pensons point.
Son plan de bataille était, de l’aveu de tous, un chef-d’œuvre. Aller droit au centre de la ligne alliée, faire un trou dans l’ennemi, le couper en deux, pousser la moitié britannique sur Hal et la moitié prussienne sur Tongres, faire de Wellington et de Blücher deux tronçons, enlever Mont-Saint-Jean, saisir Bruxelles, jeter l’allemand dans le Rhin et l’anglais dans la mer. Tout cela, pour Napoléon, était dans cette bataille. Ensuite on verrait.
Il va sans dire que nous ne prétendons pas faire ici l’histoire de Waterloo ; une des scènes génératrices du drame que nous racontons se rattache à cette bataille, mais cette histoire n’est pas notre sujet ; cette histoire d’ailleurs est faite, et faite magistralement, à un point de vue par Napoléon, à l’autre point de vue par toute une pléiade d’historiens [1]. Quant à nous, nous laissons les historiens aux prises ; nous ne sommes qu’un témoin à distance, un passant dans la plaine, un chercheur penché sur cette terre pétrie de chair humaine, prenant peut-être des apparences pour des réalités ; nous n’avons pas le droit de tenir tête, au nom de la science, à un ensemble de faits où il y a sans doute du mirage, nous n’avons ni la pratique militaire ni la compétence stratégique qui autorisent un système ; selon nous, un enchaînement de hasards domine à Waterloo les deux capitaines ; et quand il s’agit du destin, ce mystérieux accusé, nous jugeons comme le peuple, ce juge naïf.
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IV
A
Ceux qui veulent se figurer nettement la bataille de Waterloo n’ont qu’à coucher sur le sol par la pensée un A majuscule. Le jambage gauche de l’A est la route de Nivelles, le jambage droit est la route de Genappe, la corde de l’A est le chemin creux d’Ohain à Braine-l’Alleud. Le sommet de l’A est Mont-Saint-Jean, là est Wellington ; la pointe gauche inférieure est Hougomont, là est Reille avec Jérôme Bonaparte ; la pointe droite inférieure est la Belle-Alliance, là est Napoléon. Un peu au-dessous du point où la corde de l’A rencontre et coupe le jambage droit est la Haie-Sainte. Au milieu de cette corde est le point précis où s’est dit le mot final de la bataille. C’est là qu’on a placé le lion, symbole involontaire du suprême héroïsme de la garde impériale.
Le triangle compris au sommet de l’A, entre les deux jambages et la corde, est le plateau de Mont-Saint-Jean. La dispute de ce plateau fut toute la bataille.
Les ailes des deux armées s’étendent à droite et à gauche des deux routes de Genappe et de Nivelles ; d’Erlon faisant face à Picton, Reille faisant face à Hill.
Derrière la pointe de l’A, derrière le plateau de Mont-Saint-Jean, est la forêt de Soignes.
Quant à la plaine en elle-même, qu’on se représente un vaste terrain ondulant ; chaque pli domine le pli suivant, et toutes les ondulations montent vers Mont-Saint-Jean, et y aboutissent à la forêt.
Deux troupes ennemies sur un champ de bataille sont deux lutteurs. C’est un bras-le-corps. L’une cherche à faire glisser l’autre. On se cramponne à tout ; un buisson est un point d’appui ; un angle de mur est un épaulement ; faute d’une bicoque où s’adosser, un régiment lâche pied ; un ravalement de la plaine, un mouvement de terrain, un sentier transversal à propos, un bois, un ravin, peuvent arrêter le talon de ce colosse qu’on appelle une armée et l’empêcher de reculer. Qui sort du champ est perdu. De là, pour le chef responsable, la nécessité d’examiner la moindre touffe d’arbres et d’approfondir le moindre relief.
Les deux généraux avaient attentivement étudié la plaine de Mont-Saint-Jean, dite aujourd’hui plaine de Waterloo. Dès l’année précédente, Wellington, avec une sagacité prévoyante, l’avait examinée comme un en-cas de grande bataille. Sur ce terrain et pour ce duel, le 18 juin, Wellington avait le bon côté, Napoléon le mauvais. L’armée anglaise était en haut, l’armée française en bas.
Esquisser ici l’aspect de Napoléon à cheval, sa lunette à la main, sur la hauteur de Rossomme, à l’aube du 18 juin 1815, cela est presque de trop. Avant qu’on le montre, tout le monde l’a vu. Ce profil calme sous le petit chapeau de l’école de Brienne, cet uniforme vert, le revers blanc cachant la plaque, la redingote cachant les épaulettes, l’angle du cordon rouge sous le gilet, la culotte de peau, le cheval blanc avec sa housse de velours pourpre ayant aux coins des N couronnées et des aigles, les bottes à l’écuyère sur des bas de soie, les éperons d’argent, l’épée de Marengo, toute cette figure du dernier césar est debout dans les imaginations, acclamée des uns, sévèrement regardée par les autres.
Cette figure a été longtemps toute dans la lumière ; cela tenait à un certain obscurcissement légendaire que la plupart des héros dégagent et qui voile toujours plus ou moins longtemps la vérité ; mais aujourd’hui l’histoire et le jour se font.
Cette clarté, l’histoire, est impitoyable ; elle a cela d’étrange et de divin que, toute lumière qu’elle est et précisément parce qu’elle est lumière, elle met souvent de l’ombre là où l’on voyait des rayons ; du même homme elle fait deux fantômes différents, et l’un attaque l’autre, et en fait justice, et les ténèbres du despote luttent avec l’éblouissement du capitaine. De là une mesure plus vraie dans l’appréciation définitive des peuples. Babylone violée diminue Alexandre ; Rome enchaînée diminue César ; Jérusalem tuée diminue Titus. La tyrannie suit le tyran. C’est un malheur pour un homme de laisser derrière lui de la nuit qui a sa forme.
V
LE « QUID OBSCURUM » DES BATAILLES
Tout le monde connaît la première phase de cette bataille ; début trouble, incertain, hésitant, menaçant pour les deux armées, mais pour les anglais plus encore que pour les français.
Il avait plu toute la nuit ; la terre était défoncée par l’averse ; l’eau s’était çà et là amassée dans les creux de la plaine, comme dans des cuvettes ; sur de certains points les équipages du train en avaient jusqu’à l’essieu ; les sous-ventrières des attelages dégouttaient de boue liquide ; si les blés et les seigles couchés par cette cohue de charrois en masse n’eussent comblé les ornières et fait litière sous les roues, tout mouvement, particulièrement dans les vallons du côté de Papelotte, eût été impossible.
L’affaire commença tard ; Napoléon, nous l’avons expliqué, avait l’habitude de tenir toute l’artillerie dans sa main comme un pistolet, visant tantôt tel point, tantôt tel autre de la bataille, et il avait voulu attendre que les batteries attelées pussent rouler et galoper librement ; il fallait pour cela que le soleil parût et séchât le sol. Mais le soleil ne parut pas. Ce n’était plus le rendez-vous d’Austerlitz. Quand le premier coup de canon fut tiré, le général anglais Colville regarda à sa montre et constata qu’il était onze heures trente-cinq minutes.
L’action s’engagea avec furie, plus de furie peut-être que l’empereur n’eût voulu, par l’aile gauche française sur Hougomont. En même temps Napoléon attaqua le centre en précipitant la brigade Quiot sur la Haie-Sainte, et Ney poussa l’aile droite française contre l’aile gauche anglaise qui s’appuyait sur Papelotte.
L’attaque sur Hougomont avait quelque simulation ; attirer là Wellington, le faire pencher à gauche, tel était le plan. Ce plan eût réussi, si les quatre compagnies des gardes anglaises et les braves Belges de la division Perponcher n’eussent solidement gardé la position, et Wellington, au lieu de s’y masser, put se borner à y envoyer, pour tout renfort, quatre autres compagnies de gardes et un bataillon de Brunswick.
L’attaque de l’aile droite française sur Papelotte était à fond ; culbuter la gauche anglaise, couper la route de Bruxelles, barrer le passage aux prussiens possibles, forcer Mont-Saint-Jean, refouler Wellington sur Hougomont, de là sur Braine-l’Alleud, de là sur Hal, rien de plus net. À part quelques incidents, cette attaque réussit. Papelotte fut pris ; la Haie-Sainte fut enlevée.
Détail à noter. Il y avait dans l’infanterie anglaise, particulièrement dans la brigade de Kempt, force recrues. Ces jeunes soldats, devant nos redoutables fantassins, furent vaillants ; leur inexpérience se tira intrépidement d’affaire ; ils firent surtout un excellent service de tirailleurs ; le soldat en tirailleur, un peu livré à lui-même, devient pour ainsi dire son propre général ; ces recrues montrèrent quelque chose de l’invention et de la furie françaises. Cette infanterie novice eut de la verve. Ceci déplut à Wellington.
Après la prise de la Haie-Sainte, la bataille vacilla.
Il y a dans cette journée, de midi à quatre heures, un intervalle obscur ; le milieu de cette bataille est presque indistinct et participe du sombre de la mêlée. Le crépuscule s’y fait. On aperçoit de vastes fluctuations dans cette brume, un mirage vertigineux, l’attirail de guerre d’alors presque inconnu aujourd’hui, les colbacks à flamme, les sabretaches flottantes, les buffleteries croisées, les gibernes à grenade, les dolmans des hussards, les bottes rouges à mille plis, les lourds shakos enguirlandés de torsades, l’infanterie presque noire de Brunswick mêlée à l’infanterie écarlate d’Angleterre, les soldats anglais ayant aux entournures pour épaulettes de gros bourrelets blancs circulaires, les chevau-légers hanovriens avec leur casque de cuir oblong à bandes de cuivre et à crinières de crins rouges, les écossais aux genoux nus et aux plaids quadrillés, les grandes guêtres blanches de nos grenadiers, des tableaux, non des lignes stratégiques, ce qu’il faut à Salvator Rosa, non ce qu’il faut à Gribeauval.
Une certaine quantité de tempête se mêle toujours à une bataille. Quid obscurum, quid divinum. Chaque historien trace un peu le linéament qui lui plaît dans ces pêle-mêle. Quelle que soit la combinaison des généraux, le choc des masses armées a d’incalculables reflux ; dans l’action, les deux plans des deux chefs entrent l’un dans l’autre et se déforment l’un par l’autre. Tel point du champ de bataille dévore plus de combattants que tel autre, comme ces sols plus ou moins spongieux qui boivent plus ou moins vite l’eau qu’on y jette. On est obligé de reverser là plus de soldats qu’on ne voudrait. Dépenses qui sont l’imprévu. La ligne de bataille flotte et serpente comme un fil, les traînées de sang ruissellent illogiquement, les fronts des armées ondoient, les régiments entrant ou sortant font des caps ou des golfes, tous ces écueils remuent continuellement les uns devant les autres ; où était l’artillerie, accourt la cavalerie ; les bataillons sont des fumées. Il y avait là quelque chose, cherchez, c’est disparu ; les éclaircies se déplacent ; les plis sombres avancent et reculent ; une sorte de vent du sépulcre pousse, refoule, enfle et disperse ces multitudes tragiques. Qu’est-ce qu’une mêlée ? une oscillation. L’immobilité d’un plan mathématique exprime une minute et non une journée. Pour peindre une bataille, il faut de ces puissants peintres qui aient du chaos dans le pinceau ; Rembrandt vaut mieux que Vandermeulen. Vandermeulen, exact à midi, ment à trois heures. La géométrie trompe ; l’ouragan seul est vrai. C’est ce qui donne à Folard le droit de contredire Polybe. Ajoutons qu’il y a toujours un certain instant où la bataille dégénère en combat, se particularise, et s’éparpille en d’innombrables faits de détail qui, pour emprunter l’expression de Napoléon lui-même, « appartiennent plutôt à la biographie des régiments qu’à l’histoire de l’armée ». L’historien, en ce cas, a le droit évident de résumé. Il ne peut que saisir les contours principaux de la lutte, et il n’est donné à aucun narrateur, si consciencieux qu’il soit, de fixer absolument la forme de ce nuage horrible qu’on appelle une bataille.
Ceci, qui est vrai de tous les grands chocs armés, est particulièrement applicable à Waterloo.
Toutefois, dans l’après-midi, à un certain moment, la bataille se précisa.
VI
QUATRE HEURES DE L’APRÈS-MIDI
Vers quatre heures, la situation de l’armée anglaise était grave. Le prince d’Orange commandait le centre, Hill l’aile droite, Picton l’aile gauche. Le prince d’Orange, éperdu et intrépide, criait aux hollando-belges : Nassau ! Brunswick ! jamais en arrière ! Hill, affaibli, venait s’adosser à Wellington, Picton était mort. Dans la même minute où les anglais avaient enlevé aux français le drapeau du 105e de ligne, les français avaient tué aux anglais le général Picton d’une balle à travers la tête. La bataille, pour Wellington, avait deux points d’appui, Hougomont et la Hale-Sainte ; Hougomont tenait encore, mais brûlait ; la Haie-Sainte était prise. Du bataillon allemand qui la défendait, quarante-deux hommes seulement survivaient ; tous les officiers, moins cinq, étaient morts ou pris. Trois mille combattants s’étaient massacrés dans cette grange. Un sergent des gardes anglaises, le premier boxeur de l’Angleterre, réputé par ses compagnons invulnérable, y avait été tué par un petit tambour français. Baring était délogé. Alten était sabré. Plusieurs drapeaux étaient perdus, dont un de la division Alten, et un du bataillon de Lunebourg porté par un prince de la famille de Deux-Ponts. Les Écossais gris n’existaient plus ; les gros dragons de Ponsonby étaient hachés. Cette vaillante cavalerie avait plié sous les lanciers de Bro et sous les cuirassiers de Travers ; de douze cents chevaux il en restait six cents ; des trois lieutenants-colonels, deux étaient à terre, Hamilton blessé, Mater tué. Ponsonby était tombé, troué de sept coups de lance. Gordon était mort, Marsh était mort. Deux divisions, la cinquième et la sixième, étaient détruites.
Hougomont entamé, la Haie-Sainte prise, il n’y avait plus qu’un nœud, le centre. Ce nœud-là tenait toujours. Wellington le renforça. Il y appela Hill qui était à Merbe-Braine, il y appela Chassé qui était à Braine-l’Alleud.
Le centre de l’armée anglaise, un peu concave, très dense et très compact, était fortement situé. Il occupait le plateau de Mont-Saint-Jean, ayant derrière lui le village et devant lui la pente, assez âpre alors. Il s’adossait à cette forte maison de pierre, qui était à cette époque un bien domanial de Nivelles et qui marque l’intersection des routes, masse du seizième siècle si robuste que les boulets y ricochaient sans l’entamer. Tout autour du plateau, les anglais avaient taillé çà et là les haies, fait des embrasures dans les aubépines, mis une gueule de canon entre deux branches, crénelé les buissons. Leur artillerie était en embuscade sous les broussailles. Ce travail punique, incontestablement autorisé par la guerre qui admet le piége, était si bien fait que Haxo, envoyé par l’empereur à neuf heures du matin pour reconnaître les batteries ennemies, n’en avait rien vu, et était revenu dire à Napoléon qu’il n’y avait pas d’obstacle, hors les deux barricades barrant les routes de Nivelles et de Genappe. C’était le moment où la moisson est haute ; sur la lisière du plateau, un bataillon de la brigade de Kempt, le 95e, armé de carabines, était couché dans les grands blés.
Ainsi assuré et contre-buté, le centre de l’armée anglo-hollandaise était en bonne posture.
Le péril de cette position était la forêt de Soignes, alors contiguë au champ de bataille et coupée par les étangs de Grœnendael et de Boitsfort. Une armée n’eût pu y reculer sans se dissoudre ; les régiments s’y fussent tout de suite désagrégés. L’artillerie s’y fût perdue dans les marais. La retraite, selon l’opinion de plusieurs hommes du métier, contestée par d’autres, il est vrai, eût été là un sauve-qui-peut.
Wellington ajouta à ce centre une brigade de Chassé, ôtée à l’aile droite, et une brigade de Wincke, ôtée à l’aile gauche, plus la division Clinton. À ses anglais, aux régiments de Halkett, à la brigade de Mitchell, aux gardes de Maitland, il donna comme épaulements et contre-forts l’infanterie de Brunswick, le contingent de Nassau, les hanovriens de Kielmansegge et les allemands d’Ompteda. Cela lui mit sous la main vingt-six bataillons. L’aile droite, comme dit Charras, fut rabattue derrière le centre. Une batterie énorme était masquée par des sacs à terre à l’endroit où est aujourd’hui ce qu’on appelle « le musée de Waterloo ». Wellington avait en outre dans un pli de terrain les dragons-gardes de Somerset, quatorze cents chevaux. C’était l’autre moitié de cette cavalerie anglaise, si justement célèbre. Ponsomby détruit, restait Somerset.
La batterie, qui, achevée, eût été presque une redoute, était disposée derrière un mur de jardin très bas, revêtu à la hâte d’une chemise de sacs de sable et d’un large talus de terre. Cet ouvrage n’était pas fini ; on n’avait pas eu le temps de le palissader.
Wellington, inquiet, mais impassible, était à cheval, et y demeura toute la journée dans la même attitude, un peu en avant du vieux moulin de Mont-Saint-Jean, qui existe encore, sous un orme qu’un anglais, depuis, vandale enthousiaste, a acheté deux cents francs, scié et emporté. Wellington fut là froidement héroïque. Les boulets pleuvaient. L’aide de camp Gordon venait de tomber à côté de lui. Lord Hill, lui montrant un obus qui éclatait, lui dit : — Milord, quelles sont vos instructions, et quels ordres nous laissez-vous, si vous vous faites tuer ? — De faire comme moi, répondit Wellington. À Clinton, il dit laconiquement : — Tenir ici jusqu’au dernier homme. — La journée, visiblement, tournait mal. Wellington criait à ses anciens compagnons de Talavera, de Vitoria et de Salamanque : — Boys (garçons) ! est-ce qu’on peut songer à lâcher pied ? pensez à la vieille Angleterre !
Vers quatre heures, la ligne anglaise s’ébranla en arrière. Tout à coup on ne vit plus sur la crête du plateau que l’artillerie et les tirailleurs, le reste disparut ; les régiments, chassés par les obus et les boulets français, se replièrent dans le fond que coupe encore aujourd’hui le sentier de service de la ferme de Mont-Saint-Jean, un mouvement rétrograde se fit, le front de bataille anglais se déroba, Wellington recula. — Commencement de retraite ! cria Napoléon.
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VII
NAPOLÉON DE BELLE HUMEUR
L’empereur, quoique malade et gêné à cheval par une souffrance locale, n’avait jamais été de si bonne humeur que ce jour-là. Depuis le matin, son impénétrabilité souriait. Le 18 juin 1815, cette âme profonde, masquée de marbre, rayonnait aveuglément. L’homme qui avait été sombre à Austerlitz fut gai à Waterloo. Les plus grands prédestinés font de ces contre-sens. Nos joies sont de l’ombre. Le suprême sourire est à Dieu.
Ridet Caesar, Pompeius flebit, disaient les légionnaires de la légion Fulminatrix. Pompée cette fois ne devait pas pleurer, mais il est certain que César riait.
Dès la veille, la nuit, à une heure, explorant à cheval, sous l’orage et sous la pluie, avec Bertrand, les collines qui avoisinent Rossomme, satisfait de voir la longue ligne des feux anglais illuminant tout l’horizon de Frischemont à Braine-l’Alleud, il lui avait semblé que le destin assigné par lui à jour fixe sur le champ de Waterloo, était exact ; il avait arrêté son cheval, et était demeuré quelque temps immobile, regardant les éclairs, écoutant le tonnerre, et on avait entendu ce fataliste jeter dans l’ombre cette parole mystérieuse : « Nous sommes d’accord. » Napoléon se trompait. Ils n’étaient plus d’accord.
Il n’avait pas pris une minute de sommeil, tous les instants de cette nuit-là avaient été marqués pour lui par une joie. Il avait parcouru toute la ligne des grand’gardes, en s’arrêtant çà et là pour parler aux vedettes. À deux heures et demie, près du bois d’Hougomont, il avait entendu le pas d’une colonne en marche ; il avait cru un moment à la reculade de Wellington. Il avait dit : C’est l’arrière-garde anglaise qui s’ébranle pour décamper. Je ferai prisonniers les six mille anglais qui viennent d’arriver à Ostende. Il causait avec expansion ; il avait retrouvé cette verve du débarquement du 1er mars, quand il montrait au grand-maréchal le paysan enthousiaste du golfe Juan, en s’écriant : — Eh bien, Bertrand, voilà déjà du renfort ! La nuit du 17 au 18 juin, il raillait Wellington. — Ce petit anglais a besoin d’une leçon, disait Napoléon. La pluie redoublait ; il tonnait pendant que l’empereur parlait.
À trois heures et demie du matin, il avait perdu une illusion ; des officiers envoyés en reconnaissance lui avaient annoncé que l’ennemi ne faisait aucun mouvement. Rien ne bougeait ; pas un feu de bivouac n’était éteint. L’armée anglaise dormait. Le silence était profond sur la terre ; il n’y avait de bruit que dans le ciel. À quatre heures, un paysan lui avait été amené par les coureurs ; ce paysan avait servi de guide à une brigade de cavalerie anglaise, probablement la brigade Vivian, qui allait prendre position au village d’Ohain, à l’extrême gauche. À cinq heures, deux déserteurs belges lui avaient rapporté qu’ils venaient de quitter leur régiment, et que l’armée anglaise attendait la bataille. ― Tant mieux ! s’était écrié Napoléon. J’aime encore mieux les culbuter que les refouler.
Le matin, sur la berge qui fait l’angle du chemin de Plancenoit, il avait mis pied à terre dans la boue, s’était fait apporter de la ferme de Rossomme une table de cuisine et une chaise de paysan, s’était assis, avec une botte de paille pour tapis, et avait déployé sur la table la carte du champ de bataille, en disant : Joli échiquier !
Par suite des pluies de la nuit, les convois de vivres, empêtrés dans des routes défoncées, n’avaient pu arriver le matin, le soldat n’avait pas dormi, était mouillé, et était à jeun ; cela n’avait pas empêché Napoléon de crier allègrement à Ney : Nous avons quatrevingt-dix chances sur cent. À huit heures, on avait apporté le déjeuner de l’empereur. Il y avait invité plusieurs généraux. Tout en déjeunant, on avait raconté que Wellington était l’avant-veille au bal à Bruxelles, chez la duchesse de Richmond, et Soult, rude homme de guerre avec une figure d’archevêque, avait dit : Le bal, c’est aujourd’hui. L’empereur avait plaisanté Ney qui disait : Wellington ne sera pas assez simple pour attendre votre majesté. C’était là d’ailleurs sa manière. Il badinait volontiers, dit Fleury de Chaboulon. Le fond de son caractère était une humeur enjouée, dit Gourgaud. Il abondait en plaisanteries, plutôt bizarres que spirituelles, dit Benjamin Constant. Ces gaîtés de géants valent la peine qu’on y insiste. C’est lui qui avait appelé ses grenadiers « les grognards » ; il leur pinçait l’oreille, il leur tirait la moustache. L’empereur ne faisait que nous faire des niches ; ceci est un mot de l’un d’eux. Pendant le mystérieux trajet de l’île d’Elbe en France, le 27 février, en pleine mer, le brick de guerre français le Zéphir ayant rencontré le brick l’Inconstant où Napoléon était caché et ayant demandé à l’Inconstant des nouvelles de Napoléon, l’empereur, qui avait encore en ce moment-là à son chapeau la cocarde blanche et amarante semée d’abeilles, adoptée par lui à l’île d’Elbe, avait pris en riant le porte-voix et avait répondu lui-même : L’empereur se porte bien. Qui rit de la sorte est en familiarité avec les événements. Napoléon avait eu plusieurs accès de rire pendant le déjeuner de Waterloo. Après le déjeuner il s’était recueilli un quart d’heure, puis deux généraux s’étaient assis sur la botte de paille, une plume à la main, une feuille de papier sur le genou, et l’empereur leur avait dicté l’ordre de bataille.
À neuf heures, à l’instant où l’armée française, échelonnée et mise en mouvement sur cinq colonnes, s’était déployée, les divisions sur deux lignes, l’artillerie entre les brigades, musique en tête, battant aux champs, avec les roulements des tambours et les sonneries des trompettes, puissante, vaste, joyeuse, mer de casques, de sabres et de bayonnettes sur l’horizon, l’empereur, ému, s’était écrié à deux reprises : « Magnifique ! magnifique ! »
De neuf heures à dix heures et demie, toute l’armée, ce qui semble incroyable, avait pris position et s’était rangée sur six lignes, formant pour répéter l’expression de l’empereur « la figure de six V ». Quelques instants après la formation du front de bataille, au milieu de ce profond silence de commencement d’orage qui précède les mêlées, voyant défiler les trois batteries de douze, détachées sur son ordre des trois corps de d’Erlon, de Reille et de Lobau, et destinées à commencer l’action en battant Mont-Saint-Jean où est l’intersection des routes de Nivelles et de Genappe, l’empereur avait frappé sur l’épaule de Haxo en lui disant : Voilà vingt-quatre belles filles, général.
Sûr de l’issue, il avait encouragé d’un sourire, à son passage devant lui, la compagnie de sapeurs du premier corps, désignée par lui pour se barricader dans Mont-Saint-Jean, sitôt le village enlevé. Toute cette sérénité n’avait été traversée que par un mot de pitié hautaine ; en voyant à sa gauche, à un endroit où il y a aujourd’hui une grande tombe, se masser avec leurs chevaux superbes ces admirables Écossais gris, il avait dit : C’est dommage.
Puis il était monté à cheval, s’était porté en avant de Rossomme, et avait choisi pour observatoire une étroite croupe de gazon à droite de la route de Genappe à Bruxelles, qui fut sa seconde station pendant la bataille. La troisième station, celle de sept heures du soir, entre la Belle-Alliance et la Haie-Sainte, est redoutable ; c’est un tertre assez élevé qui existe encore et derrière lequel la garde était massée dans une déclivité de la plaine. Autour de ce tertre, les boulets ricochaient sur le pavé de la chaussée jusqu’à Napoléon. Comme à Brienne, il avait sur sa tête le sifflement des balles et des biscaïens. On a ramassé, presque à l’endroit où étaient les pieds de son cheval, des boulets vermoulus, de vieilles lames de sabre et des projectiles informes, mangés de rouille. Scabra rubigine. Il y a quelques années, on y a déterré un obus de soixante, encore chargé, dont la fusée s’était brisée au ras de la bombe. C’est à cette dernière station que l’empereur disait à son guide Lacoste, un paysan hostile, effaré, attaché à la selle d’un hussard, se retournant à chaque paquet de mitraille, et tâchant de se cacher derrière lui : — Imbécile ! c’est honteux, tu vas te faire tuer dans le dos. Celui qui écrit ces lignes a trouvé lui-même dans le talus friable de ce tertre, en creusant le sable, les restes du col d’une bombe désagrégés par l’oxyde de quarante-six années, et de vieux tronçons de fer qui cassaient comme des bâtons de sureau entre ses doigts.
Les ondulations des plaines diversement inclinées où eut lieu la rencontre de Napoléon et de Wellington ne sont plus, personne ne l’ignore, ce qu’elles étaient le 18 juin 1815. En prenant à ce champ funèbre de quoi lui faire un monument, on lui a ôté son relief réel, et l’histoire déconcertée ne s’y reconnaît plus. Pour le glorifier, on l’a défiguré. Wellington, deux ans après, revoyant Waterloo, s’est écrié : On m’a changé mon champ de bataille. Là où est aujourd’hui la grosse pyramide de terre surmontée du lion, il y avait une crête qui, vers la route de Nivelles, s’abaissait en rampe praticable, mais qui, du côté de la chaussée de Genappe, était presque un escarpement. L’élévation de cet escarpement peut encore être mesurée aujourd’hui par la hauteur des deux tertres des deux grandes sépultures qui encaissent la route de Genappe à Bruxelles ; l’une, le tombeau anglais, à gauche ; l’autre, le tombeau allemand, à droite. Il n’y a point de tombeau français. Pour la France, toute cette plaine est sépulcre. Grâce aux mille et mille charretées de terre employées à la butte de cent cinquante pieds de haut et d’un demi-mille de circuit, le plateau de Mont-Saint-Jean est aujourd’hui accessible en pente douce ; le jour de la bataille, surtout du côté de la Haie-Sainte, il était d’un abord âpre et abrupt. Le versant là était si incliné que les canons anglais ne voyaient pas au-dessous d’eux la ferme située au fond du vallon, centre du combat. Le 18 juin 1815, les pluies avaient encore raviné cette roideur, la fange compliquait la montée, et non seulement on gravissait, mais on s’embourbait. Le long de la crête du plateau courait une sorte de fossé impossible à deviner pour un observateur lointain.
Qu’était-ce que ce fossé ? Disons-le. Braine-l’Alleud est un village de Belgique, Ohain en est un autre. Ces villages, cachés tous les deux dans des courbes de terrain, sont joints par un chemin d’une lieue et demie environ qui traverse une plaine à niveau ondulant, et souvent entre et s’enfonce dans des collines comme un sillon, ce qui fait que sur divers points cette route est un ravin. En 1815, comme aujourd’hui, cette route coupait la crête du plateau de Mont-Saint-Jean entre les deux chaussées de Genappe et de Nivelles ; seulement, elle est aujourd’hui de plain-pied avec la plaine ; elle était alors chemin creux. On lui a pris ses deux talus pour la butte-monument. Cette route était et est encore une tranchée dans la plus grande partie de son parcours ; tranchée creuse quelquefois d’une douzaine de pieds et dont les talus trop escarpés s’écroulaient çà et là, surtout en hiver, sous les averses. Des accidents y arrivaient. La route était si étroite à l’entrée de Braine-l’Alleud qu’un passant y avait été broyé par un chariot, comme le constate une croix de pierre debout près du cimetière qui donne le nom du mort, Monsieur Bernard Debrye, marchand à Bruxelles, et la date de l’accident, février 1637*. Elle était si profonde sur le plateau du Mont-Saint-Jean, qu’un paysan, Mathieu Nicaise, y avait été écrasé en 1783 par un éboulement du talus, comme le constatait une autre croix de pierre dont le faîte a disparu dans les défrichements, mais dont le piédestal renversé est encore visible aujourd’hui sur la pente du gazon à gauche de la chaussée entre la Haie-Sainte et la ferme du Mont-Saint-Jean.
* Voici l’inscription :
DOM
CY A ÉTÉ ÉCRASÉ
PAR MALHEUR
SOUS UN CHARIOT
MONSIEUR BERNARD
DE BRYE MARCHAND
A BRUXELLE LE (illisible)
FEBVRIER 1637
Un jour de bataille, ce chemin creux dont rien n’avertissait, bordant la crête de Mont-Saint-Jean, fossé au sommet de l’escarpement, ornière cachée dans les terres, était invisible, c’est-à-dire terrible.
VIII
L’EMPEREUR FAIT UNE QUESTION AU GUIDE LACOSTE
Donc, le matin de Waterloo, Napoléon était content.
Il avait raison ; le plan de bataille, conçu par lui, nous l’avons constaté, était en effet admirable.
Une fois la bataille engagée, ses péripéties très diverses, la résistance d’Hougomont, la ténacité de la Haie-Sainte, Bauduin tué, Foy mis hors de combat, la muraille inattendue où s’était brisée la brigade Soye, l’étourderie fatale de Guillemot n’ayant ni pétards ni sacs à poudre, l’embourbement des batteries, les quinze pièces sans escorte culbutées par Uxbridge dans un chemin creux, le peu d’effet des bombes tombant dans les lignes anglaises, s’y enfouissant dans le sol détrempé par les pluies et ne réussissant qu’à y faire des volcans de boue, de sorte que la mitraille se changeait en éclaboussure, l’inutilité de la démonstration de Piré sur Braine-l’Alleud, toute cette cavalerie, quinze escadrons, à peu près annulée, l’aile droite anglaise mal inquiétée, l’aile gauche mal entamée, l’étrange malentendu de Ney, massant au lieu de les échelonner, les quatre divisions du premier corps, des épaisseurs de vingt-sept rangs et des fronts de deux cents hommes livrés de la sorte à la mitraille, l’effrayante trouée des boulets dans ces masses, les colonnes d’attaque désunies, la batterie d’écharpe brusquement démasquée sur leur flanc, Bourgeois, Donzelot et Durutte compromis, Quiot repoussé, le lieutenant Vieux, cet hercule sorti de l’école polytechnique, blessé au moment où il enfonçait à coups de hache la porte de la Haie-Sainte sous le feu plongeant de la barricade anglaise barrant le coude de la route de Genappe à Bruxelles, la division Marcognet, prise entre l’infanterie et la cavalerie, fusillée à bout portant dans les blés par Best et Pack, sabrée par Ponsomby, sa batterie de sept pièces enclouée, le prince de Saxe-Weimar tenant et gardant, malgré le comte d’Erlon, Frischemont et Smohain, le drapeau du 105e pris, le drapeau du 45e pris, ce hussard noir prussien arrêté par les coureurs de la colonne volante de trois cents chasseurs battant l’estrade entre Wavre et Plancenoit, les choses inquiétantes que ce prisonnier avait dites, le retard de Grouchy, les quinze cents hommes tués en moins d’une heure dans le verger d’Hougomont, les dix-huit cents hommes couchés en moins de temps encore autour de la Haie-Sainte, tous ces incidents orageux, passant comme les nuées de la bataille devant Napoléon, avaient à peine troublé son regard et n’avaient point assombri cette face impériale de la certitude. Napoléon était habitué à regarder la guerre fixement ; il ne faisait jamais chiffre à chiffre l’addition poignante du détail ; les chiffres lui importaient peu, pourvu qu’ils donnassent ce total : victoire ; que les commencements s’égarassent, il ne s’en alarmait point, lui qui se croyait maître et possesseur de la fin ; il savait attendre, se supposant hors de question, et il traitait le destin d’égal à égal. Il paraissait dire au sort : tu n’oserais pas.
Mi-parti lumière et ombre, Napoléon se sentait protégé dans le bien et toléré dans le mal. Il avait ou croyait avoir pour lui, une connivence, on pourrait presque dire une complicité des événements, équivalente à l’antique invulnérabilité.
Pourtant, quand on a derrière soi la Bérésina, Leipsick et Fontainebleau, il semble qu’on pourrait se défier de Waterloo. Un mystérieux froncement de sourcil devient visible au fond du ciel.
Au moment où Wellington rétrograda, Napoléon tressaillit. Il vit subitement le plateau de Mont-Saint-Jean se dégarnir et le front de l’armée anglaise disparaître. Elle se ralliait, mais se dérobait. L’empereur se souleva à demi sur ses étriers. L’éclair de la victoire passa dans ses yeux.
Wellington acculé à la forêt de Soignes et détruit, c’était le terrassement définitif de l’Angleterre par la France ; c’était Crécy, Poitiers, Malplaquet et Ramillies vengés. L’homme de Marengo raturait Azincourt.
L’empereur alors, méditant la péripétie terrible, promena une dernière fois sa lunette sur tous les points du champ de bataille. Sa garde, l’arme au pied derrière lui, l’observait d’en bas avec une sorte de religion. Il songeait ; il examinait les versants, notait les pentes, scrutait le bouquet d’arbres, le carré de seigles, le sentier ; il semblait compter chaque buisson. Il regarda avec quelque fixité les barricades anglaises des deux chaussées, deux larges abattis d’arbres, celle de la chaussée de Genappe au-dessus de la Haie-Sainte, armée de deux canons, les seuls de toute l’artillerie anglaise qui vissent le fond du champ de bataille, et celle de la chaussée de Nivelles où étincelaient les bayonnettes hollandaises de la brigade Chassé. Il remarqua près de cette barricade la vieille chapelle de Saint-Nicolas peinte en blanc qui est à l’angle de la traverse vers Braine-l’Alleud. Il se pencha et parla à demi-voix au guide Lacoste. Le guide fit un signe de tête négatif, probablement perfide.
L’empereur se redressa et se recueillit.
Wellington avait reculé. Il ne restait plus qu’à achever ce recul par un écrasement.
Napoléon, se retournant brusquement, expédia une estafette à franc étrier à Paris pour y annoncer que la bataille était gagnée.
Napoléon était un de ces génies d’où sort le tonnerre.
Il venait de trouver son coup de foudre.
Il donna l’ordre aux cuirassiers de Milhaud d’enlever le plateau de Mont-Saint-Jean.
IX
L’INATTENDU
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Ils étaient trois mille cinq cents. Ils faisaient un front d’un quart de lieue. C’étaient des hommes géants sur des chevaux colosses. Ils étaient vingt-six escadrons ; et ils avaient derrière eux, pour les appuyer, la division de Lefebvre-Desnouettes, les cent six gendarmes d’élite, les chasseurs de la garde, onze cent quatrevingt-dix-sept hommes, et les lanciers de la garde, huit cent quatrevingts lances. Ils portaient le casque sans crins et la cuirasse de fer battu, avec les pistolets d’arçon dans les fontes et le long sabre-épée. Le matin toute l’armée les avait admirés, quand, à neuf heures, les clairons sonnant, toutes les musiques chantant Veillons au salut de l’empire, ils étaient venus, colonne épaisse, une de leurs batteries à leur flanc, l’autre à leur centre, se déployer sur deux rangs entre la chaussée de Genappe et Frischemont, et prendre leur place de bataille dans cette puissante deuxième ligne, si savamment composée par Napoléon, laquelle, ayant à son extrémité de gauche les cuirassiers de Kellerman et à son extrémité de droite les cuirassiers de Milhaud, avait, pour ainsi dire, deux ailes de fer.
L’aide de camp Bernard leur porta l’ordre de l’empereur. Ney tira son épée et prit la tête. Les escadrons énormes s’ébranlèrent.
Alors on vit un spectacle formidable.
Toute cette cavalerie, sabres levés, étendards et trompettes au vent, formée en colonne par division, descendit d’un même mouvement et comme un seul homme, avec la précision d’un bélier de bronze qui ouvre une brèche, la colline de la Belle-Alliance, s’enfonça dans le fond redoutable où tant d’hommes déjà étaient tombés, y disparut dans la fumée, puis, sortant de cette ombre, reparut de l’autre côté du vallon, toujours compacte et serrée, montant au grand trot, à travers un nuage de mitraille crevant sur elle, l’épouvantable pente de boue du plateau de Mont-Saint-Jean. Ils montaient, graves, menaçants, imperturbables ; dans les intervalles de la mousqueterie et de l’artillerie, on entendait ce piétinement colossal. Étant deux divisions, ils étaient deux colonnes ; la division Wathier avait la droite, la division Delord avait la gauche. On croyait voir de loin s’allonger vers la crête du plateau deux immenses couleuvres d’acier. Cela traversa la bataille comme un prodige.
Rien de semblable ne s’était vu depuis la prise de la grande redoute de la Moskowa par la grosse cavalerie ; Murat y manquait, mais Ney s’y retrouvait. Il semblait que cette masse était devenue monstre et n’eût qu’une âme. Chaque escadron ondulait et se gonflait comme un anneau du polype. On les apercevait à travers une vaste fumée déchirée çà et là. Pêle-mêle de casques, de cris, de sabres, bondissement orageux des croupes des chevaux dans le canon et la fanfare, tumulte discipliné et terrible ; là-dessus les cuirasses, comme les écailles sur l’hydre.
Ces récits semblent d’un autre âge. Quelque chose de pareil à cette vision apparaissait sans doute dans les vieilles épopées orphiques racontant les hommes-chevaux, les antiques hippanthropes, ces titans à face humaine et à poitrail équestre dont le galop escalada l’Olympe, horribles, invulnérables, sublimes ; dieux et bêtes.
Bizarre coïncidence numérique, vingt-six bataillons allaient recevoir ces vingt-six escadrons. Derrière la crête du plateau, à l’ombre de la batterie masquée, l’infanterie anglaise, formée en treize carrés, deux bataillons par carré, et sur deux lignes, sept sur la première, six sur la seconde, la crosse à l’épaule, couchant en joue ce qui allait venir, calme, muette, immobile, attendait. Elle ne voyait pas les cuirassiers et les cuirassiers ne la voyaient pas. Elle écoutait monter cette marée d’hommes. Elle entendait le grossissement du bruit des trois mille chevaux, le frappement alternatif et symétrique des sabots au grand trot, le froissement des cuirasses, le cliquetis des sabres, et une sorte de grand souffle farouche. Il y eut un silence redoutable, puis, subitement, une longue file de bras levés brandissant des sabres apparut au-dessus de la crête, et les casques, et les trompettes, et les étendards, et trois mille têtes à moustaches grises criant : vive l’empereur ! Toute
cette cavalerie déboucha sur le plateau, et ce fut comme l’entrée d’un tremblement de terre.
Tout à coup, chose tragique, à la gauche des anglais, à notre droite, la tête de colonne des cuirassiers se cabra avec une clameur effroyable. Parvenus au point culminant de la crête, effrénés, tout à leur furie et à leur course d’extermination sur les carrés et les canons, les cuirassiers venaient d’apercevoir entre eux et les anglais un fossé, une fosse. C’était le chemin creux d’Ohain.
L’instant fut épouvantable. Le ravin était là, inattendu, béant, à pic sous les pieds des chevaux, profond de deux toises entre son double talus ; le second rang y poussa le premier, et le troisième y poussa le second ; les chevaux se dressaient, se rejetaient en arrière, tombaient sur la croupe, glissaient les quatre pieds en l’air, pilant et bouleversant les cavaliers, aucun moyen de reculer, toute la colonne n’était plus qu’un projectile, la force acquise pour écraser les anglais écrasa les français, le ravin inexorable ne pouvait se rendre que comblé, cavaliers et chevaux y roulèrent pêle-mêle se broyant les uns sur les autres, ne faisant qu’une chair dans ce gouffre, et, quand cette fosse fut pleine d’hommes vivants, on marcha dessus et le reste passa. Presque un tiers de la brigade Dubois croula dans cet abîme.
Ceci commença la perte de la bataille.
Une tradition locale, qui exagère évidemment, dit que deux mille chevaux et quinze cents hommes furent ensevelis dans le chemin creux d’Ohain. Ce chiffre vraisemblablement comprend tous les autres cadavres qu’on jeta dans ce ravin le lendemain du combat.
Notons en passant que c’était cette brigade Dubois, si funestement éprouvée, qui, une heure auparavant, chargeant à part, avait enlevé le drapeau du bataillon de Lunebourg.
Napoléon, avant d’ordonner cette charge des cuirassiers de Milhaud, avait scruté le terrain, mais n’avait pu voir ce chemin creux qui ne faisait pas même une ride à la surface du plateau. Averti pourtant et mis en éveil par la petite chapelle blanche qui en marque l’angle sur la chaussée de Nivelles, il avait fait, probablement sur l’éventualité d’un obstacle, une question au guide Lacoste. Le guide avait répondu non. On pourrait presque dire que de ce signe de tête d’un paysan est sortie la catastrophe de Napoléon.
D’autres fatalités encore devaient surgir.
Était-il possible que Napoléon gagnât cette bataille ? nous répondons non. Pourquoi ? À cause de Wellington ? à cause de Blücher ? Non. À cause de Dieu.
Bonaparte vainqueur à Waterloo, ceci n’était plus dans la loi du dix-neuvième siècle. Une autre série de faits se préparait, où Napoléon n’avait plus de place. La mauvaise volonté des événements s’était annoncée de longue date.
Il était temps que cet homme vaste tombât.
L’excessive pesanteur de cet homme dans la destinée humaine troublait l’équilibre. Cet individu comptait à lui seul plus que le groupe universel. Ces pléthores de toute la vitalité humaine concentrée dans une seule tête, le monde montant au cerveau d’un homme, cela serait mortel à la civilisation si cela durait. Le moment était venu pour l’incorruptible équité suprême d’aviser. Probablement les principes et les éléments, d’où dépendent les gravitations régulières dans l’ordre moral comme dans l’ordre matériel, se plaignaient. Le sang qui fume, le trop-plein des cimetières, les mères en larmes, ce sont des plaidoyers redoutables. Il y a, quand la terre souffre d’une surcharge, de mystérieux gémissements de l’ombre, que l’abîme entend.
Napoléon avait été dénoncé dans l’infini, et sa chute était décidée.
Il gênait Dieu.
Waterloo n’est point une bataille ; c’est le changement de front de l’univers.
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X
LE PLATEAU DE MONT-SAINT-JEAN
En même temps que le ravin, la batterie s’était démasquée.
Soixante canons et les treize carrés foudroyèrent les cuirassiers à bout portant. L’intrépide général Delord fit le salut militaire à la batterie anglaise.
Toute l’artillerie volante anglaise était rentrée au galop dans les carrés. Les cuirassiers n’eurent pas même un temps d’arrêt. Le désastre du chemin creux les avait décimés, mais non découragés. C’étaient de ces hommes qui, diminués de nombre, grandissent de cœur.
La colonne Wathier seule avait souffert du désastre ; la colonne Delord, que Ney avait fait obliquer à gauche, comme s’il pressentait l’embûche, était arrivée entière.
Les cuirassiers se ruèrent sur les carrés anglais.
Ventre à terre, brides lâchées, sabre aux dents, pistolets au poing, telle fut l’attaque.
Il y a des moments dans les batailles où l’âme durcit l’homme jusqu’à changer le soldat en statue, et où toute cette chair se fait granit. Les bataillons anglais, éperdument assaillis, ne bougèrent pas.
Alors ce fut effrayant.
Toutes les faces des carrés anglais furent attaquées à la fois. Un tournoiement frénétique les enveloppa. Cette froide infanterie demeura impassible. Le premier rang, genou en terre, recevait les cuirassiers sur les bayonnettes, le second rang les fusillait ; derrière le second rang les canonniers chargeaient les pièces, le front du carré s’ouvrait, laissait passer une éruption de mitraille et se refermait. Les cuirassiers répondaient par l’écrasement. Leurs grands chevaux se cabraient, enjambaient les rangs, sautaient par-dessus les bayonnettes et tombaient, gigantesques, au milieu de ces quatre murs vivants. Les boulets faisaient des trouées dans les cuirassiers, les cuirassiers faisaient des brèches dans les carrés. Des files d’hommes disparaissaient broyées sous les chevaux. Les bayonnettes s’enfonçaient dans les ventres de ces centaures. De là une difformité de blessures qu’on n’a pas vue peut-être ailleurs. Les carrés, rongés par cette cavalerie forcenée, se rétrécissaient sans broncher. Inépuisables en mitraille, ils faisaient explosion au milieu des assaillants. La figure de ce combat était monstrueuse. Ces carrés n’étaient plus des bataillons, c’étaient des cratères ; ces cuirassiers n’étaient plus une cavalerie, c’était une tempête. Chaque carré était un volcan attaqué par un nuage ; la lave combattait la foudre.
Le carré extrême de droite, le plus exposé de tous, étant en l’air, fut presque anéanti dès les premiers chocs. Il était formé du 75e régiment de highlanders. Le joueur de cornemuse au centre, pendant qu’on s’exterminait autour de lui, baissant dans une inattention profonde son œil mélancolique plein du reflet des forêts et des lacs, assis sur un tambour, son pibroch sous le bras, jouait les airs de la montagne. Ces Écossais mouraient en pensant au Ben Lothian, comme les Grecs en se souvenant d’Argos. Le sabre d’un cuirassier, abattant le pibroch et le bras qui le portait, fit cesser le chant en tuant le chanteur.
Les cuirassiers, relativement peu nombreux, amoindris par la catastrophe du ravin, avaient là contre eux presque toute l’armée anglaise, mais ils se multipliaient, chaque homme valant dix. Cependant quelques bataillons hanovriens plièrent. Wellington le vit, et songea à sa cavalerie. Si Napoléon, en ce moment-là même, eût songé à son infanterie, il eût gagné la bataille. Cet oubli fut sa grande faute fatale.
Tout à coup les cuirassiers, assaillants, se sentirent assaillis. La cavalerie anglaise était sur leur dos. Devant eux les carrés, derrière eux Somerset ; Somerset, c’étaient les quatorze cents dragons-gardes. Somerset avait à sa droite Dornberg avec les chevau-légers allemands, et à sa gauche Trip avec les carabiniers belges ; les cuirassiers, attaqués en flanc et en tête, en avant et en arrière, par l’infanterie et par la cavalerie, durent faire face de tous les côtés. Que leur importait ? ils étaient tourbillon. La bravoure devint inexprimable.
En outre, ils avaient derrière eux la batterie toujours tonnante. Il fallait cela pour que ces hommes fussent blessés dans le dos. Une de leurs cuirasses, trouée à l’omoplate gauche d’un biscayen, est dans la collection dite musée de Waterloo.
Pour de tels français, il ne fallait pas moins que de tels anglais.
Ce ne fut plus une mêlée, ce fut une ombre, une furie, un vertigineux emportement d’âmes et de courages, un ouragan d’épées éclairs. En un instant les quatorze cents dragons-gardes ne furent plus que huit cents ; Fuller, leur lieutenant-colonel, tomba mort. Ney accourut avec les lanciers et les chasseurs de Lefebvre-Desnouettes. Le plateau de Mont-Saint-Jean fut pris, repris, pris encore. Les cuirassiers quittaient la cavalerie pour retourner à l’infanterie, ou, pour mieux dire, toute cette cohue formidable se colletait sans que l’un lâchât l’autre. Les carrés tenaient toujours. Il y eut douze assauts. Ney eut quatre chevaux tués sous lui. La moitié des cuirassiers resta sur le plateau. Cette lutte dura deux heures.
L’armée anglaise en fut profondément ébranlée. Nul doute que, s’ils n’eussent été affaiblis dans leur premier choc par le désastre du chemin creux, les cuirassiers n’eussent culbuté le centre et décidé la victoire. Cette cavalerie extraordinaire pétrifia Clinton qui avait vu Talavera et Badajoz. Wellington, aux trois quarts vaincu, admirait héroïquement. Il disait à demi-voix : Sublime [2] !
Les cuirassiers anéantirent sept carrés sur treize, prirent ou enclouèrent soixante pièces de canon, et enlevèrent aux régiments anglais six drapeaux, que trois cuirassiers et trois chasseurs de la garde allèrent porter à l’empereur devant la ferme de la Belle-Alliance.
La situation de Wellington avait empiré. Cette étrange bataille était comme un duel entre deux blessés acharnés qui, chacun de leur côté, tout en combattant et en se résistant toujours, perdent tout leur sang. Lequel des deux tombera le premier ?
La lutte du plateau continuait.
Jusqu’où sont allés les cuirassiers ? personne ne saurait le dire. Ce qui est certain, c’est que, le lendemain de la bataille, un cuirassier et son cheval furent trouvés morts dans la charpente de la bascule du pesage des voitures à Mont-Saint-Jean, au point même où s’entrecoupent et se rencontrent les quatre routes de Nivelles, de Genappe, de La Hulpe et de Bruxelles. Ce cavalier avait percé les lignes anglaises. Un des hommes qui ont relevé ce cadavre vit encore à Mont-Saint-Jean. Il se nomme Dehaze. Il avait alors dix-huit ans.
Wellington se sentait pencher. La crise était proche.
Les cuirassiers n’avaient point réussi, en ce sens que le centre n’était pas enfoncé. Tout le monde ayant le plateau, personne ne l’avait, et en somme il restait pour la plus grande part aux anglais. Wellington avait le village et la plaine culminante ; Ney n’avait que la crête et la pente. Des deux côtés on semblait enraciné dans ce sol funèbre.
Mais l’affaiblissement des anglais paraissait irrémédiable. L’hémorrhagie de cette armée était horrible. Kempt, à l’aile gauche, réclamait du renfort. — Il n’y en a pas, répondait Wellington, qu’il se fasse tuer ! — Presque à la même minute, rapprochement singulier qui peint l’épuisement des deux armées, Ney demandait de l’infanterie à Napoléon, et Napoléon s’écriait : De l’infanterie ! où veut-il que j’en prenne ? Veut-il que j’en fasse ?
Pourtant l’armée anglaise était la plus malade. Les poussées furieuses de ces grands escadrons à cuirasses de fer et à poitrines d’acier avaient broyé l’infanterie. Quelques hommes autour d’un drapeau marquaient la place d’un régiment, tel bataillon n’était plus commandé que par un capitaine ou par un lieutenant ; la division Alten, déjà si maltraitée à la Haie-Sainte, était presque détruite ; les intrépides Belges de la brigade Van Kluze jonchaient les seigles le long de la route de Nivelles ; il ne restait presque rien de ces grenadiers hollandais qui, en 1811, mêlés en Espagne à nos rangs, combattaient Wellington, et qui, en 1815, ralliés aux anglais, combattaient Napoléon. La perte en officiers était considérable. Lord Uxbridge, qui le lendemain fit enterrer sa jambe, avait le genou fracassé. Si, du côté des français, dans cette lutte des cuirassiers, Delord, Lhéritier, Colbert, Dnop, Travers et Blancard étaient hors de combat, du côté des anglais, Alten était blessé, Barne était blessé, Delancey était tué, Van Meeren était tué, Ompteda était tué, tout l’état-major de Wellington était décimé, et l’Angleterre avait le pire partage dans ce sanglant équilibre. Le 2e régiment des gardes à pied avait perdu cinq lieutenants-colonels, quatre capitaines et trois enseignes ; le premier bataillon du 30e d’infanterie avait perdu vingt-quatre officiers et cent douze soldats ; le 79e montagnards avait vingt-quatre officiers blessés, dix-huit officiers morts, quatre cent cinquante soldats tués. Les hussards hanovriens de Cumberland, un régiment tout entier, ayant à sa tête son colonel Hacke, qui devait plus tard être jugé et cassé, avaient tourné bride devant la mêlée et étaient en fuite dans la forêt de Soignes, semant la déroute jusqu’à Bruxelles. Les charrois, les prolonges, les bagages, les fourgons pleins de blessés, voyant les français gagner du terrain et s’approcher de la forêt, s’y précipitaient ; les Hollandais, sabrés par la cavalerie française, criaient : Alarme ! De Vert-Coucou jusqu’à Groenendael, sur une longueur de près de deux lieues dans la direction de Bruxelles, il y avait, au dire des témoins qui existent encore, un encombrement de fuyards. Cette panique fut telle qu’elle gagna le prince de Condé à Malines et Louis XVIII à Gand. À l’exception de la faible réserve échelonnée derrière l’ambulance établie dans la ferme de Mont-Saint-Jean et des brigades Vivian et Vandeleur qui flanquaient l’aile gauche, Wellington n’avait plus de cavalerie. Nombre de batteries gisaient démontées. Ces faits sont avoués par Siborne ; et Pringle, exagérant le désastre, va jusqu’à dire que l’armée anglo-hollandaise était réduite à trente-quatre mille hommes. Le duc-de-fer demeurait calme, mais ses lèvres avaient blêmi. Le commissaire autrichien Vincent, le commissaire espagnol Alava, présents à la bataille dans l’état-major anglais, croyaient le duc perdu. À cinq heures, Wellington tira sa montre, et on l’entendit murmurer ce mot sombre : Blücher, ou la nuit !
Ce fut vers ce moment-là qu’une ligne lointaine de bayonnettes étincela sur les hauteurs du côté de Frischemont.
Ici est la péripétie de ce drame géant.
XI
MAUVAIS GUIDE À NAPOLÉON, BON GUIDE À BULOW
On connaît la poignante méprise de Napoléon : Grouchy espéré, Blücher survenant ; la mort au lieu de la vie.
La destinée a de ces tournants ; on s’attendait au trône du monde ; on aperçoit Sainte-Hélène.
Si le petit pâtre, qui servait de guide à Bülow, lieutenant de Blücher, lui eût conseillé de déboucher de la forêt au-dessus de Frischemont plutôt qu’au dessous de Plancenoit, la forme du dix-neuvième siècle eût peut-être été différente. Napoléon eût gagné la bataille de Waterloo. Par tout autre chemin qu’au-dessous de Plancenoit, l’armée prussienne aboutissait à un ravin infranchissable à l’artillerie, et Bülow n’arrivait pas.
Or, une heure de retard, c’est le général prussien Muffling qui le déclare, et Blücher n’aurait plus trouvé Wellington debout ; « la bataille était perdue ».
Il était temps, on le voit, que Bülow arrivât. Il avait du reste été fort retardé. Il avait bivouaqué à Dion-le-Mont et était parti dès l’aube. Mais les chemins étaient impraticables et ses divisions s’étaient embourbées. Les ornières venaient au moyeu des canons. En outre, il avait fallu passer la Dyle sur l’étroit pont de Wavre ; la rue menant au pont avait été incendiée par les français ; les caissons et les fourgons de l’artillerie, ne pouvant passer entre deux rangs de maisons en feu, avaient dû attendre que l’incendie fût éteint. Il était midi que l’avant-garde de Bülow n’avait pu encore atteindre Chapelle-Saint-Lambert.
L’action, commencée deux heures plus tôt, eût été finie à quatre heures, et Blücher serait tombé sur la bataille gagnée par Napoléon. Tels sont ces immenses hasards, proportionnés à un infini qui nous échappe.
Dès midi, l’empereur, le premier, avec sa longue-vue, avait aperçu à l’extrême horizon quelque chose qui avait fixé son attention. Il avait dit : — Je vois là-bas un nuage qui me paraît être des troupes. Puis il avait demandé au duc de Dalmatie : — Soult, que voyez-vous vers Chapelle-Saint-Lambert ? — Le maréchal braquant sa lunette avait répondu : — Quatre ou cinq mille hommes, sire. Évidemment Grouchy. — Cependant cela restait immobile dans la brume. Toutes les lunettes de l’état-major avaient étudié « le nuage » signalé par l’empereur. Quelques-uns avaient dit : Ce sont des colonnes qui font halte. La plupart avaient dit : Ce sont des arbres. La vérité est que le nuage ne remuait pas. L’empereur avait détaché en reconnaissance vers ce point obscur la division de cavalerie légère de Domon.
Bülow en effet n’avait pas bougé. Son avant-garde était très faible, et ne pouvait rien. Il devait attendre le gros du corps d’armée, et il avait l’ordre de se concentrer avant d’entrer en ligne ; mais à cinq heures, voyant le péril de Wellington, Blücher ordonna à Bülow d’attaquer et dit ce mot remarquable : « Il faut donner de l’air à l’armée anglaise. »
Peu après, les divisions Losthin, Hiller, Hacke et Ryssel se déployaient devant le corps de Lobau, la cavalerie du prince Guillaume de Prusse débouchait du bois de Paris, Plancenoit était en flammes, et les boulets prussiens commençaient à pleuvoir jusque dans les rangs de la garde en réserve derrière Napoléon.
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XII
LA GARDE
On sait le reste : l’irruption d’une troisième armée, la bataille disloquée, quatrevingt-six bouches à feu tonnant tout à coup, Pirch Ier survenant avec Bülow, la cavalerie de Zieten menée par Blücher en personne, les français refoulés, Marcognet balayé du plateau d’Ohain, Durutte délogé de Papelotte, Donzelot et Quiot reculant, Lobau pris en écharpe, une nouvelle bataille se précipitant ; à la nuit tombante sur nos régiments démantelés, toute la ligne anglaise reprenant l’offensive et poussée en avant, la gigantesque trouée faite dans l’armée française, la mitraille anglaise et la mitraille prussienne s’entr’aidant, l’extermination, le désastre de front, le désastre en flanc, la garde entrant en ligne sous cet épouvantable écroulement.
Comme elle sentait qu’elle allait mourir, elle cria : Vive l’empereur ! L’histoire n’a rien de plus émouvant que cette agonie éclatant en acclamations.
Le ciel avait été couvert toute la journée. Tout à coup, en ce moment-là même, il était huit heures du soir, les nuages de l’horizon s’écartèrent et laissèrent passer, à travers les ormes de la route de Nivelles, la grande rougeur sinistre du soleil qui se couchait. On l’avait vu se lever à Austerlitz.
Chaque bataillon de la garde, pour ce dénouement, était commandé par un général. Friant, Michel, Roguet, Harlet, Mallet, Poret de Morvan, étaient là. Quand les hauts bonnets des grenadiers de la garde avec la large plaque à l’aigle apparurent, symétriques, alignés, tranquilles, superbes, dans la brume de cette mêlée, l’ennemi sentit le respect de la France ; on crut voir vingt victoires entrer sur le champ de bataille, ailes déployées, et ceux qui étaient vainqueurs, s’estimant vaincus, reculèrent ; mais Wellington cria : Debout, gardes, et visez juste ! le régiment rouge des gardes anglaises, couché derrière les haies, se leva, une nuée de mitraille cribla le drapeau tricolore frissonnant autour de nos aigles, tous se ruèrent, et le suprême carnage commença. La garde impériale sentit dans l’ombre l’armée lâchant pied autour d’elle, et le vaste ébranlement de la déroute, elle entendit le sauve-qui-peut ! qui avait remplacé le vive l’empereur ! et, avec la fuite derrière elle, elle continua d’avancer, de plus en plus foudroyée et mourant davantage à chaque pas qu’elle faisait. Il n’y eut point d’hésitants ni de timides. Le soldat dans cette troupe était aussi héros que le général. Pas un homme ne manqua au suicide.
Ney, éperdu, grand de toute la hauteur de la mort acceptée, s’offrait à tous les coups dans cette tourmente. Il eut là son cinquième cheval tué sous lui. En sueur, la flamme aux yeux, l’écume aux lèvres, l’uniforme déboutonné, une de ses épaulettes à demi coupée par le coup de sabre d’un horse-guard, sa plaque de grand-aigle bosselée par une balle, sanglant, fangeux, magnifique, une épée cassée à la main, il disait : Venez voir comment meurt un maréchal de France sur le champ de bataille ! Mais en vain ; il ne mourut pas. Il était hagard et indigné. Il jetait à Drouet d’Erlon cette question : Est-ce que tu ne te fais pas tuer, toi ? Il criait au milieu de toute cette artillerie écrasant une poignée d’hommes : — Il n’y a donc rien pour moi ! Oh ! je voudrais que tous ces boulets anglais m’entrassent dans le ventre ! Tu étais réservé à des balles françaises, infortuné !
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XIII
LA CATASTROPHE
La déroute derrière la garde fut lugubre.
L’armée plia brusquement de tous les côtés à la fois, de Hougomont, de la Haie-Sainte, de Papelotte, de Plancenoit. Le cri trahison ! fut suivi du cri sauve-qui-peut ! Une armée qui se débande, c’est un dégel. Tout fléchit, se fêle, craque, flotte, roule, tombe, se heurte, se hâte, se précipite. Désagrégation inouïe. Ney emprunte un cheval, saute dessus, et, sans chapeau, sans cravate, sans épée, se met en travers de la chaussée de Bruxelles, arrêtant à la fois les anglais et les français. Il tâche de retenir l’armée, il la rappelle, il l’insulte, il se cramponne à la déroute. Il est débordé. Les soldats le fuient, en criant : Vive le maréchal Ney ! Deux régiments de Durutte vont et viennent effarés et comme ballottés entre le sabre des uhlans et la fusillade des brigades de Kempt, de Best, de Pack et de Rylandt ; la pire des mêlées, c’est la déroute, les amis s’entretuent pour fuir ; les escadrons et les bataillons se brisent et se dispersent les uns contre les autres, énorme écume de la bataille. Lobau à une extrémité comme Reille à l’autre sont roulés dans le flot. En vain Napoléon fait des murailles avec ce qui lui reste de la garde ; en vain il dépense à un dernier effort ses escadrons de service. Quiot recule devant Vivian, Kellermann devant Vandeleur, Lobau devant Bülow, Morand devant Pirch, Domon et Subervic devant le prince Guillaume de Prusse. Guyot, qui a mené à la charge les escadrons de l’empereur, tombe sous les pieds des dragons anglais. Napoléon court au galop le long des fuyards, les harangue, presse, menace, supplie. Toutes ces bouches qui criaient le matin : vive l’empereur ! restent béantes ; c’est à peine si on le connaît. La cavalerie prussienne, fraîche venue, s’élance, vole, sabre, taille, hache, tue, extermine. Les attelages se ruent, les canons se sauvent ; les soldats du train détellent les caissons et en prennent les chevaux pour s’échapper ; des fourgons culbutés les quatre roues en l’air entravent la route et sont des occasions de massacre. On s’écrase, on se foule, on marche sur les morts et sur les vivants. Les bras sont éperdus. Une multitude vertigineuse emplit les routes, les sentiers, les ponts, les plaines, les collines, les vallées, les bois, encombrés par cette évasion de quarante mille hommes. Cris, désespoirs, sacs et fusils jetés dans les seigles, passages frayés à coups d’épée, plus de camarades, plus d’officiers, plus de généraux, une inexprimable épouvante. Zieten sabrant la France à son aise. Les lions devenus chevreuils. Telle fut cette fuite.
À Genappe, on essaya de se retourner, de faire front, d’enrayer. Lobau rallia trois cents hommes. On barricada l’entrée du village ; mais à la première volée de la mitraille prussienne, tout se remit à fuir, et Lobau fut pris. On voit encore aujourd’hui cette volée de mitraille empreinte sur le vieux pignon d’une masure en brique à droite de la route, quelques minutes avant d’entrer à Genappe. Les prussiens s’élancèrent dans Genappe, furieux sans doute d’être si peu vainqueurs. La poursuite fut monstrueuse. Blücher ordonna l’extermination. Roguet avait donné ce lugubre exemple de menacer de mort tout grenadier français qui lui amènerait un prisonnier prussien. Blücher dépassa Roguet. Le général de la jeune garde, Duhesme, acculé sur la porte d’une auberge de Genappe, rendit son épée à un hussard de la mort qui prit l’épée et tua le prisonnier. La victoire s’acheva par l’assassinat des vaincus. Punissons, puisque nous sommes l’histoire : le vieux Blücher se déshonora. Cette férocité mit le comble au désastre. La déroute désespérée traversa Genappe, traversa les Quatre-Bras, traversa Gosselies, traversa Frasnes, traversa Charleroi, traversa Thuin, et ne s’arrêta qu’à la frontière. Hélas ! et qui donc fuyait de la sorte ? la grande armée.
Ce vertige, cette terreur, cette chute en ruine de la plus haute bravoure qui ait jamais étonné l’histoire, est-ce que cela est sans cause ? Non. L’ombre d’une droite énorme se projette sur Waterloo. C’est la journée du destin. La force au-dessus de l’homme a donné ce jour-là. De là le pli épouvanté des têtes ; de là toutes ces grandes âmes rendant leur épée. Ceux qui avaient vaincu l’Europe sont tombés terrassés, n’ayant plus rien à dire ni à faire, sentant dans l’ombre une présence terrible. Hoc erat in fatis. Ce jour-là, la perspective du genre humain a changé. Waterloo, c’est le gond du dix-neuvième siècle. La disparition du grand homme était nécessaire à l’avènement du grand siècle. Quelqu’un à qui on ne réplique pas s’en est chargé. La panique des héros s’explique. Dans la bataille de Waterloo, il y a plus du nuage, il y a du météore. Dieu a passé.
À la nuit tombante, dans un champ près de Genappe, Bernard et Bertrand saisirent par un pan de sa redingote et arrêtèrent un homme hagard, pensif, sinistre, qui, entraîné jusque-là par le courant de la déroute, venait de mettre pied à terre, avait passé sous son bras la bride de son cheval, et, l’œil égaré, s’en retournait seul vers Waterloo. C’était Napoléon essayant encore d’aller en avant, immense somnambule de ce rêve écroulé.
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XIV
LE DERNIER CARRÉ
Quelques carrés de la garde, immobiles dans le ruissellement de la déroute comme des rochers dans de l’eau qui coule, tinrent jusqu’à la nuit. La nuit venant, la mort aussi, ils attendirent cette ombre double, et, inébranlables, s’en laissèrent envelopper. Chaque régiment, isolé des autres et n’ayant plus de lien avec l’armée rompue de toutes parts, mourait pour son compte. Ils avaient pris position, pour faire cette dernière action, les uns sur les hauteurs de Rossomme, les autres dans la plaine de Mont-Saint-Jean. Là, abandonnés, vaincus, terribles, ces carrés sombres agonisaient formidablement. Ulm, Wagram, Iéna, Friedland, mouraient en eux.
Au crépuscule, vers neuf heures du soir, au bas du plateau de Mont-Saint-Jean, il en restait un. Dans ce vallon funeste, au pied de cette pente gravie par les cuirassiers, inondée maintenant par les masses anglaises, sous les feux convergents de l’artillerie ennemie victorieuse, sous une effroyable densité de projectiles, ce carré luttait. Il était commandé par un officier obscur nommé Cambronne. À chaque décharge, le carré diminuait, et ripostait. Il répliquait à la mitraille par la fusillade, rétrécissant continuellement ses quatre murs. De loin les fuyards, s’arrêtant par moment, essoufflés, écoutaient dans les ténèbres ce sombre tonnerre décroissant.
Quand cette légion ne fut plus qu’une poignée, quand leur drapeau ne fut plus qu’une loque, quand leurs fusils épuisés de balles ne furent plus que des bâtons, quand le tas de cadavres fut plus grand que le groupe vivant, il y eut parmi les vainqueurs une sorte de terreur sacrée autour de ces mourants sublimes, et l’artillerie anglaise, reprenant haleine, fit silence. Ce fut une espèce de répit. Ces combattants avaient autour d’eux comme un fourmillement de spectres, des silhouettes d’hommes à cheval, le profil noir des canons, le ciel blanc aperçu à travers les roues et les affûts ; la colossale tête de mort que les héros entrevoient toujours dans la fumée au fond de la bataille, s’avançait sur eux et les regardait. Ils purent entendre dans l’ombre crépusculaire qu’on chargeait les pièces, les mèches allumées pareilles à des yeux de tigre dans la nuit firent un cercle autour de leurs têtes, tous les boute-feu des batteries anglaises s’approchèrent des canons, et alors, ému, tenant la minute suprême suspendue au-dessus de ces hommes, un général anglais, Colville selon les uns, Maitland selon les autres, leur cria : Braves français, rendez-vous ! Cambronne répondit : Merde !
XV
CAMBRONNE
Le lecteur français voulant être respecté, le plus beau mot peut-être qu’un français ait jamais dit ne peut lui être répété. Défense de déposer du sublime dans l’histoire.
À nos risques et périls, nous enfreignons cette défense.
Donc, parmi tous ces géants, il y eut un titan, Cambronne.
Dire ce mot, et mourir ensuite, quoi de plus grand ? car c’est mourir que de le vouloir, et ce n’est pas la faute de cet homme, si, mitraillé, il a survécu.
L’homme qui a gagné la bataille de Waterloo, ce n’est pas Napoléon en déroute, ce n’est pas Wellington pliant à quatre heures, désespéré à cinq, ce n’est pas Blücher qui ne s’est point battu ; l’homme qui a gagné la bataille de Waterloo, c’est Cambronne.
Foudroyer d’un tel mot le tonnerre qui vous tue, c’est vaincre.
Faire cette réponse à la catastrophe, dire cela au destin, donner cette base au lion futur, jeter cette réplique à la pluie de la nuit, au mur traître de Hougomont, au chemin creux d’Ohain, au retard de Grouchy, à l’arrivée de Blücher, être l’ironie dans le sépulcre, faire en sorte de rester debout après qu’on sera tombé, noyer dans deux syllabes la coalition européenne, offrir aux rois ces latrines déjà connues des césars, faire du dernier des mots le premier en y mêlant l’éclair de la France, clore insolemment Waterloo par le mardi gras, compléter Léonidas par Rabelais, résumer cette victoire dans une parole suprême impossible à prononcer, perdre le terrain et garder l’histoire, après ce carnage avoir pour soi les rieurs, c’est immense.
C’est l’insulte à la foudre. Cela atteint la grandeur eschylienne.
Le mot de Cambronne fait l’effet d’une fracture. Qu’est la fracture d’une poitrine par le dédain ; c’est le trop plein de l’agonie qui fait explosion. Qui a vaincu ? Est-ce Wellington ? Non. Sans Blücher il était perdu. Est-ce Blücher ? Non. Si Wellington n’eût pas commencé, Blücher n’aurait pu finir. Ce Cambronne, ce passant de la dernière heure, ce soldat ignoré, cet infiniment petit de la guerre, sent qu’il y a là un mensonge, un mensonge dans une catastrophe, redoublement poignant, et, au moment où il en éclate de rage, on lui offre cette dérision : la vie ! Comment ne pas bondir ? Ils sont là, tous les rois de l’Europe, les généraux heureux, les Jupiters tonnants, ils ont cent mille soldats victorieux, et derrière les cent mille, un million, leurs canons, mèche allumée, sont béants, ils ont sous leurs talons la garde impériale et la grande armée, ils viennent d’écraser Napoléon, et il ne reste plus que Cambronne ; il n’y a plus pour protester que ce ver de terre. Il protestera. Alors il cherche un mot comme on cherche une épée. Il lui vient de l’écume, et cette écume, c’est le mot. Devant cette victoire prodigieuse et médiocre, devant cette victoire sans victorieux, ce désespéré se redresse ; il en subit l’énormité, mais il en constate le néant ; et il fait plus que cracher sur elle ; et sous l’accablement du nombre, de la force et de la matière, il trouve à l’âme une expression, l’excrément. Nous le répétons. Dire cela, faire cela, trouver cela, c’est être le vainqueur.
L’esprit des grands jours entra dans cet homme inconnu à cette minute fatale. Cambronne trouve le mot de Waterloo comme Rouget de l’Isle trouve la Marseillaise, par visitation du souffle d’en haut. Un effluve de l’ouragan divin se détache et vient passer à travers ces hommes, et ils tressaillent, et l’un chante le chant suprême et l’autre pousse le cri terrible. Cette parole du dédain titanique, Cambronne ne la jette pas seulement à l’Europe au nom de l’empire, ce serait peu ; il la jette au passé au nom de la révolution. On l’entend, et l’on reconnaît dans Cambronne la vieille âme des géants. Il semble que c’est Danton qui parle ou Kléber qui rugit.
Au mot de Cambronne, la voix anglaise répondit : feu ! les batteries flamboyèrent, la colline trembla, de toutes ces bouches d’airain sortit un dernier vomissement de mitraille épouvantable ; une vaste fumée, vaguement blanchie du lever de la lune, roula, et, quand la fumée se dissipa, il n’y avait plus rien. Ce reste formidable était anéanti, la garde était morte. Les quatre murs de la redoute vivante gisaient, à peine distinguait-on çà et là un tressaillement parmi les cadavres ; et c’est ainsi que les légions françaises, plus grandes que les légions romaines, expirèrent à Mont-Saint-Jean sur la terre mouillée de pluie et de sang, dans les blés sombres, à l’endroit où passe maintenant à quatre heures du matin, en sifflant et en fouettant gaîment son cheval, Joseph, qui fait le service de la malle-poste de Nivelles.
XVI
QUOT LIBRAS IN DUCE ?
La bataille de Waterloo est une énigme. Elle est aussi obscure pour ceux qui l’ont gagnée que pour ceux qui l’ont perdue. Pour Napoléon, c’est une panique [3] ; Blücher n’y voit que du feu ; Wellington n’y comprend rien. Voyez les rapports. Les bulletins sont confus, les commentaires sont embrouillés. Ceux-ci balbutient, ceux-là bégayent. Jomini partage la bataille de Waterloo en quatre moments ; Muffling la coupe en trois péripéties ; Charras, quoique sur quelques points nous ayons une autre appréciation que lui, a seul saisi de son fier coup d’œil les linéaments caractéristiques de cette catastrophe du génie humain aux prises avec le hasard divin. Tous les autres historiens ont un certain éblouissement, et dans cet éblouissement ils tâtonnent. Journée fulgurante, en effet, écroulement de la monarchie militaire qui, à la grande stupeur des rois, a entraîné tous les royaumes, chute de la force, déroute de la guerre.
Dans cet événement, empreint de nécessité surhumaine, la part des hommes n’est rien.
Retirer Waterloo à Wellington et à Blücher, est-ce ôter quelque chose à l’Angleterre et à l’Allemagne ? Non. Ni cette illustre Angleterre ni cette auguste Allemagne ne sont en question dans le problème de Waterloo. Grâce au ciel, les peuples sont grands en dehors des lugubres aventures de l’épée. Ni l’Allemagne, ni l’Angleterre, ni la France, ne tiennent dans un fourreau. Dans cette époque où Waterloo n’est qu’un cliquetis de sabres, au-dessus de Blücher l’Allemagne a Gœthe et au-dessus de Wellington l’Angleterre a Byron. Un vaste lever d’idées est propre à notre siècle, et dans cette aurore l’Angleterre et l’Allemagne ont une lueur magnifique. Elles sont majestueuses par ce qu’elles pensent. L’élévation du niveau qu’elles apportent à la civilisation leur est intrinsèque ; il vient d’elles-mêmes, et non d’un accident. Ce qu’elles ont d’agrandissement au dix-neuvième siècle n’a point Waterloo pour source. Il n’y a que les peuples barbares qui aient des crues subites après une victoire. C’est la vanité passagère des torrents enflés d’un orage. Les peuples civilisés, surtout au temps où nous sommes, ne se haussent ni ne s’abaissent par la bonne ou mauvaise fortune d’un capitaine. Leur poids spécifique dans le genre humain résulte de quelque chose de plus qu’un combat. Leur honneur, Dieu merci, leur dignité, leur lumière, leur génie, ne sont pas des numéros que les héros et les conquérants, ces joueurs, peuvent mettre à la loterie des batailles. Souvent bataille perdue, progrès conquis. Moins de gloire, plus de liberté. Le tambour se tait, la raison prend la parole. C’est le jeu à qui perd gagne. Parlons donc de Waterloo froidement des deux côtés. Rendons au hasard ce qui est au hasard et à Dieu ce qui est à Dieu. Qu’est-ce que Waterloo ? Une victoire ? Non. Un quine.
Quine gagné par l’Europe, payé par la France.
Ce n’était pas beaucoup la peine de mettre là un lion.
Waterloo, du reste, est la plus étrange rencontre qui soit dans l’histoire. Napoléon et Wellington. Ce ne sont pas des ennemis, ce sont des contraires. Jamais Dieu, qui se plaît aux antithèses, n’a fait un plus saisissant contraste et une confrontation plus extraordinaire. D’un côté la précision, la prévision, la géométrie, la prudence, la retraite assurée, les réserves ménagées, un sang-froid opiniâtre, une méthode imperturbable, la stratégie qui profite du terrain, la tactique qui équilibre les bataillons, le carnage tiré au cordeau, la guerre réglée montre en main, rien laissé volontairement au hasard, le vieux courage classique, la correction absolue ; de l’autre l’intuition, la divination, l’étrangeté militaire, l’instinct surhumain, le coup d’œil flamboyant, on ne sait quoi qui regarde comme l’aigle et qui frappe comme la foudre, un art prodigieux dans une impétuosité dédaigneuse, tous les mystères d’une âme profonde, l’association avec le destin, le fleuve, la plaine, la forêt, la colline, sommés et en quelque sorte forcés d’obéir, le despote allant jusqu’à tyranniser le champ de bataille, la foi à l’étoile mêlée à la science stratégique, la grandissant, mais la troublant. Wellington était le Barême de la guerre, Napoléon en était le Michel-Ange, et cette fois le génie fut vaincu par le calcul.
Des deux côtés on attendait quelqu’un. Ce fut le calculateur exact qui réussit. Napoléon attendait Grouchy ; il ne vint pas. Wellington attendait Blücher ; il vint.
Wellington, c’est la guerre classique qui prend sa revanche. Bonaparte, à son aurore, l’avait rencontrée en Italie, et superbement battue. La vieille chouette avait fui devant le jeune vautour. L’ancienne tactique avait été non seulement foudroyée, mais scandalisée. Qu’était-ce que ce Corse de vingt-six ans, que signifiait cet ignorant splendide qui, ayant tout contre lui, rien pour lui, sans vivres, sans munitions, sans canons, sans souliers, presque sans armée, avec une poignée d’hommes contre des masses, se ruait sur l’Europe coalisée, et gagnait absurdement des victoires dans l’impossible ? D’où sortait ce forcené foudroyant qui, presque sans reprendre haleine, et avec le même jeu de combattants dans la main, pulvérisait l’une après l’autre les cinq armées de l’empereur d’Allemagne, culbutant Beaulieu sur Alvinzi, Wurmser sur Beaulieu, Mélas sur Wurmser, Mack sur Mélas ? Qu’était-ce que ce nouveau venu de la guerre ayant l’effronterie d’un astre ? L’école académique militaire l’excommuniait en lâchant pied. De là une implacable rancune du vieux césarisme contre le nouveau, du sabre correct contre l’épée flamboyante, et de l’échiquier contre le génie. Le 18 juin 1815, cette rancune eut le dernier mot, et au-dessous de Lodi, de Montebello, de Montenotte, de Mantoue, de Marengo, d’Arcole, elle écrivit : Waterloo. Triomphe des médiocres, doux aux majorités. Le destin consentit à cette ironie. À son déclin, Napoléon retrouva devant lui Wurmser jeune.
Pour avoir Wurmser en effet, il suffît de blanchir les cheveux de Wellington.
Waterloo est une bataille du premier ordre gagnée par un capitaine du second.
Ce qu’il faut admirer dans la bataille de Waterloo, c’est l’Angleterre, c’est la fermeté anglaise, c’est la résolution anglaise, c’est le sang anglais ; ce que l’Angleterre a eu là de superbe, ne lui en déplaise, c’est elle-même. Ce n’est pas son capitaine, c’est son armée.
Wellington, bizarrement ingrat, déclare dans une lettre à lord Bathurst que son armée, l’armée qui a combattu le 18 juin 1815, était une « détestable armée ». Qu’en pense cette sombre mêlée d’ossements enfouis sous les sillons de Waterloo ?
L’Angleterre a été trop modeste vis-à-vis de Wellington. Faire Wellington si grand, c’est faire l’Angleterre petite. Wellington n’est qu’un héros comme un autre. Ces Écossais gris, ces horse-guards, ces régiments de Maitland et de Mitchell, cette infanterie de Pack et de Kempt, cette cavalerie de Ponsomby et de Somerset, ces highlanders jouant du pibroch sous la mitraille, ces bataillons de Rylandt, ces recrues toutes fraîches qui savaient à peine manier le mousquet tenant tête aux vieilles bandes d’Essling et de Rivoli, voilà ce qui est grand. Wellington a été tenace, ce fut là son mérite, et nous ne le lui marchandons pas, mais le moindre de ses fantassins et de ses cavaliers a été tout aussi solide que lui. L’iron-soldier vaut l’iron-duke. Quant à nous, toute notre glorification va au soldat anglais. Si trophée il y a, c’est à l’Angleterre que le trophée est dû. La colonne de Waterloo serait plus juste si, au lieu de la figure d’un homme, elle élevait dans la nue la statue d’un peuple.
Mais cette grande Angleterre s’irritera de ce que nous disons ici. Elle a encore, après son 1688 et notre 1789, l’illusion féodale. Elle croit à l’hérédité et à la hiérarchie. Ce peuple, qu’aucun ne dépasse en puissance et en gloire, s’estime comme nation, non comme peuple. En tant que peuple, il se subordonne volontiers et prend un lord pour une tête. Workman, il se laisse dédaigner ; soldat, il se laisse bâtonner. On se souvient qu’à la bataille d’Inkermann un sergent qui, à ce qu’il paraît, avait sauvé l’armée, ne put être mentionné par lord Raglan, la hiérarchie militaire anglaise ne permettant de citer dans un rapport aucun héros au-dessous du grade d’officier.
Ce que nous admirons par-dessus tout, dans une rencontre du genre de celle de Waterloo, c’est la prodigieuse habileté du hasard. Pluie nocturne, mur de Hugomont, chemin creux d’Ohain, Grouchy sourd au canon, guide de Napoléon qui le trompe, guide de Bülow qui l’éclaire ; tout ce cataclysme est merveilleusement conduit.
Au total, disons-le, il y eut à Waterloo plus de massacre que de bataille.
Waterloo est de toutes les batailles rangées celle qui a le plus petit front sur un tel nombre de combattants. Napoléon, trois quarts de lieue, Wellington, une demi-lieue ; soixante-douze mille combattants de chaque côté. De cette épaisseur vint le carnage.
On a fait ce calcul et établi cette proportion : Perte d’hommes : ― À Austerlitz, français, quatorze pour cent ; russes, trente pour cent ; autrichiens, quarante-quatre pour cent. À Wagram, français, treize pour cent ; autrichiens, quatorze. À la Moskowa, français, trente-sept pour cent ; russes, quarante-quatre. À Bautzen, français, treize pour cent ; russes et prussiens, quatorze. À Waterloo, français, cinquante-six pour cent ; alliés, trente et un. Total pour Waterloo, quarante et un pour cent. Cent quarante-quatre mille combattants ; soixante mille morts.
Le champ de Waterloo aujourd’hui a le calme qui appartient à la terre, support impassible de l’homme, et il ressemble à toutes les plaines.
La nuit pourtant une espèce de brume visionnaire s’en dégage, et si quelque voyageur s’y promène, s’il regarde, s’il écoute, s’il rêve comme Virgile devant les funestes plaines de Philippes, l’hallucination de la catastrophe le saisit. L’effrayant 18 juin revit ; la fausse colline monument s’efface, ce lion quelconque se dissipe, le champ de bataille reprend sa réalité ; des lignes d’infanterie ondulent dans la plaine, des galops furieux traversent l’horizon ; le songeur effaré voit l’éclair des sabres, l’étincelle des bayonnettes, le flamboiement des bombes, l’entrecroisement monstrueux des tonnerres ; il entend, comme un râle au fond d’une tombe, la clameur vague de la bataille fantôme ; ces ombres, ce sont les grenadiers ; ces lueurs, ce sont les cuirassiers ; ce squelette, c’est Napoléon ; ce squelette, c’est Wellington ; tout cela n’est plus et se heurte et combat encore ; et les ravins s’empourprent, et les arbres frissonnent, et il y a de la furie jusque dans les nuées, et, dans les ténèbres, toutes ces hauteurs farouches, Mont-Saint-Jean, Hougomont, Frischemont, Papelotte, Plancenoit, apparaissent confusément couronnées de tourbillons de spectres s’exterminant.
XVII
FAUT-IL TROUVER BON WATERLOO ?
Il existe une école libérale très respectable qui ne hait point Waterloo. Nous n’en sommes pas. Pour nous, Waterloo n’est que la date stupéfaite de la liberté. Qu’un tel aigle sorte d’un tel œuf, c’est à coup sûr l’inattendu.
Waterloo, si l’on se place au point de vue culminant de la question, est intentionnellement une victoire contre-révolutionnaire. C’est l’Europe contre la France, c’est Pétersbourg, Berlin et Vienne contre Paris, c’est le statu quo contre l’initiative, c’est le 14 juillet 1789 attaqué à travers le 20 mars 1815, c’est le branle-bas des monarchies contre l’indomptable émeute française. Éteindre enfin ce vaste peuple en éruption depuis vingt-six ans, tel était le rêve. Solidarité des Brunswick, des Nassau, des Romanoff, des Hohenzollern, des Habsburg, avec les Bourbons. Waterloo porte en croupe le droit divin. Il est vrai que, l’empire ayant été despotique, la royauté, par la réaction naturelle des choses, devait forcément être libérale, et qu’un ordre constitutionnel à contre-cœur est sorti de Waterloo, au grand regret des vainqueurs. C’est que la révolution ne peut être vraiment vaincue, et qu’étant providentielle et absolument fatale, elle reparaît toujours, avant Waterloo, dans Bonaparte jetant bas les vieux trônes, après Waterloo, dans Louis XVIII octroyant et subissant la Charte. Bonaparte met un postillon sur le trône de Naples et un sergent sur le trône de Suède, employant l’inégalité à démontrer l’égalité ; Louis XVIII à Saint-Ouen contresigne la déclaration des droits de l’homme. Voulez-vous vous rendre compte de ce que c’est que la révolution, appelez-la Progrès ; et voulez-vous vous rendre compte de ce que c’est que le progrès, appelez-le Demain. Demain fait irrésistiblement son œuvre, et il la fait dès aujourd’hui. Il arrive toujours à son but, étrangement. Il emploie Wellington à faire de Foy, qui n’était qu’un soldat, un orateur. Foy tombe à Hougomont et se relève à la tribune. Ainsi procède le progrès. Pas de mauvais outil pour cet ouvrier-là. Il ajuste à son travail divin, sans se déconcerter, l’homme qui a enjambé les Alpes, et le bon vieux malade chancelant du père Élysée. Il se sert du podagre comme du conquérant ; du conquérant au dehors, du podagre au dedans. Waterloo, en coupant court à la démolition des trônes européens par l’épée, n’a eu d’autre effet que de faire continuer le travail révolutionnaire d’un autre côté. Les sabreurs ont fini, c’est le tour des penseurs. Le siècle que Waterloo voulait arrêter a marché dessus et a poursuivi sa route. Cette victoire sinistre a été vaincue par la liberté.
En somme, et incontestablement, ce qui triomphait à Waterloo, ce qui souriait derrière Wellington, ce qui lui apportait tous les bâtons de maréchal de l’Europe, y compris, dit-on, le bâton de maréchal de France, ce qui roulait joyeusement les brouettées de terre pleine d’ossements pour élever la butte du lion, ce qui a triomphalement écrit sur ce piédestal cette date : 18 juin 1815, ce qui encourageait Blücher sabrant la déroute, ce qui du haut du plateau de Mont-Saint-Jean se penchait sur la France comme sur une proie, c’était la contre-révolution. C’est la contre-révolution qui murmurait ce mot infâme : démembrement. Arrivée à Paris, elle a vu le cratère de près, elle a senti que cette cendre lui brûlait les pieds, et elle s’est ravisée. Elle est revenue au bégaiement d’une charte.
Ne voyons dans Waterloo que ce qui est dans Waterloo. De liberté intentionnelle, point. La contre-révolution était involontairement libérale, de même que, par un phénomène correspondant, Napoléon était involontairement révolutionnaire. Le 18 juin 1815, Robespierre à cheval fut désarçonné.
XVIII
RECRUDESCENCE DU DROIT DIVIN
Fin de la dictature. Tout un système d’Europe croula.
L’empire s’affaissa dans une ombre qui ressembla à celle du monde romain expirant. On revit de l’abîme comme au temps des barbares. Seulement la barbarie de 1815, qu’il faut nommer, de son petit nom, la contre-révolution, avait peu d’haleine, s’essouffla vite, et resta court. L’empire, avouons-le, fut pleuré, et pleuré par des yeux héroïques. Si la gloire est dans le glaive fait sceptre, l’empire avait été la gloire même. Il avait répandu sur la terre toute la lumière que la tyrannie peut donner ; lumière sombre. Disons plus : lumière obscure. Comparée au vrai jour, c’est de la nuit. Cette disparition de la nuit fit l’effet d’une éclipse.
Louis XVIII rentra dans Paris. Les danses en rond du 8 juillet effacèrent les enthousiasmes du 20 mars. Le corse devint l’antithèse du béarnais. Le drapeau du dôme des Tuileries fut blanc. L’exil trôna. La table de sapin de Hartwell prit place devant le fauteuil fleurdelysé de Louis XIV. On parla de Bouvines et de Fontenoy comme d’hier, Austerlitz ayant vieilli. L’autel et le trône fraternisèrent majestueusement. Une des formes les plus incontestées du salut de la société au dix-neuvième siècle s’établit sur la France et sur le continent. L’Europe prit la cocarde blanche. Trestaillon fut célèbre. La devise non pluribus impar reparut dans des rayons de pierre figurant un soleil sur la façade de la caserne du quai d’Orsay. Où il y avait eu une garde impériale, il y eut une maison rouge. L’arc du Carrousel, tout chargé de victoires mal portées, dépaysé dans ces nouveautés, un peu honteux peut-être de Marengo et d’Arcole, se tira d’affaire avec la statue du duc d’Angoulême. Le cimetière de la Madeleine, redoutable fosse commune de 93, se couvrit de marbre et de jaspe, les os de Louis XVI et de Marie-Antoinette étant dans cette poussière. Dans le fossé de Vincennes, un cippe sépulcral sortit de terre, rappelant que le duc d’Enghien était mort dans le mois même où Napoléon avait été couronné. Le pape Pie VII, qui avait fait ce sacre très près de cette mort, bénit tranquillement la chute comme il avait béni l’élévation. Il y eut à Schœnbrunn une petite ombre âgée de quatre ans qu’il fut séditieux d’appeler le roi de Rome. Et ces choses se sont faites, et ces rois ont repris leurs trônes, et le maître de l’Europe a été mis dans une cage, et l’ancien régime est devenu le nouveau, et toute l’ombre et toute la lumière de la terre ont changé de place, parce que, dans l’après-midi d’un jour d’été, un pâtre a dit à un prussien dans un bois : passez par ici et non par là !
Ce 1815 fut une sorte d’avril lugubre. Les vieilles réalités malsaines et vénéneuses se couvrirent d’apparences neuves. Le mensonge épousa 1789, le droit divin se masqua d’une charte, les fictions se firent constitutionnelles, les préjugés, les superstitions et les arrière-pensées, avec l’article 14 au cœur, se vernirent de libéralisme. Changement de peau des serpents.
L’homme avait été à la fois agrandi et amoindri par Napoléon. L’idéal, sous ce règne de la matière splendide, avait reçu le nom étrange d’idéologie. Grave imprudence d’un grand homme, tourner en dérision l’avenir. Les peuples cependant, cette chair à canon si amoureuse du canonnier, le cherchaient des yeux. Où est-il ? Que fait-il ? Napoléon est mort, disait un passant à un invalide de Marengo et de Waterloo. — Lui mort ! s’écria ce soldat, vous le connaissez bien ! Les imaginations déifiaient cet homme terrassé. Le fond de l’Europe, après Waterloo, fut ténébreux. Quelque chose d’énorme resta longtemps vide par l’évanouissement de Napoléon.
Les rois se mirent dans ce vide. La vieille Europe en profita pour se reformer. Il y eut une Sainte-Alliance. Belle-Alliance, avait dit d’avance le champ fatal de Waterloo.
En présence et en face de cette antique Europe refaite, les linéaments d’une France nouvelle s’ébauchèrent. L’avenir, raillé par l’empereur, fit son entrée. Il avait sur le front cette étoile, Liberté. Les yeux ardents des jeunes générations se tournèrent vers lui. Chose singulière, on s’éprit en même temps de cet avenir, Liberté, et de ce passé, Napoléon. La défaite avait grandi le vaincu. Bonaparte tombé semblait plus haut que Napoléon debout. Ceux qui avaient triomphé eurent peur. L’Angleterre le fit garder par Hudson Lowe et la France le fit guetter par Montchenu. Ses bras croisés devinrent l’inquiétude des trônes. Alexandre le nommait : mon insomnie. Cet effroi venait de la quantité de révolution qu’il avait en lui. C’est ce qui explique et excuse le libéralisme bonapartiste. Ce fantôme donnait le tremblement au vieux monde. Les rois régnèrent mal à leur aise, avec le rocher de Sainte-Hélène à l’horizon.
Pendant que Napoléon agonisait à Longwood, les soixante mille hommes tombés dans le champ de Waterloo pourrirent tranquillement, et quelque chose de leur paix se répandit dans le monde. Le congrès de Vienne en fit les traités de 1815, et l’Europe nomma cela la restauration.
Voilà ce que c’est que Waterloo.
Mais qu’importe à l’infini ? Toute cette tempête, tout ce nuage, cette guerre, puis cette paix, toute cette ombre, ne troubla pas un moment la lueur de l’œil immense devant lequel un puceron sautant d’un brin d’herbe à l’autre égale l’aigle volant de clocher en clocher aux tours de Notre-Dame.
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XIX
LE CHAMP DE BATAILLE LA NUIT
Revenons, c’est une nécessité de ce livre, sur ce fatal champ de bataille.
Le 18 juin 1815, c’était pleine lune. Cette clarté favorisa la poursuite féroce de Blücher, dénonça les traces des fuyards, livra cette masse désastreuse à la cavalerie prussienne acharnée, et aida au massacre. Il y a parfois dans les catastrophes de ces tragiques complaisances de la nuit.
Après le dernier coup de canon tiré, la plaine de Mont-Saint-Jean resta déserte.
Les anglais occupèrent le campement des français ; c’est la constatation habituelle de la victoire ; coucher dans le lit du vaincu. Ils établirent leur bivouac au delà de Rossomme. Les prussiens, lâchés sur la déroute, poussèrent en avant, Wellington alla au village de Waterloo rédiger son rapport à lord Bathurst.
Si jamais le sic vos non vobis a été applicable, c’est à coup sûr à ce village de Waterloo. Waterloo n’a rien fait, et est resté à une demi-lieue de l’action. Mont-Saint-Jean a été canonné, Hougomont a été brûlé, Plancenoit a été brûlé, la Haie-Sainte a été prise d’assaut, la Belle-Alliance a vu l’embrasement des deux vainqueurs ; on sait à peine ces noms, et Waterloo qui n’a point travaillé dans la bataille en a tout l’honneur.
Nous ne sommes pas de ceux qui flattent la guerre ; quand l’occasion s’en présente, nous lui disons ses vérités. La guerre a d’affreuses beautés que nous n’avons point cachées ; elle a aussi, convenons-en, quelques laideurs. Une des plus surprenantes, c’est le prompt dépouillement des morts après la victoire. L’aube qui suit une bataille se lève toujours sur des cadavres nus.
Qui fait cela ? Qui souille ainsi le triomphe ? Quelle est cette hideuse main furtive qui se glisse dans la poche de la victoire ? Quels sont ces filous faisant leur coup derrière la gloire ? Quelques philosophes, Voltaire entre autres, affirment que ce sont précisément ceux-là qui ont fait la gloire. Ce sont les mêmes, disent-ils, il n’y a pas de rechange, ceux qui sont debout pillent ceux qui sont à terre. Le héros du jour est le vampire de la nuit. On a bien le droit, après tout, de détrousser un peu un cadavre dont on est l’auteur. Quant à nous, nous ne le croyons pas. Cueillir des lauriers et voler les souliers d’un mort, cela nous semble impossible à la même main.
Ce qui est certain, c’est que, d’ordinaire, après les vainqueurs viennent les voleurs. Mais mettons le soldat, surtout le soldat contemporain, hors de cause.
Toute armée a une queue, et c’est là ce qu’il faut accuser. Des êtres chauves-souris, mi-partis brigands et valets, toutes les espèces de vespertilio qu’engendre ce crépuscule qu’on appelle la guerre, des porteurs d’uniformes qui ne combattent pas, de faux malades, des éclopés redoutables, des cantiniers interlopes trottant quelquefois avec leurs femmes, sur de petites charrettes et volant ce qu’ils revendent, des mendiants s’offrant pour guides aux officiers, des goujats, des maraudeurs, les armées en marche autrefois, — nous ne parlons pas du temps présent, — traînaient tout cela, si bien que, dans la langue spéciale, cela s’appelait « les traînards ». Aucune armée ni aucune nation n’étaient responsables de ces êtres ; ils parlaient italien et suivaient les allemands ; ils parlaient français et suivaient les anglais. C’est par un de ces misérables, traînard espagnol qui parlait français, que le marquis de Fervacques, trompé par son baragouin picard, et le prenant pour un des nôtres, fut tué en traître et volé sur le champ de bataille même, dans la nuit qui suivit la victoire de Cerisoles. De la maraude naissait le maraud. La détestable maxime : vivre sur l’ennemi, produisait cette lèpre, qu’une forte discipline pouvait seule guérir. Il y a des renommées qui trompent ; on ne sait pas toujours pourquoi de certains généraux, grands d’ailleurs, ont été si populaires. Turenne était adoré de ses soldats parce qu’il tolérait le pillage ; le mal permis fait partie de la bonté ; Turenne était si bon qu’il a laissé mettre à feu et à sang le Palatinat. On voyait à la suite des armées moins ou plus de maraudeurs selon que le chef était plus ou moins sévère. Hoche et Marceau n’avaient point de traînards ; Wellington, nous lui rendons volontiers cette justice, en avait peu.
Pourtant, dans la nuit du 18 au 19 juin, on dépouilla les morts. Wellington fut rigide ; ordre de passer par les armes quiconque serait pris en flagrant délit ; mais la rapine est tenace. Les maraudeurs volaient dans un coin du champ de bataille pendant qu’on les fusillait dans l’autre.
La lune était sinistre sur cette plaine.
Vers minuit, un homme rôdait, ou plutôt rampait, du côté du chemin creux d’Ohain. C’était, selon toute apparence, un de ceux que nous venons de caractériser, ni anglais, ni français, ni paysan, ni soldat, moins homme que goule, attiré par le flair des morts, ayant pour victoire le vol, venant dévaliser Waterloo. Il était vêtu d’une blouse qui était un peu une capote, il était inquiet et audacieux, il allait devant lui et regardait derrière lui. Qu’était-ce que cet homme ? La nuit probablement en savait plus sur son compte que le jour. Il n’avait point de sac, mais évidemment de larges poches sous sa capote. De temps en temps, il s’arrêtait, examinait la plaine autour de lui comme pour voir s’il n’était pas observé, se penchait brusquement, dérangeait à terre quelque chose de silencieux et d’immobile, puis se redressait et s’esquivait. Son glissement, ses attitudes, son geste rapide et mystérieux le faisaient ressembler à ces larves crépusculaires qui hantent les ruines et que les anciennes légendes normandes appellent les Alleurs.
De certains échassiers nocturnes font de ces silhouettes dans les marécages.
Un regard qui eût sondé attentivement toute cette brume eût pu remarquer, à quelque distance, arrêté et comme caché derrière la masure qui borde sur la chaussée de Nivelles l’angle de la route de Mont-Saint-Jean à Braine-l’Alleud, une façon de petit fourgon de vivandier à coiffe d’osier goudronnée, attelé d’une haridelle affamée broutant l’ortie à travers son mors, et dans ce fourgon une espèce de femme assise sur des coffres et des paquets. Peut-être y avait-il un lien entre ce fourgon et ce rôdeur.
L’obscurité était sereine. Pas un nuage au zénith. Qu’importe que la terre soit rouge, la lune reste blanche. Ce sont là les indifférences du ciel. Dans les prairies, des branches d’arbre cassées par la mitraille mais non tombées et retenues par l’écorce se balançaient doucement au vent de la nuit. Une haleine, presque une respiration, remuait les broussailles. Il y avait dans l’herbe des frissons qui ressemblaient à des départs d’âmes.
On entendait vaguement au loin aller et venir les patrouilles et les rondes-major du campement anglais.
Hougomont et la Haie-Sainte continuaient de brûler, faisant, l’un à l’ouest, l’autre à l’est, deux grosses flammes auxquelles venait se rattacher, comme un collier de rubis dénoué ayant à ses extrémités deux escarboucles, le cordon de feux du bivouac anglais étalé en demi-cercle immense sur les collines de l’horizon.
Nous avons dit la catastrophe du chemin d’Ohain. Ce qu’avait été cette mort pour tant de braves, le cœur s’épouvante d’y songer.
Si quelque chose est effroyable, s’il existe une réalité qui dépasse le rêve, c’est ceci : vivre, voir le soleil, être en pleine possession de la force virile, avoir la santé et la joie, rire vaillamment, courir vers une gloire qu’on a devant soi, éblouissante, se sentir dans la poitrine un poumon qui respire, un cœur qui bat, une volonté qui raisonne, parler, penser, espérer, aimer, avoir une mère, avoir une femme, avoir des enfants, avoir la lumière, et tout à coup, le temps d’un cri, en moins d’une minute, s’effondrer dans un abîme, tomber, rouler, écraser, être écrasé, voir des épis de blé, des fleurs, des feuilles, des branches, ne pouvoir se retenir à rien, sentir son sabre inutile, des hommes sous soi, des chevaux sur soi, se débattre en vain, les os brisés par quelque ruade dans les ténèbres, sentir un talon qui vous fait jaillir les yeux, mordre avec rage des fers de chevaux, étouffer, hurler, se tordre, être là-dessous, et se dire : tout à l’heure j’étais un vivant !
Là où avait râlé ce lamentable désastre, tout faisait silence maintenant. L’encaissement du chemin creux était comble de chevaux et de cavaliers inextricablement amoncelés. Enchevêtrement terrible. Il n’y avait plus de talus, les cadavres nivelaient la route avec la plaine et venaient au ras du bord comme un boisseau d’orge bien mesuré. Un tas de morts dans la partie haute, une rivière de sang dans la partie basse ; telle était cette route, le soir du 18 juin 1815. Le sang coulait jusque sur la chaussée de Nivelles et s’y extravasait en une large mare devant l’abattis d’arbres qui barrait la chaussée, à un endroit qu’on montre encore. C’est, on s’en souvient, au point opposé, vers la chaussée de Genappe, qu’avait eu lieu l’effondrement des cuirassiers. L’épaisseur des cadavres se proportionnait à la profondeur du chemin creux. Vers le milieu, à l’endroit où il devenait plan, là où avait passé la division Delord, la couche des morts s’amincissait.
Le rôdeur nocturne que nous venons de faire entrevoir au lecteur allait de ce côté, il furetait cette immense tombe. Il regardait. Il passait on ne sait quelle hideuse revue des morts. Il marchait les pieds dans le sang.
Tout à coup il s’arrêta.
À quelques pas devant lui, dans le chemin creux, au point où finissait le monceau des morts, de dessous cet amas d’hommes et de chevaux, sortait une main ouverte, éclairée par la lune.
Cette main avait au doigt quelque chose qui brillait, et qui était un anneau d’or.
L’homme se courba, demeura un moment accroupi, et quand il se releva, il n’y avait plus d’anneau à cette main.
Il ne se releva pas précisément ; il resta dans une attitude fausse et effarouchée, tournant le dos au tas de morts, scrutant l’horizon, à genoux, tout l’avant du corps portant sur les deux index appuyés à terre, la tête guettant par-dessus le bord du chemin creux. Les quatre pattes du chacal conviennent à de certaines actions.
Puis, prenant son parti, il se dressa.
En ce moment il eut un soubresaut. Il sentit que par derrière on le tenait.
Il se retourna ; c’était la main ouverte qui s’était refermée et qui avait saisi le pan de sa capote.
Un honnête homme eût eu peur. Celui-ci se mit à rire.
— Tiens, dit-il, ce n’est que le mort. J’aime mieux un revenant qu’un gendarme.
Cependant la main défaillit et le lâcha. L’effort s’épuise vite dans la tombe.
— Ah çà ! reprit le rôdeur, est-il vivant ce mort ? Voyons donc.
Il se pencha de nouveau, fouilla le tas, écarta ce qui faisait obstacle, saisit la main, empoigna le bras, dégagea la tête, tira le corps, et quelques instants après il traînait dans l’ombre du chemin creux un homme inanimé, au moins évanoui. C’était un cuirassier, un officier, un officier même d’un certain rang ; une grosse épaulette d’or sortait de dessous la cuirasse ; cet officier n’avait plus de casque. Un furieux coup de sabre balafrait son visage où l’on ne voyait que du sang. Du reste, il ne semblait pas qu’il eût de membre cassé, et par quelque hasard heureux, si ce mot est possible ici, les morts s’étaient arc-boutés au-dessus de lui de façon à le garantir de l’écrasement. Ses yeux étaient fermés.
Il avait sur sa cuirasse la croix d’argent de la Légion d’honneur.
Le rôdeur arracha cette croix qui disparut dans un des gouffres qu’il avait sous sa capote.
Après quoi, il tâta le gousset de l’officier, y sentit une montre et la prit. Puis il fouilla le gilet, y trouva une bourse et l’empocha.
Comme il en était à cette phase des secours qu’il portait à ce mourant, l’officier ouvrit les yeux.
— Merci, dit-il faiblement.
La brusquerie des mouvements de l’homme qui le maniait, la fraîcheur de la nuit, l’air respiré librement, l’avaient tiré de sa léthargie.
Le rôdeur ne répondit point. Il leva la tête. On entendait un bruit de pas dans la plaine ; probablement quelque patrouille qui approchait.
L’officier murmura, car il y avait encore de l’agonie dans sa voix :
— Qui a gagné la bataille ?
— Les anglais, répondit le rôdeur.
L’officier reprit :
— Cherchez dans mes poches. Vous y trouverez une bourse et une montre. Prenez-les.
C’était déjà fait.
Le rôdeur exécuta le semblant demandé, et dit :
— Il n’y a rien.
— On m’a volé, reprit l’officier, j’en suis fâché. C’eût été pour vous.
Les pas de la patrouille devenaient de plus en plus distincts.
— Voici qu’on vient, dit le rôdeur, faisant le mouvement d’un homme qui s’en va.
L’officier, soulevant péniblement le bras, le retint : — Vous m’avez sauvé la vie. Qui êtes-vous ?
Le rôdeur répondit vite et bas :
— J’étais comme vous de l’armée française. Il faut que je vous quitte. Si l’on me prenait, on me fusillerait. Je vous ai sauvé la vie. Tirez-vous d’affaire maintenant.
— Quel est votre grade ?
— Sergent.
— Comment vous appelez-vous ?
— Thénardier.
— Je n’oublierai pas ce nom, dit l’officier. Et vous, retenez le mien. Je me nomme Pontmercy.
1. Walter Scott, Lamartine, Vaulabelle, Charras, Quinet, Thiers
2. Splendid ! mot textuel.
3. « Une bataille terminée, une journée finie, de fausses mesures réparées, de plus grands succès assurés pour le lendemain, tout fut perdu par un moment de terreur panique. »
(NAPOLÉON, Dictées de Sainte-Hélène.)
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Remo Remotti, Mamma Roma: Addio!
«A Roma salutavo gli amici. Dove vai? Vado in Perù. Ma che sei matto? Me ne andavo da quella Roma puttanona, borghese, fascistoide, da quella Roma del “volemose bene e annamo avanti”, da quella Roma delle pizzerie, delle latterie, dei “Sali e Tabacchi”, degli “Erbaggi e Frutta”, quella Roma dei castagnacci, dei maritozzi con la panna, senza panna, dei mostaccioli e caramelle, dei supplì, dei lupini, delle mosciarelle…
Me ne andavo da quella Roma dei pizzicaroli, dei portieri, dei casini, delle approssimazioni, degli imbrogli, degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali, dei pagamenti che non vengono effettuati, quella Roma degli uffici postali e dell’anagrafe, quella Roma dei funzionari dei ministeri, degli impiegati, dei bancari, quella Roma dove le domande erano sempre già chiuse, dove ci voleva una raccomandazione… Me ne andavo da quella Roma dei pisciatoi, dei vespasiani, delle fontanelle, degli ex-voto, della Circolare Destra, della Circolare Sinistra, del Vaticano, delle mille chiese, delle cattedrali fuori le mura, dentro le mura, quella Roma delle suore, dei frati, dei preti, dei gatti…
Me ne andavo da quella Roma degli attici con la vista, la Roma di piazza Bologna, dei Parioli, di via Veneto, di via Gregoriana, quella dannunziana, quella barocca, quella eterna, quella imperiale, quella vecchia, quella stravecchia, quella turistica, quella di giorno, quella di notte, quella dell’orchestrina a piazza Esedra, la Roma fascista di Piacentini… Me ne andavo da quella Roma che ci invidiano tutti, la Romacaput mundi, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell’Altare della Patria, dell’Università di Roma, quella Roma sempre con il sole – estate e inverno – quella Roma che è meglio di Milano…
Me ne andavo da quella Roma dove la gente pisciava per le strade, quella Roma fetente, impiegatizia, dei mezzi litri, della coda alla vaccinara, quella Roma dei ricchi bottegai: quella Roma dei Gucci, dei Ianetti, dei Ventrella, dei Bulgari, dei Schostal, delle Sorelle Adamoli, di Carmignani, di Avenia, quella Roma dove non c’è lavoro, dove non c’è una lira, quella Roma del “core de Roma”… Me ne andavo da quella Roma del Monte di Pietà, della Banca Commerciale Italiana, di Campo de’ Fiori, di piazza Navona, di piazza Farnese, quella Roma dei “che c’hai una sigaretta?”, “imprestami cento lire”, quella Roma del Coni, del Concorso Ippico, quella Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini…
Me ne andavo da quella Roma dimmerda! Mamma Roma: Addio!»
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XXX
PROVINCE – FORMAZIONE DI DIPARTIMENTI
Ma quale intanto era lo stato delle province? Esse finalmente doveano richiamar l’attenzione del governo, forse, fino a quel punto, troppo occupato della sola capitale. Il miglior partito sarebbe stato di farvi le minori novitá possibili; ma, come sempre suole avvenire, s’incominciò dal farsene le piú grandi e le meno necessarie. Il maggior numero delle rivoluzioni ha avuto un esito infelice per la soverchia premura di cangiare i nomi delle cose.
S’incominciò dalla riforma dei dipartimenti. Volle incaricarsi di quest’opera Bassal, francese, che era venuto in compagnia di Championnet. Qual mania è mai quella di molti di voler far tutto da loro! Quest’uomo, il quale non avea veruna cognizione del nostro territorio, fece una divisione ineseguibile, ridicola. Un viaggiatore, che dalla cima di un monte disegni di notte le valli sottoposte che egli non abbia giammai vedute, non può far opera piú inetta (42).
La natura ha diviso essa istessa il territorio del regno di Napoli: una catena non interrotta di monti lo divide da Occidente ad Oriente dagli Apruzzi fino all’estremitá delle Calabrie; i fiumi, che da questi monti scorrono ai due mari che bagnano il nostro territorio a settentrione ed a mezzogiorno, formano le suddivisioni minori. La natura dunque indicava i dipartimenti: la popolazione, i rapporti fisici ed economici di ciascuna cittá o terra doveano indicare le centrali ed i cantoni. Invece di ciò, si videro dipartimenti che s’incrociavano, che si tagliavano a vicenda; una terra, che era poche miglia discosta dalla centrale di un dipartimento, apparteneva ad un’altra da cui era lontana cento miglia; le popolazioni della Puglia si videro appartenere agli Apruzzi; le centrali non furono al centro, ma alle circonferenze; alcuni cantoni non aveano popolazione, mentre moltissimi ne aveano soverchia, perché sulla carta si vedevano notati i nomi dei paesi e non le loro qualitá. Si vuol di piú? Molte centrali di cantoni non erano terre abitate, ma o monti o valli o chiese rurali, ecc. ecc., che aveano un nome sulle carte; molte terre, avendo un doppio nome, si videro appartenere a due cantoni diversi.
Dopo un mese, il governo, che non avea potuto impedire l’opera del cittadino Bassal, la dovette solennemente abolire, e fu necessitá ricorrere a quel metodo col quale avrebbe dovuto incominciare, cioè d’incaricare di un’opera geografica i geografi nostri. Frattanto si comandò che si conservasse l’antica divisione delle province, la quale, sebbene difettosa, era però tollerabile. Ma intanto si crede forsi picciolo male che il governo (poiché il popolo non conosceva né era obbligato a conoscere Bassal), con ordini male immaginati, ineseguibili, strani, perda nell’animo della popolazione quella opinione di saviezza che sola può ispirare la confidenza? Nella Cisalpina si fecero sulle prime gli stessi errori; gli stessi nel territorio romano.
(42) L’opera della divisione dei dipartimenti in Francia è ben eseguita; ma i francesi, che hanno voluto dirigere la stessa operazione presso le altre nazioni, hanno ben mostrato che essi non aveano né le cognizioni né il buon senso di coloro che l’aveano diretta in Francia. Quale stranezza infatti era quella di dividere il territorio ligure in venti dipartimenti?
XXXI
ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
Forse il miglior metodo per organizzare le province era quello di far uso delle autorità costituite che giá vi erano. Tutte le province aveano di giá riconosciuto il nuovo governo: le antiche autoritá o conveniva distruggerle tutte, o tutte conservarle. Non so quale di questi due mezzi sarebbe stato il migliore: so che non si seguí né l’uno né l’altro, ed i consigli mezzani non tolsero i nemici né accrebbero gli amici.
Con un proclama del nuovo governo si ordinò a tutte le antiche autoritá costituite delle province che rimanessero in attivitá fino a nuova disposizione. Intanto s’inviarono da per tutto dei «democratizzatori», i quali urtavano ad ogni momento la giurisdizione delle autoritá antiche; e, siccome queste erano ancora in attivitá, rivolsero tutto il loro potere a contrariar le operazioni dei democratizzatori novelli. In tal modo si permise loro di conservar il potere, per rivolgerlo contro la repubblica, quando ne fossero disgustati; e s’inviarono i democratizzatori, perché avessero un’occasione di disgustarsi.
Quale strana idea era quella dei democratizzatori? Io non ho mai compreso il significato di questa parola. S’intendea forse parlar di coloro che andavano ad organizzar un governo in una provincia? Ma di questi non ve ne abbisognava al certo uno per terra. S’intendeva di colui che andava, per cosí dire, ad organizzare i popoli e render gli animi repubblicani? Ma questa operazione né si potea sperare in breve tempo né richiedeva un commissario del governo. Le buone leggi, i vantaggi sensibili che un nuovo governo giusto ed umano procura ai popoli, le parole di pochi e saggi cittadini, che, vivendo senz’ambizione nel seno delle loro famiglie, rendonsi per le loro virtú degni dell’amore e della confidenza dei loro simili, avrebbero fatto quello che il governo da sé né dovea tentare né potea sperare.
Quando voi volete produrre una rivoluzione, avete bisogno di partigiani; ma, quando volete sostenere o menare avanti una rivoluzione giá fatta, avete bisogno di guadagnare i nemici e gl’indifferenti. Per produrre la rivoluzione, avete bisogno della guerra, che sol colle sètte si produce; per sostenerla, avete bisogno della pace, che nasce dall’estinzione di ogni studio di parti. A persuadere il popolo sono meno atti, perché piú sospetti, i partigiani che gl’indifferenti. Quindi è che, in una rivoluzione passiva, voi dovete far piú conto di coloro che non sono dalla vostra che di quelli che giá ci sono; e, siccome fu un errore e l’istituzione della commissione censoria e la prima pratica seguíta per la formazione della guardia nazionale, perché tendevano a ristringer le cose tra coloro soli che eran dichiarati per la buona causa, cosí fu anche un errore, e fu frequente presso di noi, l’impiegare colui che volontariamente si offeriva, in preferenza di colui che volea esser richiesto, ed il servirsi dell’opera dei giovani anziché di quella degli uomini maturi. Non quelli che con facilitá, ma bensí che con difficoltá guadagnar si possono, sono coloro che piú vagliono sugli animi del popolo. I giovani non vi mancano mai nella rivoluzione; Russo li credeva perciò piú atti alla medesima: se egli con ciò volea intendere che erano piú atti a produrla, avea ragione; se poi credeva che fossero perciò piú atti a sostenerla, s’ingannava. I giovani possono molto ove vi è bisogno di moto, non dove vi è bisogno di opinione.
Giovanetti inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono le province con una «carta di democratizzazione», che Bisceglia, allora membro del comitato centrale, concedeva a chiunque la dimandava. Essi non erano accompagnati da verun nome; fortunati quando non erano preceduti da uno poco decoroso! Non aveano veruna istruzione del governo: ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che egli desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi, chi ai semplici e severi costumi dei provinciali, che chiamò «rozzezze»: s’incominciò dal disprezzare quella stessa nazione che si dovea elevare all’energia repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione straniera, che non ancora conosceva se non perché era stata vincitrice; si urtò tutto ciò che i popoli hanno di piú sacro, i loro dèi, i loro costumi, il loro nome. Non mancò qualche malversazione, non mancò qualche abuso di novella autoritá, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le famiglie principali dei piccioli paesi. Gli animi s’inasprirono. Il secondo governo vide il male che nasceva dall’errore del primo: Abamonti specialmente richiamò quanti ne potette di questi tali democratizzatori. Ma il male era giá troppo inoltrato; il vincolo sociale dei dipartimenti erasi giá rotto, poiché si era giá tolta l’uniformitá della legge e la riunione delle forze: non mancava che un passo per la guerra civile, ed infatti poco tardò a scoppiare.
Come no? Una popolazione scosse il giogo del giovanetto; le altre la seguirono: le popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuta la fortuna di non aver democratizzatori o di averli avuti savi si armarono contro le insorgenti. Ma queste aveano idee comuni, poiché quelle dell’antico governo eran comuni a tutte; s’intendevano tra loro; le loro operazioni erano concertate. Nessuno di questi vantaggi avevano le popolazioni repubblicane. Le antiche autoritá costituite, che conservavano tuttavia molto potere, erano, almeno in segreto, per le prime. Qual meraviglia se, dopo qualche tempo, le popolazioni insorgenti, sebbene sulle prime minori di numero e di forze, oppressero le repubblicane?
Si volle tenere una strada opposta a quella della natura. Questa forma le sue operazioni in getto, ed il disegno del tutto precede sempre l’esecuzione delle parti: da noi si vollero fare le parti prima che si fosse fatto il disegno.
XXXII
SPEDIZIONE CONTRO GL’INSORGENTI DI PUGLIA
La nazione napolitana non era piú una: il suo territorio si potea dividere in democratico ed insorgente. Ardeva l’insorgenza negli Apruzzi e comunicava con quella di Sora e di Castelforte. Queste insorgenze si doveano in gran parte all’inavvertenza ed al picciol numero dei francesi, i quali, spingendo sempre innanzi le loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne dietro, non pensarono ad organizzarvi un governo. Che vi lasciarono dunque? L’anarchia. Questa non è possibile che duri piú di cinque giorni. Che ne dovea avvenire? Dopo qualche giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si accostasse piú all’antico governo, che i popoli sapeano, piuttosto che al nuovo, che essi ignoravano; e l’idea dei nuovi conquistatori dovea associarsi negli animi loro alla memoria di tutti i mali che avea prodotti l’anarchia.
Il cardinal Ruffo, il quale ai primi giorni di febbraio avea occupata la Calabria dalla parte di Sicilia, spingeva un’altra insorgenza verso il settentrione e veniva a riunirsi alle altre insorgenze in Matera. Il governo troppo tardi avea spedito nelle Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non gli voleano: per che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu fortunato chi salvò la vita. Monteleone, ricca e popolata cittá, ripiena di spirito repubblicano, avea opposta una resistenza ostinata a Ruffo; ma, sola, senza comunicazione, era stata costretta a cedere. E nello stesso modo cedettero tutte le altre popolazioni di Calabria.
Tutte le popolazioni repubblicane delle altre province, isolate, circondate, premute da per tutto dagl’insorgenti, si vedevano minacciate dello stesso destino. Si aggiungeva a ciò che le popolazioni insorgenti saccheggiavano, manomettevano tutto; le popolazioni repubblicane erano virtuose. Ma, quando, per effetto dei partiti, gli scellerati non si possono tenere a freno, essi si dánno a quel partito i di cui princípi sono piú conformi ai loro propri, e forzano, per cosí dire, gli dèi a non essere per quella causa che approva Catone.
Si vollero distruggere le insorgenze della Puglia e della Calabria come le piú pericolose, come le piú lontane e le piú difficili a vincere, perché le piú vicine alla Sicilia. Partirono da Napoli due picciole colonne, una francese, che prese il cammino di Puglia, l’altra di napolitani, comandata da Schipani, che prese quello di Calabria per Salerno. Ma la colonna di Puglia dovea anch’essa per l’Adriatico ed il Ionio passar nella Calabria e riunirsi alla colonna di Schipani.
Il comandante della colonna francese, aiutato dai patrioti e soldati che conduceva Ettore Carafa e dai patrioti di Foggia, distrusse la formidabile insorgenza di Sansevero; indi, spingendosi piú oltre, prese Andria e poi Trani, e fu egli che distrusse l’armata dei còrsi nelle vicinanze di Casamassima. Ma egli abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava il corriere pubblico, e che avrebbero dovuti esser sagri; e, quando gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare che essi erano degl’insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forsi lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl’inimici, ed, ove si trattava d’imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una cittá nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La stessa condotta tenne in Conversano, cui, ad onta di esser stata assediata dagl’insorgenti, impose la contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non vi restò un paio di fibbie d’argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte.
Le prime armi di una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza e la giustizia; ed i nostri traviati fratelli meritavano piú di esser corretti che distrutti. Facendo altrimenti, si credevano vinti, mentre non erano che fugati. Trani fu saccheggiata; questa bella, popolosa e ricca cittá fu distrutta; ma gl’insorgenti di Trani rimanevano ancora: essi, all’avvicinarsi dei francesi, si erano tutt’imbarcati, pronti a ritornare piú feroci, tosto che i francesi avessero abbandonate le loro case. Lo dirò io? Le tante vittorie ottenute contro gl’insorgenti hanno distrutti piú uomini da bene che scellerati. Questi, consci del loro delitto, pensano sempre per tempo alla loro salvezza. L’uomo dabbene è còlto all’improvviso ed inerme: la sua casa è saccheggiata del pari e forse anche prima di quella dell’insorgente, perché l’uomo dabbene è quasi sempre il piú ricco, e, quando l’insorgente ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui ha sofferto il saccheggio.
Un buon governo vuole esser forte ma non crudele, severo ma non terrorista. Le insorgenze di Napoli si poteano ridurre a calcolo. Pochi erano i punti centrali delle medesime, e chiunque conosceva i luoghi vedeva essere quegl’istessi che nell’antico governo erano ripieni di uomini i piú oziosi e piú corrotti e, per tal ragione, piú miserabili e piú facinorosi. Nei luoghi dove in tempo del re vi eran piú ladri, contrabbandieri ed altra simile genia, in tempo della repubblica vi furono piú insorgenti. Erano luoghi d’insorgenza Atina, Isernia, Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero, ecc. Nei luoghi ove la gente era industriosa ed, in conseguenza, agiata e ben costumata, si potea scommettere cento contro uno che vi sarebbe stata una eterna tranquillitá.
I primi motori dell’insorgenza furon coloro che avean tutto perduto colla ruina dell’antico governo, e che nulla speravano dal nuovo: se questi furon molti, gran parte della colpa ne fu del governo istesso, che non seppe far loro nulla sperare, e che fece temere che il governo repubblicano fosse una fazione. Eppure la repubblica avea tanto da dare, che era pericolosa follia credere di poter sempre dare ai repubblicani!
Grandi strumenti di controrivoluzione furono tutte le milizie dei tribunali provinciali, tutti gli armigeri dei baroni, tutt’i soldati veterani che il nuovo ordine di cose avea lasciati senza pane, tutti gli assassini che correvano con trasporto dietro un’insorgenza, la quale dava loro occasione di poter continuare i loro furti e quasi di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò quasi tutte le centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila, Trani, dove la residenza delle autorità provinciali, delle loro forze e di quanto nelle province eravi di scellerati, che ivi si trovavano in carcere e che, nell’anarchia che accompagnò il cangiamento del governo, furono tutti scapolati, riuniva piú malcontenti e piú facinorosi. Costoro strascinarono tutti gli altri esseri pacifici e meramente passivi, intimoriti egualmente dall’audacia dei briganti e dalla debolezza del governo nuovo.
Contro tali insorgenze non vale tanto una spedizione militare che distrugga, quanto una forza sedentaria che conservi: gl’insorgenti fuggivano alla vista di un esercito: tostoché l’esercito era passato, una picciola forza, ma permanente, loro avrebbe impedito di riunirsi e di agire. Il soldato non soffre le stazioni: brama la guerra ed ama che il nemico si renda forte a segno di meritare una spedizione, onde aver l’occasione di misurarsi, la gloria di vincerlo ed il piacere di spogliarlo.
Il comandante francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba, commissario del dipartimento della Lucania, perché marciasse sopra Matera ad impedire che vi si formasse un’insorgenza, che potea divenir pericolosa per quel dipartimento. Ma, Matera non essendo ancora rivoltata, non vi andò, perché non avrebbe potuto farla saccheggiare. E, quando, premurato dalle reiterate istanze di Palomba, s’incaminò con tutte le forze che aveva, fu richiamato in Napoli. L’insorgenza, che in Matera era tutta pronta e solo compressa dal timore della vicinanza delle forze superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e si riuní a quella della Calabria. Ma perché non marciò Palomba istesso colle sue forze sopra Matera? Perché Palomba, come commissario, non avea saputo trovare i mezzi di riunirle e di sostenerle; perché il suo generale Mastrangiolo tutt’altro era che generale. Caldi ambidue del piú puro zelo repubblicano, colle piú pure intenzioni, ma privi di quella pubblica opinione, che sola riunisce le forze altrui alle nostre, e di quel consiglio, senza di cui non vagliono mai nulla né le forze nostre né le altrui, tutti e due non sapeano far altro che gridare «Viva la repubblica!», ed intanto aspettare che i francesi la fondassero, come se fosse possibile fondare una repubblica colle forze di un’altra nazione! Nel dipartimento il piú democratico della terra, colle forze imponenti di Altamura, di Avigliano, di Potenza, di Muro, di Tito, Picerno, Santofele, ecc. ecc., Mastrangiolo perdette il suo tempo nell’indolenza. I bravi uffiziali, che aveva attorno, lo avvertirono invano del pericolo che lo premeva: l’insorgenza crebbe e lo costrinse a fuggire.
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![vittorio gassman vittorio gassman]()
Da Alessandro Gassman, Sbagliando l’ordine delle cose, Finale di partita. Spegni le luci, pagg. 9-14, Mondadori, Milano 2012.
Spegni le luci. L’ultima cosa che mi ha detto prima che me ne andassi è stata: «Spegni le luci».
Lo ripeteva spesso, come un mantra. Aveva a che fare con l’interdetto del consumo dell’energia, era un metodo per esorcizzare quel trauma, il buio, introiettato sin da piccolo assieme alla paura di morire povero. «Spegni le luci» disse. E questa volta intendeva per sempre. Quella sera ero andato a casa sua, era da solo e gli ho preparato la cena. Stava male, ma non mi sembrava così tanto. Aveva il pigiama a righe stropicciato e il fiato corto, ansimava un po’, ma lo trovavo reattivo.
Diletta la mattina successiva mi chiamò in lacrime e la raggiunsi in motorino. Arrivai a casa e subito abbracciai il piccolo Jacopo. Era lui che aveva trovato papà morto. La prima che vidi in salotto fu Nadia Cassini. Tu dimmi che cazzo c’entra una Nadia Cassini inedita e disperata a casa nostra, addirittura consolata da Diletta. Arrivammo a ipotizzare un vecchio flirt mai rivelato. Era solo il primo dei personaggi improbabili che entrarono da quella porta. I cassamortari giravano intorno come avvoltoi, controllavano in continuazione l’orologio e con il tatto sconcio che li distingue mi dissero: «A signò, questo fra un po’ c’appesta a tutti. Che famo, je mettemo un vestitino mejo e lo posamo ne la cella frigorifera? Dàje va’!».
A quel punto cacciai via tutti: i becchini, la Cassini, l’intera fauna degli intrufolati, e restammo solo noi della famiglia, i più stretti, che siamo comunque larghi. Eravamo da molto tempo una famiglia allargata dalle tante storie sentimentali di mio padre, che ha avuto mogli italiane, americane, francesi, rapporti vari ed eventuali. È vero, ovunque nel mondo la maggioranza delle famiglie vive secondo un modello standard: madre, padre e figli, nella stessa casa, con passaporti rilasciati dalla medesima nazione, che parlano la stessa lingua. Un legame che, per il senso comune, appare necessario e al contempo naturale. Noi avevamo imparato a governare il caos degli affetti attraverso lingue differenti e culture sentimentali diverse.
Ebbi il coraggio di guardare il suo corpo solo un attimo. Mi sembrò così piccolo. Quando lui era bambino, suo padre era talmente gigantesco che sotto la doccia lo riparava dall’acqua. Quando io ero bambino, il pomeriggio mi appisolavo sul petto di mio padre e mi sembrava di poggiare la testa su una montagna. Inspirava e andavo su, espirava e andavo giù. Un saliscendi metronomico del nostro affetto, un ottovolante incantato della nostra intimità. Un uomo così grande era diventato d’un tratto così piccolo. I corpi dei morti rimpiccioliscono. Come si restringessero dopo che la vita ha smesso di alitare in loro.
Voleva farsi imbalsamare. Seriamente. Si consultò anche con Giulio Andreotti per capire come farlo. Intendeva registrare alcune sue frasi tipiche su «una bobina musicale», come la chiamava lui, ed essere impagliato come un gufo parlante in salotto. Un po’ macabro, ma pensava che fosse un bello sberleffo alla morte. Così nelle serate con ospiti e amici avrebbe potuto continuare a importunarci con la sua dizione magistrale. Con delusione scoprì che la legge non lo permetteva. Uno dei miti che ha inseguito e copiato è quello di Edmund Kean, esempio di genio e sregolatezza, vizioso e turbolento, che desiderava essere preso dalla bara e portato a cena con gli amici. Morto. Insomma, uno che aveva trovato il giusto squilibrio e in cui mio padre si guardava come in uno specchio.
Il caro Mario Monicelli, compagno sul set e fuori, col suo solito modo di dissacrare, sosteneva la teoria che «muoiono solo gli stronzi». Emio padre l’aveva adottata, diceva che sarebbe stato molto attento a non farsi capitare quel momento di stronzaggine, almeno finché non avesse compiuto cento anni. Anzi, nemmeno troppo segretamente aspirava a diventare bicentenario.
Sulla sua tomba volle che fosse scritto: “Qui giace Vittorio Gassman. Attore. Non fu mai impallato!”. Come epigrafe alternativa aveva dettato: “Qui giace Vittorio Gassman, è morto povero ma ben illuminato”. Non morì certamente povero, come temeva da piccolo. Abbiamo optato per la prima.
Mi pareva strano vederlo così piccolo nella bara. La morte rimpicciolisce. Non mi faceva paura. Piuttosto mi sembrava quasi di mancargli di rispetto, invadendo un momento di sua debolezza. «È dolce se a fine spettacolo il genio diventa un cretino, ma dimmi che il nostro vicino non se ne accorgerà.» Quella non era la sua taglia, per la prima volta non era all’altezza di una situazione e non potevo vederlo così, non avrebbe voluto che lo vedessi così. Non è così, sconfitto e inadeguato, che volevo ricordarlo.
L’istante in cui lo salutai non sapevo bene cosa augurargli. Nessuno di noi due credeva in Dio. Ci definivamo degli “speranzosi” piuttosto. Ma se fosse capitato in Paradiso gli avrei augurato di venire declassato in Purgatorio, gli sarebbe piaciuto di più: più simile alla vita terrena, con le sue imperfezioni e i suoi dislivelli.
Andai al piano di sopra a preparare un caffè. Ero abituato, papà non sapeva farselo. Ci aveva provato, sbagliando sempre la successione delle fasi di quella operazione, e ci aveva definitivamente rinunciato dopo aver tentato di accendere il fornello elettrico con un fiammifero.
C’era il televisore acceso e giocava l’Italia. Io e Jacopo ci sedemmo lì davanti, lanciando occhiate distratte alla partita. Era la semifinale dei campionati europei, Totti in panchina, per niente contento. Anche noi non eravamo per niente contenti. Nei primi venti minuti l’Olanda aggrediva e gli azzurri soccombevano. I giocatori si innervosirono, fioccarono le ammonizioni, ci fu un’espulsione e rimanemmo in dieci in campo. Rigore contro, che non va a segno. Salì Emanuele e si sedette insieme a noi. Non parlavamo di quello che succedeva al piano di sotto. Come sempre in questi casi, è il silenzio a urlare di più. Avevamo ancora espressioni di circostanza disegnate sulle facce per censurare il dolore. All’inizio del secondo tempo l’inferiorità numerica si trasformò in grinta, le nostre ripartenze erano un bel segnale, cominciarono ad appassionarci. Secondo rigore contro l’Italia. La palla non va dentro. Si vede che non era destino. E constatarlo quando al piano di sotto un altro destino si era appena compiuto, sembra strano dirlo, dava la sensazione di un processo naturale. Qualcosa finisce, qualcos’altro rinasce.
Salì Giancarlo e si unì a noi. La partita prosegue ai tempi supplementari. Il risultato non si sposta. Zero a zero. Si va ai calci di rigore, con tutte le gambe azzurre in preda ai crampi. Le nostre quattro facce risucchiate dallo schermo. Si spezza il silenzio e anche il pudore con un tifo sommesso, quasi una liturgia. Sale la tensione. Tira Di Biagio, l’Italia centra il primo. Tocca all’Olanda, Toldo para il lancio di Deboer. Tra noi ricade il silenzio, ma stavolta di scaramanzia. Andiamo in rete con Pessotto, loro di nuovo fuori. Stam manda la palla in tribuna. Siamo due a zero. Si può sperare. Arriva Totti. In credito di attenzione, orgoglioso, spudorato, sbeffeggiante, e je fa er cucchiaio che diventa leggenda.
Ha rischiato l’impossibile per quel tre a zero. L’arancione Kluivert infila secco alla sinistra del nostro portiere. Tre a uno. Tocca a Maldini, che non tira un rigore da tre anni. Lo sbaglia. L’Olanda può rimettersi in carreggiata con Bosvelt, ma un Toldo in stato di grazia intercetta e para.
Finisce tre a uno per noi. Esplodemmo di una gioia paradossale. Ci abbracciammo con calore e in quel salotto sembrò di essere allo stadio. Furono novanta minuti di sollievo. Grazie all’incosciente leggerezza di quel gesto atletico così teatrale, il cucchiaio, avevamo vinto la disperazione dell’angoscia, non la tristezza del dolore. Quella la superai con il distacco, come fossi spettatore di una rappresentazione. L’avevo impacchettata ben bene da qualche parte e avevo attrezzato la mia bomba a orologeria.
Il mio lutto non è stato isterico, ma appena visibile agli altri, forse perché l’idea di teatralizzarlo, trattandosi di mio padre il grande attore, mi sarebbe stata insopportabile. L’amore e il dolore, nell’istante in cui sono presenti, sono uno stato eterno, irrimediabile, sconvolgente. La vita si accorda su di loro. E può accadere che la presenza dell’assenza pervada tutto e ti accompagni. Ne sento la mancanza terribilmente e affatto. Affatto perché mi tornano in mente le sue battute e rido, so cosa avrebbe detto in determinate situazioni e rido, io stesso continuo quel vizio che ho sin da piccolo di sdrammatizzare e, quando lo faccio, immagino lui ridere. Ero il suo giullare. Papà nascondeva la timidezza con una sicurezza di sé che a tratti sfiorava l’arroganza. E poteva sembrare molto antipatico. In realtà era un uomo dolce, molto simpatico e bramoso di risultare tale. Un giorno, avevo quattro anni, mi chiese se lo trovavo divertente. «Alessandro, ti sono simpatico?» Risposi: «Sì, sei divertente». Poi, appena lo vidi gonfiarsi d’orgoglio, aggiunsi serio: «Però sei molto vecchio».
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Nel mese di Luglio è raffigurata la trebbiatura: i contadini sono intenti a battere le spighe nell’aia di una cascina con torri colombaie.
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Un anno dopo l’esordio americano, avvenuto sul numero 1 di “Action Comics” del giugno 1938, Superman debuttò anche in Italia sul numero 19 de “Gli Albi dell’Audacia” del 2 luglio 1939, con la differenza che il nome americano, non gradito alla visione autarchica fascista, venne mutato in Ciclone. La versione italiana riprese le strisce pubblicate sui quotidiani statunitensi a partire dal 16 gennaio 1939, non fa riferimento agli albi originali di “Action Comics”, di conseguenza il materiale a disposizione non fu molto. Eppure il successo di questo nuovo personaggio indusse gli editori de “Gli Albi Dell’Audacia” a far uscire con cadenza mensile le storie di Ciclone. Le prime due pubblicazioni erano l’originale americano disegnato da Jerry Siegel e Joe Shuster, rivisto e tradotto, anche se ben presto furono insufficienti le storie di provenienza americana, probabilmente per l’impossibilità di avere accesso al materiale originale, quindi a partire dal numero 31 uscirono due strisce totalmente italiane disegnate da Vincenzo e Zenobio Baggioli. Notevoli le differenze tra le due versioni: il Superman italiano non fa mistero della sua identità segreta, nel suo costume da supereroe perde lo scudo con la S, lettera inizialmente sostituita con una sfera, e viene inserito in contesti più esotici. L’ultima apparizione di Ciclone fu sul numero 82 degli Albi Juventus, in data 29 settembre 1940, l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti fecero interrompere la pubblicazione.
CRONOLOGIA
Gli Albi dell’AUDACIA
N°19 (2 Luglio 1939) Ciclone L’Uomo D’Acciaio (Siegel & Shuster) con la storia delle origini
N°25 (19 Agosto 1939) Il Re del ring (Siegel e Shuster)
N°31 (27 Settembre 1939) La Torpedine Umana (Vincenzo e Zenobio Baggioli)
N°34 (15 Ottobre 1939) Il Gigante di Pietra (Vincenzo e Zenobio Baggioli)(in copertina il numero è erroneamente scritto come XXIX)
ALBOGIORNALE
N°39 (19 Novembre 1939) La città condannata (Vincenzo e Zenobio Baggioli)
Albi JUVENTUS
N°47 (28 Gennaio 1940) La valle misteriosa (Vincenzo e Zenobio Baggioli)
N°55 (24 Marzo 1940) L’aviatore solitario (Vincenzo e Zenobio Baggioli)
dal N° 59 (21 Aprile 1940) al N° 82 (29 Settembre 1940) appaiono in appendice le strisce di Superman (sempre con il nome di Ciclone) di Siegel e Shuster che proseguono quelle dell’Audace.
L’AUDACE
dal 299 (21/9/39) al 304 (26/10/39) Ciclone l’Uomo Fenomeno (Vincenzo e Zenobio Baggioli) (nel 298 c’è una striscia di trailer del personaggio)
dal 316 (18/1/40) al 324 (28/03/40) strisce di Siegel e Shuster (con le origini, le stesse pubblicate sul primo albo)
TUTTI I DISEGNI DI QUESTO ARTICOLO SONO COPYRIGHT © D.C. COMICS
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XXXIII
SPEDIZIONE DI SCHIPANI
Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del piú caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista in una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione destinata a passar nelle Calabrie, cioè nelle due province le piú difficili a ridursi ed a governarsi per l’asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica.
Schipani marcia: prende Rocca di Aspide, prende Sicignano. A Castelluccia trova della gente riunita e fortificata in una terra posta sulla cima di un monte di difficilissimo accesso.
Vi erano però mille strade per ridurla. Castelluccia era una picciola terra, che potea senza pericolo lasciarsi dietro. Egli dovea marciare diritto alle Calabrie, ove eranvi diecimila patrioti che lo attendevano; ove Ruffo non era ancora molto forte, ed andava tentando appena una controrivoluzione, di cui forse egli stesso disperava; e, discacciato una volta Ruffo, tutte le insorgenze della parte meridionale della nostra regione andavano a cedere. Ma Schipani non seppe conoscere il nemico che dovea combattere, né seppe, come Scipione, trascurare Annibale per vincere Cartagine.
Tutt’i luoghi intorno a Castelluccia erano ripieni di amici della rivoluzione. Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, Capaccio, ecc., potevano dare piú di tremila uomini agguerriti: il commissario del Cilento ne avea giá pronti altri quattrocento, ed anche di piú, se avesse voluto, ne avrebbe potuto riunire. Se Schipani avesse avuto piú moderato desiderio di combattere e di vincere, e se prima di distruggere i nemici avesse pensato a rendersi sicuro degli amici, che gli offerivano i loro soccorsi, avrebbe potuto facilmente formare una forza infinitamente superiore a quella che dovea combattere.
Avrebbe potuto ridurre Castelluccia per fame, poiché non avea provvisioni che per pochi giorni: avrebbe potuto prenderla circondandola e battendola dalla cima di un monte che la domina; e questo consiglio gli fu suggerito dai cittadini di Albanella e della Rocca, che si offrirono volontari a tale impresa. Qual disgrazia che tal consiglio non sia nato da se stesso nella mente di Schipani!
Egli avea un’idea romanzesca della gloria, e riputava viltá il seguire un consiglio che non fosse suo. Questo suo carattere fece sí che ricusasse l’offerta dei castelluccesi, i quali volean rendersi, a condizione però che la truppa non fosse entrata nella terra; e l’altra, offertagli da Sciarpa, capo di tutta quella insorgenza, di voler unire le sue truppe alle truppe della repubblica, purché gli si fosse dato un compenso (43). Schipani rispose come Goffredo: Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco.
Questo stesso carattere gli fece immaginare un piano d’assalto della Castelluccia da quel lato appunto per lo quale il prenderla era impossibile. I nostri fecero prodigi di valore. Il nemico, forte per la sua situazione, distrusse la nostra truppa colle pietre. Schipani fu costretto a ritirarsi; e, cadendo in un momento dall’audacia nella disperazione, la sua ritirata fu quasi una fuga.
La spedizione diretta da Schipani dovea esser comandata dal valoroso Pignatelli di Strongoli. È stata una disgrazia per la nostra repubblica che Pignatelli, per malattia sopravvenutagli, non poté allora prestarsi agli ordini del governo ed al desiderio dei buoni.
Dopo questa operazione, Schipani fu inviato contro gl’insorgenti di Sarno. Giunse a Palma, incendiò due ritratti del re e della regina, che per caso vi si ritrovarono, arringò al popolo e se ne ritornò indietro. Vi andarono i francesi, saccheggiarono ed incendiarono Lauro, donde tutti gli abitanti erano fuggiti, e non uccisero un solo insorgente. Cosí gl’insorgenti di Lauro e di Sarno, non vinti, ma solo irritati, si unirono a quelli di Castelluccia e delle contrade di Salerno, giá vincitori.
(43) Sciarpa, uno de’ piú grandi e piú funesti controrivoluzionari, lo divenne per calcolo. Egli era uno degli uffiziali subalterni delle milizie del tribunale di Salerno: col nuovo ordine di cose, avrebbe potuto passare nella gendarmeria. Non fu ammesso. Sciarpa non fu né vezzeggiato né spento.
XXXIV
CONTINUAZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
In tale stato erano le cose, quando le autoritá dipartimentali, giá inviate ne’ dipartimenti, incominciarono l’opera della organizzazione delle municipalitá.
Per una rivoluzione non vi è oggetto piú importante della scelta de’ munícipi. Dipende da essi che la forza del governo sia applicata convenientemente in tutt’i punti; dipende da essi di far amare o far odiare il governo. Il popolo non conosce che il municipe, e giudica da lui di coloro che non conosce.
Per eleggere i munícipi in una nazione, la quale giá anche nell’antica costituzione avea un governo municipale, si volle seguire il metodo di un’altra che non conosceva municipalitá prima della rivoluzione; e cosí, mentre si promettevano nuovi diritti al popolo, se gli toglievano gli antichi.
Era quasi fatalitá seguire le idee, sebbene indifferenti, de’ nostri liberatori!
L’elezione de’ munícipi fu affidata ad un collegio di elettori, che furono scelti dal governo. – Qual è dunque questa libertá e questa sovranitá che ci promettete? – dicevano le popolazioni. – Prima i munícipi erano eletti da noi; abbiam tanto sofferto e tanto conteso per conservarci questo diritto contro i baroni e contro il fisco! Oggi non lo abbiamo piú. Prima i munícipi rendevano conto a noi stessi delle loro operazioni; oggi lo rendono al governo. Noi dunque colla rivoluzione, anziché guadagnare, abbiam perduto? – Si volea spiegar loro il sistema elettorale; si volea far comprendere come continuavano a dirsi eletti da loro quelli che erano eletti dai suoi elettori: ma le popolazioni non credevano né erano obbligate a credere ad una costituzione che ancora non si era pubblicata. Si diceva che gli elettori dovessero un giorno esser eletti dal popolo; ma intanto il popolo vedeva che erano eletti dal governo: il fatto era contrario alla promessa. Quando anche la costituzione fosse stata giá pubblicata, i popoli credevan sempre superfluo formar un corpo elettorale per eleggere coloro che prima in modo piú popolare eleggevano essi stessi, e riputavano sempre perdita il passare dal diritto dell’elezione immediata a quello di una semplice elezione mediata.
Ho osservato in quella occasione che le scelte de’ munícipi fatte dal popolo furono meno cattive di quelle fatte dai collegi elettorali, non perché i collegi fossero intenzionati a far il male, ma perché erano nell’impossibilitá di fare il bene, perché non conoscevano le persone che eleggevano e perché spesso eleggevano persone che il popolo non conosceva. Io ripeto sempre lo stesso: nella nostra rivoluzione gli uomini eran buoni, ma gli ordini eran cattivi. Io comprendo l’utilitá di un collegio elettorale dipartimentale, che elegga o proponga que’ magistrati che soprastano alla repubblica intera; ma un collegio dipartimentale che discenda ad eleggere i magistrati municipali mi sembra un’istituzione antilogica, per la quale dalle idee delle specie, invece di risalire a quella del genere, si voglia discendere a quella degl’individui, che debbon precedere l’idea della specie. È vero che in taluni momenti si richieggono negli uomini pubblici molte qualitá che il popolo o non conosce o non apprezza; ma voi, che avete il governo della nazione, sapete molto poco, quando non sapete far sí che l’elezione cada sulle persone degne della vostra confidenza, senza alterare l’apparenza della libertá.
Che ne avvenne? I collegi elettorali distrussero le elezioni fatte dal popolo, disgustarono il popolo e gli uomini popolari che il popolo avea eletto. Se il collegio elettorale chiedeva degli uomini probi, questi erano piú noti al popolo, coi quali convivevano, che a sei persone inviate da Napoli, le quali non conoscevano il popolo né erano conosciute dal medesimo; se chiedeva degli uomini utili alla rivoluzione, quali potevano esser mai questi se non quegl’istessi che il popolo amava e che il popolo rispettava?
Questa parola «popolo», in tutt’i luoghi ed in tutt’i tempi, altro non dinota che quattro, tre, due e talvolta una sola persona, che, per le sue virtú, pe’ suoi talenti, per le sue maniere, dispone degli animi di una popolazione intera: se non si guadagnano costoro, invano si pretende guadagnare il popolo, e non senza pericolo talora uno si lusinga di averlo guadagnato.
Dopo qualche tempo i collegi elettorali furono aboliti; ma non si restituí l’antico diritto alle popolazioni. Si credette male degli uomini il male che nasceva dalle cose. S’inviarono de’ commissari organizzatori, cui si diedero tutte le facoltá del corpo elettorale; si commise ad un solo quel diritto che prima almeno esercitavano sei; e, con ciò, l’esercizio, sebbene fosse piú giusto, parve piú tirannico e piú capriccioso. Diverso sarebbe stato il giudizio del popolo, se questi commissari fossero stati inviati prima. La loro istituzione era piú conforme alla natura, alle antiche idee de’ popoli, ai bisogni della rivoluzione.
XXXV
MANCANZA DI COMUNICAZIONE
Ma il governo, mentre si occupava della organizzazione apparente, trascurava o, per dir meglio, era costretto a trascurare, la parte piú essenziale dell’organizzazione vera, che consiste nel mantener libera la comunicazione tra le diverse parti di una nazione. Sarebbe stato inescusabile il governo, se questa trascuratezza fosse stata volontaria; ma essa era una conseguenza inevitabile della scarsezza e della non buona direzione delle forze. Se poca forza, ben ripartita, la quale avesse agito continuamente sopra tutt’i punti, o almeno sopra i punti principali, sarebbe stata bastante a prevenire, ad impedire, a togliere ogni male; molta, che agiva per masse e per momenti in un punto solo, non potea produrre che un debole effetto e passeggiero.
Le province ignoravano ciò che si ordinava nella capitale; la capitale ignorava ciò che avveniva nelle province. Si crederebbe? Non si pubblicavano neanche le leggi. Due mesi dopo la pubblicazione in Napoli della legge feudale, non fu questa pubblicata in tutto il dipartimento del Volturno, vale a dire nel dipartimento piú vicino; e la legge feudale era tutto nella nostra rivoluzione.
Questa legge, che dovea esser nota ai popoli ai quali giovava, fu nota ai soli baroni che offendeva, perché questi soli erano nella capitale. Questa sola circostanza avrebbe di molto accelerata la controrivoluzione, se una parte non piccola della primaria nobiltá non fosse stata per sentimento di virtú attaccata alla repubblica, ad onta de’ non piccoli sacrifici che le costava.
Intanto circolavano per i dipartimenti tutte le carte che potevano denigrare il nuovo ordine di cose, e passavano per le mani de’ realisti, i quali accrescevano colle loro insidiose interpretazioni i sospetti che ogni popolo ha per le novitá.
Questa mancanza di comunicazione fu quella che favorí l’impostura dei còrsi Boccheciampe e De Cesare nella provincia di Lecce; e di questa profittarono il cardinal Ruffo e tutti gli altri capi sollevatori, e riuscí loro facile il far credere che in Napoli era ritornato il re e che il governo repubblicano erasi sciolto. Essi erano creduti, perché il governo nelle province era muto, né piú si udiva la sua voce. Ruffo dava a credere alle province che fosse estinta la repubblica: il Monitore repubblicano, al contrario, dava a credere alla capitale che fosse morto Ruffo. Ma l’errore di Ruffo spingeva gli uomini all’azione, e quello de’ repubblicani gli addormentava nell’indolenza; ed a Ruffo giovavano egualmente e l’errore de’ realisti e quello de’ repubblicani.
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XXXVI
POLIZIA
I realisti aveano piú libera e piú estesa comunicazione pel nostro territorio che lo stesso governo repubblicano. Le Calabrie erano loro aperte; aperto era tutto il littorale del Mediterraneo da Castelvolturno fino a Mondragone, cosicché gl’insorgenti di quei luoghi erano confortati ed aveano armi e munizioni dagl’inglesi, padroni de’ mari; aperto avea il mare anche Proni (44), che comandava l’insorgenza degli Apruzzi. Tutte queste insorgenze si andavano stringendo intorno Napoli, ed in Napoli stessa aveano delle corrispondenze segrete, che loro davano nuove sicure dell’interna debolezza.
Nulla fu tanto trascurato quanto la polizia nella capitale. In primo luogo non si pensò a guadagnar quelle persone che sole potevano mantenerla. La polizia, al pari di ogni altra funzione civile, richiede i suoi agenti opportuni, poiché non tutti conoscono il paese e sanno le vie, per lo piú tortuose ed oscure, che calcano gl’intriganti e gli scellerati. Felice quella nazione ove le idee ed i costumi sono tanto uniformi agli ordini pubblici, che non vi sia bisogno di polizia. Ma, dovunque essa vi è, non è e non deve esser altro che il segreto di saper render utili pochi scellerati, impiegandoli ad osservare e contenere i molti. Ma in Napoli gli scellerati e gl’intriganti furono odiati, perseguitati, abbandonati. I nuovi agenti della polizia repubblicana erano tutti coloro che aveano educazione e morale, perché essi erano quelli che soli amavano la repubblica. Or le congiure si tramavano tra il popolaccio e tra quelli che non aveano né costume né educazione, perché questi soli avea potuto comprar l’oro di Sicilia e d’Inghilterra. Quindi le congiure si tramavano quasi in un paese diverso, di cui gli agenti della polizia non conoscevano né gli abitanti né la lingua; e la morale de’ repubblicani, troppo superiore a quella del popolo, è stata una delle cagioni della nostra ruina. La seconda cagione fu che il gran numero de’ repubblicani si separò soverchio dal popolo; onde ne avvenne che il popolo ebbe sempre dati sicuri per saper da chi guardarsi. Questo fece sí che fosse ben esercitata quella parte della polizia che si occupa della tranquillitá, perché per essa bastava il timore; mal esercitata fu l’altra che invigila sulla sicurezza, perché per essa è necessaria la confidenza. Il popolo, temendo, era tranquillo; ma, diffidando, non parlava: cosí si sapeva ciò che esso faceva e s’ignorava ciò che esso macchinava.
I francesi forse temettero piú del dovere un popolo sempre vivo, sempre ciarliero; cedettero pericoloso che questo popolo, per necessitá di clima e per abitudine di educazione, prolungasse i suoi divertimenti fino alle ore piú avanzate della notte. Il popolo si vide attraversato nei suoi piaceri, che credeva e che erano innocenti; cadde nella malinconia (stato sempre pericoloso in qualunque popolo e precursore della disperazione; e non vi furono piú quei luoghi dove, tra l’allegrezza e tra il vino, il piú delle volte si scoprono le congiure. Il carattere e le intenzioni dei popoli non si possono conoscere se non se quando essi sono a lor agio: in un popolo oppresso le congiure sono piú frequenti a macchinarsi e piú difficili a scoprirsi.
È indubitato che in Napoli erasi ordita una gran congiura, uno dei grandi agenti della quale fu un certo Baccher. Baccher fu arrestato in buon punto: le fila dei congiurati non furono scoperte; ma intanto la congiura rimase priva di effetto.
(44) Proni era, mi si dice, un armigero del marchese del Vasto: i suoi delitti gli avean fatta meritare la condanna alla galera, donde era fuggito. Nell’anarchia si mise alla testa di altri assassini e divenne, in séguito, generale. Altri dicono che fosse stato prete.
XXXVII
PROCIDA – SPEDIZIONE DI CUMA – MARINA
Il primo progetto dei congiurati era quello che gl’inglesi dovessero occupar Ischia e Procida, come difatti l’occuparono, onde aver maggior comoditá di mantenere una corrispondenza in Napoli e di prestare a tempo opportuno la mano alle altre operazioni. Questo inconveniente fu previsto; ma il governo non avea forze sufficienti per custodir Procida: i francesi non compresero il pericolo di perderla.
Gl’inglesi, padroni di Procida, tentarono uno sbarco nel littorale opposto di Cuma e Miseno.
Un distaccamento di pochi nostri, che occupò il littorale, lo impedí; e la corte di Sicilia dovette piú di una volta fremere per le disfatte dei suoi superbi alleati.
Forse sarebbe riuscito anche di discacciarli dall’isola. Ma la nostra marina era stata distrutta dagli ultimi ordini del re; e nei primi giorni della nostra repubblica le spese sempre esorbitanti, che seco porta un nuovo ordine di cose, avean tolto ogni modo di poter far costruire anche una sola barca cannoniera. I pochi e miseri avanzi della marina antica furono per indolenza di amministrazione militare dissipati; e si vide vendere pubblicamente il legno, le corde e finanche i chiodi dell’arsenale.
Caracciolo, ritornato dalla Sicilia (45) e restituito alla patria, ci rese le nostre speranze.
Caracciolo valeva una flotta. Con pochi, mal atti e mal serviti barconi, Caracciolo osò affrontar gl’inglesi: l’officialitá di marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo. Si attacca, si dura in un combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si era dichiarata finalmente per noi, che pure eravamo i piú deboli: ma il vento viene a strapparcela dalle mani nel punto della decisione; e Caracciolo è costretto a ritirarsi, lasciando gl’inglesi malconci, e si potrebbe dire anche vinti, se l’unico scopo della vittoria non fosse stato quello di guadagnar Procida. Un altro momento, e Procida forse sarebbe stata occupata. Quante grandi battaglie, che sugl’immensi campi del mare han deciso della sorte degl’imperi, non si possono paragonare a questa picciola azione per l’intelligenza e pel coraggio de’ combattenti!
Il vento, che impedí la riconquista di Procida, fu un vero male per noi, perché tratanto i pericoli della patria si accrebbero. Le disgrazie diluviavano: dopo due o tre giorni, si ebbero altri mali a riparare piú urgenti di Procida; e la nostra non divisibile marina fu costretta a difendere il cratere della capitale.
(45) Caracciolo fu solennemente congedato dal re: il re istesso gli permise di ritornare in Napoli.
XXXVIII
IDEE DI TERRORISMO
La storia di una rivoluzione non è tanto storia dei fatti quanto delle idee. Non essendo altro una rivoluzione che l’effetto delle idee comuni di un popolo, colui può dirsi di aver tratto tutto il profitto dalla storia, che a forza di replicate osservazioni sia giunto a saper conoscer il corso delle medesime. Nell’individuo la storia dei fatti è la stessa che la storia delle idee sue, perché egli non può esser in contraddizione con se stesso. Ma, quando le nazioni operano in massa (e questo è il vero caso della rivoluzione), allora vi sono contraddizioni ed uniformitá, simiglianze e dissimiglianze; e da esse appunto dipende il tardo o sollecito, l’infelice o felice evento delle operazioni.
La congiura di Baccher, l’occupazione di Procida, i rapidi progressi dell’insorgenza aveano scossi i patrioti, e, nella notte profonda in cui fino a quel punto avean riposati tranquilli sulle parole dei generali francesi e del governo, videro finalmente tutto il pericolo onde erano minacciati. Il primo sentimento di un uomo che sia o che tema di esser offeso è sempre quello della vendetta, la quale, se diventa massima di governo, produce il terrorismo.
Il governo napolitano, quantunque composto di persone che tanto avean sofferto per l’ingiusta persecuzione sotto la monarchia, credette viltá vendicarsi, allorché, avendo il sommo potere nelle mani, una vendetta non costava che il volerla. Pagano avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse ai suoi nemici allorché rese la libertá a Siracusa, ed il divino tratto di Vespasiano, quando, elevato all’impero, mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai non avea piú che temere da lui. Noi incontriamo sempre i nostri governanti, allorché ricerchiamo la morale individuale.
Ma molti patrioti accusarono il governo di un «moderantismo» troppo rilasciato, a cui si attribuivano tutt’i mali della repubblica. Siccome in Francia al «terrorismo» era succeduta una rilasciatezza letargica e fatale di tutt’i princípi, cosí il terrorismo era rimasto quasi in appannaggio
alle anime piú ardentemente patriotiche. Forse ciò avvenne anche perché il cuore umano mette l’idea di una certa nobiltá nel sostenere un partito oppresso, per vendicarsi cosí del partito trionfante che invidia: forse in Napoli si eran vedute salve talune persone, che la giustizia, la pubblica opinione, la salute pubblica voleano distrutte o almeno allontanate.
Ma vi era un mezzo saggio tra i due estremi. Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall’esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono l’imbarazzo che dánno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi e buoni. Il terrorismo lusinga l’orgoglio, perché è piú vicino all’impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perché è molto facile. Ma richiede sempre la forza con sé: ove questa non vi sia, voi non farete che accelerare la vostra ruina. Tale era lo stato di Napoli.
In Napoli le prime leggi marziali de’ generali in capo erano terroristiche, perché tali son sempre e tali forse debbono essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre e non produssero alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la legge, come l’applicate, quando tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti e salvare i rei? Robespierre avea la nazione intera esecutrice del terrorismo suo. Quando le pene non sono livellate alle idee de’ popoli, l’eccesso stesso della pena ne rende piú difficile l’esecuzione e, per renderle piú efficaci, convien renderle piú miti.
Negli ultimi tempi si eresse in Napoli un «tribunale rivoluzionario», il quale procedeva cogli stessi princípi e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di Robespierre. Forse quando si eresse era troppo tardi, ed altro non fece che tingersi inutilmente del sangue degli scellerati Baccher nell’ultimo giorno della nostra esistenza civile, quando la prudenza consigliava un perdono, che non potea esser piú dannoso. Ma, quand’anche un tal tribunale si fosse eretto prima, la legge stessa, colla quale se ne ordinava l’erezione, sarebbe stato un avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia contro il tribunale eretto.
Il terrorismo cogl’insorgenti si provò sempre inutile. «E che? – scrivea la saggia e sventurata Pimentel – quando un metodo di cura non riesce, non se ne saprá tentare un altro?».
Difatti si accordò un’amnistia agl’insorgenti: non a tutti, perché sarebbe stata inutile; ma a coloro che il governo ne avesse creduti degni, onde cosí ciascuno si fosse affrettato a meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il sospetto e la divisione tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per mezzo di persone sagge ed energiche, le quali avessero potuto penetrare ed eseguire gli ordini del governo in tutt’i punti del nostro territorio. Io lo ripeto: la mancanza delle comunicazioni tra le diverse parti dello Stato e la mancanza delle forze diffuse in molti punti per mantener tale comunicazione, la mancanza a buon conto della diligenza e della severitá erano l’origine di tutti i nostri mali e facevan credere necessario ad alcuni un terrorismo, il quale non avrebbe fatto altro che accrescerli.
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Leggere gustando: la sesta edizione del festival bioletterario dal 10 al 12 luglio con Beppino Englaro, Pino Scaccia e Francesco Recami a Castiglione Garfagnana
Il festival letterario Leggere Gustando lascia Castelnuovo per spostarsi a Castiglione di Garfagnana. Si svolgerà dal 10 al 12 luglio in piazza Vittorio Emanuele.
Il Leggere Gustando il festival bioletterario della Garfagnana, che unisce la scrittura al piacere della lettura e dei prodotti tipici si svolgerà dal 10 al 12 luglio in uno dei borghi più belli della Toscana: Castiglione di Garfagnana.
Le presentazioni si terranno in piazza Vittorio Emanuele II, luogo ideale dove gli spettatori potranno seguire la sesta edizione del festival bioletterario “Leggere gustando”, con tanti scrittori e tra gli ospiti Beppino Englaro, Pino Scaccia e Francesco Recami.
L’evento organizzato da Tra le righe libri e Garfagnana editrice è patrocinato dal Comune di Castiglione, dalla ProLoco, da Castiglione News e dal Giornale di Castelnuovo Garfagnana.
Il “Leggere gustando” fa parte della rete dei festival letterari di Prospektiva.
I partner di riferimento sono Slow Food Garfagnana Valle del Serchio, La Libreria di Crudeli e La Libreria Magnani. Main sponsor Gino Guidi costruzioni.
Il programma prevede venerdì 10 luglio l’anteprima alle ore 21 con gli scrittori Simonetta Simonetti, Monica Dini, Normanna Albertini e Roberto Andreuccetti, che presentano i loro ultimi libri confrontandosi con l’esercizio della scrittura.
Alle 21.45 Beppino Englaro parla del libro “La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno stato di diritto” (Rizzoli). Modera Andrea Giannasi.
Il 9 febbraio 2009 Eluana Englaro moriva. Ci sono voluti 6233 giorni perché il padre potesse liberarla e dirle addio; diciassette anni di vita sospesa fra la vita e la morte, durante i quali Beppino Englaro ha lasciato il suo lavoro e si è immerso nelle carte. Ha studiato codici e regolamenti, ha partecipato a convegni e incontrato politici, giuristi e teologi, nel tentativo di capire come dar voce alla figlia e far rispettare la sua volontà percorrendo sempre la strada della legalità. I suoi sono stati anni senza tregua, senza pause, senza possibilità di fuga o di riparo dalla violenza di una vita artificiale imposta a Eluana da uno Stato etico, che può arrivare a privare delle libertà fondamentali i suoi stessi cittadini. In questo libro l’autore rievoca i ricordi e le lettere di sua figlia e ripercorre gli ultimi mesi della vita di lei anche attraverso la propria storia di uomo riservato, costretto dagli eventi a farsi portavoce di un popolo silenzioso che ogni giorno, negli ospedali, si pone domande semplici e aspetta risposte umane, e viene invece abbandonato dalla politica in un limbo di sofferenza. Una battaglia in cui Englaro è tuttora impegnato perché la libertà di cura sia un valore collettivo, perché la legge rispetti l’individuo e non dia a altri se non a lui stesso il diritto di decidere della propria salute.
Sabato 11 luglio alle ore 18 saliranno sul palco per parlare di “storie di guerra” Grazia Lucchesi, Marco Vignolo Gargini, Ciro Pinto e Daniele Lazzarini. Tra partigiani in Garfagnana, combattenti nella Prima Guerra mondiale, storie di guerra ai civili e l’orrore indimenticabile di Auschwitz gli ospiti incontreranno i lettori in un viaggio senza fine.
Alle 18,30 lo storico inviato del Tg1 della Rai Pino Scaccia presenterà “Armir. Sulle tracce di un esercito perduto” (Tra le righe libri), un saggio che ricostruisce la storia della tragedia degli alpini e dei fanti italiani nel gennaio 1943 in Unione Sovietica.
«Sono un russo che abita nella regione di Voronetz, dove voi italiani state cercando i resti dei soldati morti durante la guerra tra Unione Sovietica e la Germania, cinquant’anni fa. Vorrei aiutarvi perché sono stato testimone di ciò che è successo durante la vostra ritirata e conosco tante fosse dove i prigionieri italiani sono stati sepolti. Ce ne sono centinaia: quante siano esattamente nessuno lo sa e non lo saprà mai perché il tempo le ha cancellate». Un viaggio sulle tracce dell’Armir, l’armata italiana dispersa in quella che oggi è l’Ucraina. Tra gli archivi finalmente aperti dei ministeri sovietici e sui luoghi della disastrosa marcia del Davaj. Pino Scaccia ha dato risposte dopo tanto tempo a tremila delle ottantamila famiglie dei dispersi e ogni volta è stato un pugno allo stomaco, scoprendo il miracolo di chiudere un dubbio.
Degustazione di vini, pane e salumi a cura di Slow Food Garfagnana.
Al termine scrittori e lettori si sposteranno a Cerageto per la degustazione di prodotti tipici e per continuare a parlare di scritture, nell’ambito della manifestazione “Festa degli orti”.
Domenica 12 luglio alle ore 21 anteprima con Gabriele Cancellieri e Nicola Ceccoli autori del romanzo “La morte per gioco”, con Daniele Ferdinandi con “L’anello dalle 5 croci” e Gianluca Cabeddu con “Il pinguino di seta sul Grande Mango”.
A seguire si inizierà a parlare di scrittura poliziesca con gli scrittori Beppe Calabretta, Rossana Giorgi Consorti e Italo Pierotti alla ricerca dei legami tra la scrittura e i territori: in primo piano Lucca, e due piccoli paesi in Garfagnana.
Alle 21,45 Francesco Recami presenta “Piccola enciclopedia delle ossessioni” (Sellerio).
“Una spolverata di cinismo, un pizzico abbondante di perfidia, una macinata di comicità sfumata al nero”. È quanto scrive Santo Piazzese pensando a Recami, e descrive idealmente la commedia umana tratteggiata dallo scrittore fiorentino in questa raccolta di racconti, vero e proprio catalogo di caratteri esemplari, specchio deformante e disvelatore dell’indole nazionale. Attraverso narrazioni che si rifanno alla commedia all’italiana, alla novella esistenzialista, al racconto iperreale, Recami sviluppa una satira comica e feroce dei vezzi e dei vizi, dello snobismo e del pressappochismo di quell’affollato condominio a forma di stivale in cui farsa e tragedia si alternano senza interruzione. E su tutto domina un sentimento universale, che accomuna i personaggi di ogni ordine e grado: l’ansia, la preoccupazione, la nevrosi pungente, l’agitazione tremebonda, l’insicurezza mascherata da precisione maniacale, la persuasione delirante di essere nel giusto, insomma quell’atmosfera emotiva in cui ognuno di noi è quotidianamente immerso.
Al termine dell’evento degustazione di prodotti tipici della Garfagnana a cura di Slow Food Garfagnana.
Il Leggere gustando è un festival bioletterario giunto alla sua sesta edizione con grandi ospiti, grandi temi e tanti lettori pronti ad incontrare tanti e nuovi libri.
E la Garfagnana come luogo. Un luogo, secondo le definizioni enciclopediche, è parte di uno spazio delimitato, considerato in funzione di ciò che in esso si colloca: dunque luogo reale, immaginario; della memoria. Ma anche luogo inteso come l’ovunque.
Il luogo è anche posto definito, una parte della superficie terrestre con particolari caratteristiche; ma anche un luogo pubblico dove tutti possono entrare oppure un luogo privato o molto più intimo e personale. Come luogo dell’anima.
Poi ci sono dei luoghi che hanno tutti questi elementi sovrapporti, fusi, sommati.
Uno di questi luoghi è la Garfagnana, che vive con il festival bioletterario Leggere Gustando giorni di intensa scoperta di nuovi luoghi.
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XXXIX
NUOVO GOVERNO COSTITUZIONALE
Forse con piú ragione domandavano i patrioti la riforma del governo. Tralasciando i motivi privati, che spingevano taluni a declamare piú di quello che conveniva, era sicuro però che si voleva una riforma. Abrial finalmente giunse commissario organizzatore del nostro Stato, e si accinse a farla.
Ma vi erano nell’antico governo molti che godevano la pubblica confidenza, o perché la meritassero, o perché l’avessero usurpata; e questi secondi (pochissimi per altro di numero) erano, come sempre suole avvenire, piú accetti, piú illustri de’ primi, perché le lodi che loro si davano non rimanevano senza premio. – Questi sono i primi che io toglierei – diceva acutamente, ma invano, in una societá patriotica il cittadino Mazziotti. Un governo formato da un’assemblea si riduce a cinque o sei teste, le quali dispongono delle altre: se queste rimangono, voi inutilmente cangiate tutta l’assemblea.
Le intenzioni di Abrial erano rette: Abrial fu quello che piú sinceramente amava la nostra felicitá e quello di cui piú la nazione è rimasta contenta. Le sue scelte furono molto migliori delle prime; e, se non furono tutte ottime, non fu certo sua colpa, poiché né poteva conoscere il paese in un momento, né vi dimorò tanto tempo quanto era necessario a conoscerlo.
Abrial divise i poteri che Championnet avea riuniti. Il governo da lui formato fu il seguente: nella commissione esecutiva, Abamonti; Agnese, napolitano, ma che aveva dimorato da trent’anni in Francia, ove avea i beni e famiglia; Albanese; Ciaia; Delfico, il quale non potette per le insorgenze di Apruzzo mai venire in Napoli. I ministri furono: 1° dell’interno, De Filippis; 2° di giustizia e polizia, Pigliacelli; 3° di guerra, marina ed affari esteri, Manthoné; 4° di finanze, Macedonio. Tra i membri della commissione legislativa vi furono sempre Pagano, Cirillo, Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti, Magliani, Gambale, Marchetti… Gli altri si cambiarono spesso, e noi non li riferiremo; tanto piú che, nello stato in cui era allora la nostra nazione, poco potea il potere legislativo, e tutto il bene e tutto il male dipendeva dall’esecutivo.
Con ciò Abrial volle darci la forma della costituzione prima di avere una costituzione, e con ciò rese i poteri inattivi, e discordi i poteri dei cittadini. Questo involontario errore fu cagione di non piccoli mali, perché la divisione de’ poteri ci diede la debolezza nelle operazioni in un tempo appunto in cui avevamo bisogno dell’unitá e dell’energia di un dittatore; ch’egli per altro non poteva darci, perché, incaricato di eseguire le istruzioni del Direttorio francese, avrebbe ben potuto modificare in parte gli ordini che si trovavano in Francia stabiliti, ma non mai cangiarli intieramente. Talché tutti i fatti ci conducono sempre all’idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i migliori architetti non potevano innalzar edifizio che fosse durevole.
XL
SALE PATRIOTICHE
Taluni credevano che col mezzo delle sale patriotiche si potesse «attivare» la rivoluzione; e furono perciò stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non veggo altro modo di attivare una rivoluzione che quello d’indurci il popolo: se la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai rivoluzionari; se è passiva, convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo, e, per unirvisi, convien che si distinguano il meno che sia possibile. Le sale patriotiche, e nell’uno e nell’altro caso, ebbono essere le piazze.
Qual bene hanno mai esse prodotto in Francia? Hanno, direbbe Macchiavelli, fatto degenerare in sètte lo spirito di partito, che sempre vi è nelle repubbliche, e, come sempre suole avvenire, hanno spinto i princípi agli estremi, hanno fatto cangiar tre volte la costituzione, hanno a buon conto ritardata l’opera della rivoluzione e forse l’hanno distrutta. Senza societá patriotiche, le altre nazioni di Europa aveano dirette le loro rivoluzioni con princípi piú saggi ad un fine piú felice.
Ma l’abuso delle sale per attivare la rivoluzione dipendeva da un principio anche piú lontano. L’oggetto della democrazia è l’eguaglianza; e, siccome in ogni societá vi è una disuguaglianza sensibilissima tra le varie classi che la compongono, cosí si giunge al governo regolare o abbassando gli ottimati al popolo, o innalzando il popolo agli ottimati. Ma, siccome gli ottimati, insieme coi diritti e colle ricchezze, hanno ancora princípi e costumi, cosí, quando le cose si spingono all’estremo, non solo si sforzano a cedere i loro diritti e divider le loro ricchezze (il che sarebbe giusto), ma anche a rinunciare ai loro costumi.
Si volea fraternizzare col popolo, e per «fraternizzare» s’intendeva prendere i vizi del popolaccio, prender le sue maniere ed i suoi costumi; mezzi che possono talora riuscire in una rivoluzione attiva, in cui il popolo, in grazia dello spirito di partito, perdona l’indecenza, ma non mai in una rivoluzione passiva, in cui il popolo, libero da passioni tumultuose, è piú retto giudice del buono e dell’onesto. Doveasi perciò disprezzare il popolo? No, ma bastava amarlo per esserne amato, distruggere i gradi per non disprezzarlo, e conservar l’educazione per esserne stimato e per poter fargli del bene (46).
Ammirabile e fortunata è stata per questo la repubblica romana, in cui i patrizi, mentre cedevano ai loro diritti, forzavano il popolo ad amarli ed a rispettarli pei loro talenti e per le loro virtú: il popolo cosí divenne libero e migliore. Nella repubblica fiorentina tutte le rivoluzioni erano dirette da quella «fraternizzazione», che s’intendeva in Firenze come s’intese un tratto in Francia; e perciò la repubblica fiorentina ondeggiò tra perpetue rivoluzioni, sempre agitata e non mai felice: il popolo, o presto o tardi, si annoiava dei conduttori, che non aveano ottenuto il suo favore se non perché si erano avviliti, ed, annoiato dei suoi capi, si annoiava del governo, ch’esso di rado conosce per altro che per l’idea che ha di coloro che governano (47).
Si condussero taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi erano per lo piú comperati e, come è facile ad intendersi, non servivano che a discreditare maggiormente la rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai, l’uomo del popolo è l’uomo popolare.
Le sale patriotiche attivavano la rivoluzione, attirando una folla di oziosi, che vi correva a consumar cosí quella vita di cui non sapeva far uso. I giovani sopra tutti corrono sempre ove è moto, e ripetono semplici tutto ciò che loro si fa dire. Intanto pochi abili ambiziosi si prevalgono del nome di conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito; e questo merito appunto, perché troppo facile, perché inutile alla nazione, un governo saggio non deve permettere o (ciò che val lo stesso) non deve curare: senza di ciò, i faziosi se ne prevaleranno per oscurare, per avvilire, per opprimere il merito reale. Taluni buoni, i quali vedevano l’abuso che delle sale si potea fare, credettero bene di opporre una sala all’altra e, se fosse stato possibile, riunirle tutte a quella ove lo spirito fosse piú puro ed i princípi fossero piú retti; ed il desiderio della medicina fu tanto, che si credette poter aver la salute dallo stesso male. Ma io lo ripeto: quando l’istituzione è cattiva, rende inutili gli uomini buoni, perché o li corrompe o li fa servire, illusi dall’apparenza del bene, ai disegni dei cattivi.
«I vostri maggiori – diceva il console Postumio al popolo di Roma – vollero che, fuori del caso che il vessillo elevato sul Tarpeio v’invitasse alla coscrizione di un esercito, o i tribuni indicessero un concilio alla plebe, o talun altro dei magistrati convocasse tutto il popolo alla concione, voi non vi dobbiate riunir cosí alla ventura ed a capriccio: essi credevano che, dovunque vi fosse moltitudine, ivi esser vi dovesse un legittimo rettore della medesima». In Francia le società popolari, rese costituzionali da Robespierre, che avea quasi voluto render costituzionale l’anarchia, o non produssero sulle prime molti mali, o i mali che produssero non si avvertirono, perché, quando una nazione soffre moltissimi mali, spesso un male serve di rimedio all’altro. In Napoli, dove, per la natura della rivoluzione, le sale erano meno necessarie, si corruppero piú sollecitamente (48).
Chi è veramente patriota non perde il suo tempo a ciarlare nelle sale; ma vola a battersi in faccia all’inimico, adempie ai doveri di magistrato, procura rendersi utile alla patria coltivando il suo spirito ed il suo cuore: voi lo ritrovate ov’è il bisogno della patria, non dove la folla lo chiama; e, quando non ha verun dovere di cittadino da adempire, ha quelli di uomo, di padre, di marito, di figlio, di amico. Il governo non lo vede; ma guai a lui se non sa riconoscerlo e ritrovarlo! Il solo governo buono è quello agli occhi del quale ogni altro uomo non si può confondere con questo, né può usurpare la stima che se gli deve, se non facendo lo stesso; per cui la prima parte di un ottimo governo è quella di far sí che non vi sieno altre classi, altre divisioni che quelle della virtú, ed evitare a quest’oggetto tutte le istituzioni che potrebbero riunire i virtuosi a coloro che non lo sono, tutti i nomi finanche che potessero confonderli.
Io non confondo colle sale patriotiche quei «circoli d’istruzione», ove la gioventú va ad istruirsi, a prepararsi al maneggio negli affari, ad ascoltare le parole dei vecchi ed accendersi di emulazione ai loro esempi, a rendersi utile ai loro simili ed acquistare dai suoi coetanei quella stima che un giorno meriterá dalla patria e dal governo. In Napoli se ne era aperto uno, e con felici auspíci: il suo spirito era quello di proporre varie opere di beneficenza che si esercitavano in favore del popolo: si soccorsero indigenti, si prestarono senza mercede all’infima classe del popolo i soccorsi della medicina e dell’ostetricia. Questa era l’istituzione che avrebbe dovuto perfezionarsi e moltiplicarsi (49).
(46) L’oggetto del fraternizzare col popolo era quello di riunirsi a lui; e, per riunirsi, conveniva distinguersi il meno che sia possibile, cioè far quanto meno si potesse di novitá. Cerca egualmente a distinguersi tanto chi s’innalza troppo quanto chi troppo si abbassa, ed il popolo si mette in guardia egualmente e del primo e del secondo. Orléans non mostrò mai piú chiaramente di voler innalzarsi al trono se non quando si abbassò all’eguaglianza.
(47) Questo paragone tra la repubblica romana e la fiorentina si è fatto da due uomini sommi d’Italia. Macchiavelli è del nostro parere, e dice che il desiderio che in Roma i plebei ebbero di imitare i patrizi perfezionò le istituzioni di Roma. Campanella sostiene, al contrario, che la libertá si perdette in Roma e conservò in Firenze, sol perché quivi il popolo forzò i nobili a discendere dalla loro educazione. Ecco appunto i due aspetti sotto i quali la democrazia or da uno or da un altro si è guardata. Ma Roma ebbe, e per lungo tempo, costumi, costituzione, milizia e potenza; Firenze non ebbe che tumulti, rivoluzioni, licenza, debolezza. Macchiavelli ha per sé i fatti (che son contrari a Campanella) ed il giudizio degli uomini sensati, tra’ quali non vi è alcuno che non avrebbe amato di vivere nella repubblica romana in preferenza della fiorentina.
(48) Mentre io era giunto a questo punto, mi è pervenuta una memoria del cittadino Baudin sulle societá popolari. Mi sia permesso di recarne un tratto, che descrive gli effetti che le societá produssero in Francia e che conferma quello che sempre ho detto, cioè che gli errori erano nei principi. «Il desiderio di aggregarsi a queste nuove societá era fomentato da molte cause, che le resero quasi universali. Esse aprivano una carriera all’ambizione e davano un mezzo all’emulazione: facevano sperare ai deboli un appoggio, che per altro era meglio cercare solo nella protezione delle leggi: davano ai patrioti un punto di riunione, che la conformitá degl’interessi e dei princípi dovea far loro desiderare e che contribuir dovea al successo della rivoluzione: ma nel tempo istesso favorivano quel pregiudizio troppo comune tra noi ed in qualche modo nazionale, che fa credere a moltissimi la teoria del governo essere una scienza infusa, di cui si possa parlare senza studio e senza esperienza… «Noi tutti abbiamo nei trastulli della nostra fanciullezza imitate le cerimonie del culto e le evoluzioni militari; ma non mai è avvenuto che il vescovo ed il suo capitolo siensi veduti in ginocchio avanti al piccolo pontefice, abbigliato di una cappa e di una mitria di carta dorata, prestargli il giuramento di fedeltá e rassegnargli la cura della diocesi e la collazione dei benefici. E pure a questo segno si sono avvilite le autoritá piú eminenti verso le societá popolari! «Ben tosto, le societá rinunciando alla teoria delle quistioni politiche, sulle quali i loro membri ben poco potevan dire di tollerabile, le sale divennero un’arena di delatori, una leva potente che taluni destri ambiziosi facevan servire alla loro elevazione, allettando intanto gli animi della cieca moltitudine colle due lusinghe, dalle quali si lascian sorprendere ben spesso anche i saggi: la speranza e l’adulazione. Ogni club fu lusingato dai suoi oratori coll’idea di esser sovrano; ed il club bene spesso si condusse a seconda di questa dottrina, dando ordini, distribuendo grazie, esigendo rispetto e sommissione…».
(49) Amerei che in ogni repubblica ci fosse un circolo d’istruzione sul modello di quella «repubblica giovanile» che era nell’antica repubblica di Berna. Quella istituzione mi sembra ammirabile per formar gli uomini di Stato. Non so se colla rivoluzione della Svizzera si sia conservata.
XLI
COSTITUZIONE – ALTRE LEGGI
Tali erano le idee del popolo. Le cure della repubblica erano ormai divise da che si eran divisi i poteri; e la commissione legislativa, sgravata dalle cure del governo, si era tutta occupata della costituzione, il di cui progetto, formato dal nostro Pagano, era giá compíto. Ma di questo si dará giudizio altrove, come di cosa che, non essendosi né pubblicata né eseguita, niuna parte occupa negli avvenimenti della nostra repubblica.
Altri bisogni piú urgenti richiamavano l’attenzione della commissione legislativa. Volle occuparsi a riparare al disordine dei banchi. Fin dai primi giorni della rivoluzione, la prima cura del governo fu di rassicurare la nazione, incerta ed agitata per la sorte del debito dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della nazione. Un tal debito fu dichiarato debito nazionale. Tale operazione fu da taluni lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava piú il vantaggio o la difficoltá dell’impresa: tutti però convenivano che una semplice promessa potea tutt’al piú calmare per un momento la nazione, ma che essa sarebbe poi divenuta doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati i mezzi di adempirla. Allora tutta la vergogna e l’odiositá di un fallimento sarebbe ricaduta sul nuovo governo, e si sarebbe intanto perduto il solo momento favorevole, quale era quello di una rivoluzione, in cui la colpa e l’odio del male si avrebbe potuto rivolgere contro il re fuggito, e gli uomini l’avrebbero piú pazientemente tollerato, come uno di quegli avvenimenti inseparabili dal rovescio di un impero, effetto piú del corso irresistibile delle cose che della scelleraggine de’ governanti. Cosí il governo non fece allora che una promessa, e rimaneva ancora a far la legge.
Ma, quando volle occuparsi della legge, non era forse il tempo opportuno. La nazione era oppressa da mille mali, le opinioni erano vacillanti, tutto era inquietezza ed agitazione. In tale stato di cose il far delle leggi utili e forti è ottimo consiglio: sgravasi cosí la somma de’ mali che opprimono il popolo e si scema il motivo del malcontento; il farne delle inutili e delle inefficaci è pericoloso, perché al malcontento, che giá si soffre per il male, l’inutilitá del rimedio aggiunge la disperazione. Se non potete fare il bene, non fate nulla: il popolo si lagnerá del male e non del medico.
La commissione legislativa altro non fece (e, per dire il vero, allora che potea far di piú?) che rinnovare per i beni, ch’eran divenuti nazionali, quella ipoteca che giá il re avea accordata sugli stessi beni, quando erano regi. Gli esempi passati poteano far comprendere che questa operazione sola era inutile. Questi beni non poteano mai esser in commercio, perché riuniti in masse immense in pochi punti del territorio napolitano; ed i possessori delle carte monetate erano molti, divisi in tutt’i punti e non voleano fare acquisti immensi e lontani. Quando furono esposti in vendita, in tempo del re, i fondi ecclesiastici, i quali non aveano questo inconveniente, si ritrovarono piú facilmente i compratori. Si aggiungeva a ciò l’incertezza della durata della repubblica, la quale alienava maggiormente gli animi dei compratori; l’incertezza della sorte dei beni che davansi in ipoteca, quasi contesi tra la nazione ed il francese: per eseguir le vendite in tanti pericoli, conveniva offerire ai compratori vantaggi immensi, e cosí tutt’i fondi nazionali non sarebbero stati sufficienti a soddisfare una picciola parte del debito pubblico (50).
Il debito nazionale in Napoli non era tale che non si avesse potuto soddisfare. Era piú incomodo che gravoso. Conveniva una piú regolata amministrazione, e questa vi fu (51): infatti, in cinque mesi di repubblica, il governo, colle rendite di sole due province, tolse dalla circolazione un milione e mezzo di carte. Con tanta moralitá nel governo, si potea far quasi a meno della legge per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col solo fatto, e che si sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze interne ed esterne della nazione fossero state meno infelici. Ma conveniva, nel tempo istesso, che tutta la nazione avesse soddisfatto il debito nazionale; conveniva che questo debito avesse toccato la nazione in tutt’i punti; e, dove prima gravitava solo sulla circolazione, si fosse sofferto in parte dall’agricoltura e dalla proprietá: cosí il debito, diviso in tanti, diveniva leggiero a ciascuno.
La nazione napolitana è una nazione agricola. In tali nazioni la circolazione è sempre piú languida che nelle nazioni manifatturiere o commercianti; ed il danaro, o presto o tardi, va a colare, senza ritorno, nelle mani dei possessori dei fondi. Difatti in Napoli, e specialmente nelle province, non mancava il danaro: ma questo danaro era accumulato in poche mani, mentreché per la circolazione non vi erano che carte. Conveniva attivare tutta la nazione, ed offerire ai proprietari di fondi delle occasioni di spendere quel danaro che tenevano inutilmente accumulato. Conveniva…
Ma io non iscrivo un trattato di finanze: scrivo solo ciò che può far conoscere la mia nazione.
(50) Cosa ha ritratto la Francia dalle vendite dei suoi immensi beni nazionali? Quale orribile dissipazione ho visto io stesso! A quali mani la salute pubblica è stata affidata! Questa infelice risorsa, a cui un governo possa ridursi, è sempre inutile. Un governo deve vendere i fondi nazionali (perché non deve averne), ma deve venderli ne’ tempi ne’ quali non ha bisogno; allora, se non trova compratori, deve anche donarli.
(51) Questo è il trionfo de’ nostri governanti. Sfido ogni altra nazione ad opporre un tratto di eguale moralitá ed economia! Il re con tredici province, in tempi tranquilli, coll’onnipotenza nelle mani, che non avrebbe mai potuto fare? E che ha fatto? Questo è il trionfo della nostra causa.
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![Tolstoj e Gandhi Tolstoj e Gandhi]()
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Londra, S.W.
1 Ottobre 1909.
Al Conte Leo Tolstoy
Signore,
Mi sono preso la libertà di attirare la sua attenzione su ciò che è successo in Transvaal (Sud Africa) per quasi tre anni.
In quella colonia c’è una popolazione di indiani britannici di circa 13.000 persone. Questi indiani hanno subito per parecchi anni varie limitazioni di natura legale. Il pregiudizio nei confronti del colore della pelle e, in qualche aspetto, degli asiatici è forte in quella colonia. È in gran parte dovuto, per quanto concerne gli asiatici, a gelosia di natura commerciale. Il culmine è stato raggiunto tre anni fa, con una legge che io e molti altri abbiamo considerato degradante e calcolata per disumanizzare coloro a cui era applicabile. Mi accorsi che la sottomissione a una legge di questo tenore era incompatibile con lo spirito della vera religione. Io e alcuni miei amici siamo stati e ancora siamo fermi sostenitori della dottrina della non resistenza al male. Ho avuto anche il privilegio di studiare i suoi scritti, che hanno lasciato una profonda impressione nella mia mente. Gli indiani britannici, di fronte ai quali la nostra posizione è stata pienamente spiegata, accettarono il suggerimento che non avremmo dovuto sottometterci alla legge, ma subire la carcerazione, o qualsiasi altra sanzione che la legge può imporre per la sua violazione. Il risultato è stato che quasi la metà della popolazione indiana, incapace di sopportare l’impeto della lotta e le difficoltà del carcere, si è ritirata dal Transvaal piuttosto che sottomettersi alla legge che hanno considerato degradante. L’altra metà, quasi 2.500, si sono lasciati imprigionare per motivi di coscienza, alcuni ben cinque volte. Le detenzioni variavano da quattro giorni a sei mesi, nella maggioranza dei casi includevano i lavori forzati. Molti sono stati rovinati finanziariamente. Attualmente ci sono circa cento resistenti passivi nelle carceri del Transvaal.
Alcuni di questi erano uomini poverissimi, che si guadagnavano il proprio sostentamento giorno dopo giorno. Il risultato è stato che le loro mogli e i figli hanno dovuto essere sostenuti da contributi pubblici, in gran parte raccolti anche dai resistenti passivi. Questo ha messo a dura prova gli indiani britannici, ma è mia opinione che per l’occasione si siano risollevati. La lotta continua ancora e non si sa quando avrà fine. Tuttavia, alcuni di noi hanno almeno constatato più chiaramente questo fatto, cioè che la resistenza passiva potrà avere successo là dove la forza bruta deve fallire. Notiamo inoltre che nella misura in cui la lotta si è prolungata, in gran parte è stato dovuto alla nostra debolezza, e da qui a una credenza che si è ingenerata nella mente del Governo secondo cui noi non saremmo stati in grado di sostenere le continue sofferenze.
Insieme a un amico sono giunto qui per incontrare le autorità imperiali e porre di fronte a loro la nostra posizione, al fine di ottenere un risarcimento. I resistenti passivi hanno compreso che non dovrebbero avere niente a che fare con le suppliche al Governo, che invece la delegazione è giunta su istanza dei membri più deboli della comunità e che rappresenta di conseguenza la loro debolezza più che la loro forza. Ma, nel corso delle mie osservazioni attuali, mi sono reso conto che se fosse fatto l’invito di un concorso generale per un saggio sull’etica e l’efficacia della resistenza passiva, esso diffonderebbe il movimento e farebbe riflettere la gente. Un amico ha sollevato il problema della moralità connesso al concorso proposto. Lui pensa che un tale invito sarebbe incompatibile con il vero spirito della resistenza passiva e che equivarrebbe alla compravendita delle opinioni. Posso chiederle di usarmi la gentilezza di esprimere la sua opinione sul tema della moralità? E se lei ritiene che non c’è niente di male nel chiedere dei contributi, la pregherei anche di fornirmi i nomi di coloro a cui dovrei rivolgermi espressamente per scrivere sull’argomento.
C’è un’altra cosa, in riferimento alla quale mi permetto di abusare del suo tempo. Una copia della sua lettera a un Indu sui presenti disordini in India mi è stata consegnata da un amico. Sul frontespizio le sue idee sembrano ritratte. È intenzione del mio amico di far stampare e distribuire, a sue spese, 20.000 copie e anche di tradurle. Tuttavia non siamo stati in grado di assicurarci l’originale e non ci sentiamo legittimati a stamparlo finché non saremo sicuri dell’accuratezza della copia e del fatto che è la sua lettera. Mi permetto di allegare qui una copia della copia, e lo considererei un favore se lei gentilmente mi facesse sapere se si tratta della sua lettera, se è una copia precisa e se approva la sua pubblicazione nei termini espressi sopra. Se vorrà aggiungere qualcosa in più alla lettera, la prego, faccia pure. Vorrei inoltre permettermi di darle un consiglio. Nel paragrafo conclusivo lei sembra dissuadere il lettore da una fede nella reincarnazione. Io non so se (se non è impertinente da parte mia menzionare questo) lei abbia studiato particolarmente la questione.
La reincarnazione o la trasmigrazione delle anime è una credenza cara a milioni di persone in India, di sicuro anche in Cina. In accordo con la maggioranza, si potrebbe quasi affermare che è più una questione di esperienza che non di consenso accademico. Essa spiega ragionevolmente i molti misteri della vita. È stata motivo di conforto per alcuni dei resistenti passivi che hanno frequentato le prigioni del Transvaal. Il mio scopo nello scrivere questo non è di convincerla della verità della dottrina, ma di chiederle se per favore vorrà togliere la parola “reincarnazione” dalle altre cose di cui lei ha dissuaso il lettore. Nella lettera in questione lei ha fatto ampie citazioni da Krishna e dato dei riferimenti ai passaggi. Le sarei grato se mi desse il titolo del libro dal quale le citazione sono state tratte.
Io l’ho stancata con questa lettera. Sono consapevole del fatto che coloro che la onorano e si sforzano di seguirla non hanno il diritto di abusare del suo tempo, ma, anzi, è loro dovere astenersi dal darle fastidio, per quanto possibile. Comunque, io, che sono per lei un illustre sconosciuto, mi sono preso la libertà di inviarle questa comunicazione nell’interesse della verità e al fine di avere il suo consiglio sui problemi, della cui soluzione lei ha fatto il lavoro di una vita.
Con i miei ossequi, resto,
Il suo servo obbediente,
M.K. Gandhi
traduzione di Marco Vignolo Gargini
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![Lassels Voyage of Italy1 Lassels Voyage of Italy1]()
Richard Lassels (c. 1603–1668) fu un sacerdote cattolico inglese passato alla storia per i suoi viaggi in Italia e per aver inventato il cosiddetto Grand Tour, il viaggio obbligato per i giovani nobili inglesi e non solo attraverso l’Europa. Lassels, come tutor di molti giovani rampolli, ebbe modo di comunicare e trasmettere informazioni sulla civiltà italiana, nel 1670 uscì postumo a Parigi il suo Voyage or a Complete Journey through Italy, ma già nel 1654, in seguito al suo secondo viaggio in Italia, aveva scritto Description of Italy, il cui manoscritto originale è attualmente conservato presso la National Library of Scotland Advocates e pubblicato solo nel 1985. Qui di seguito si riporta la parte dedicata a Lucca del Voyage, molto interessante per scoprire com’era la città e la società lucchese nella seconda parte del XVII secolo. Degno di nota il fatto che Lassels citi Sante Pagnini, monaco domenicano nato a Lucca nel 1470, grande erudito e autore, dopo Girolamo, della traduzione della Bibbia dall’ebraico e dal greco.
Lucca is a pretty little Commonwealth, and yet it sleeps quietly within the Bosome of the Great Dukes State. But that State may wisely fear none, which no State fears; and the Great Duke is unwilling to measure his sword , or take up the Cudgels against little Lucca, least the World should cry shame upon him, and bid him meddle with his Match. This little Republick looked in my eye, like a perfect Map of old Rome in its beginning.
Its governed by a Confaloniero and the Gentry. The great Counsel consists of 160 Citizens who are changed every year. Its under the Emperors Protection; and is hath about thirty thousand souls in it. Approaching into it, it looked like a pure Low-Country Town, with its Bricks Walls, large Ramparts set round with Trees and deep Moats round about the Walls. It hath eleven Bastions well guarded by the Townsmen, and well furnished with Cannons of a large size. The Town is three miles in compass; it hath thirty thousand Muskets, or half Muskets in its Arsenal, eight thousand Pikes, two thousand Brest Pieces of Musket proof, and store of great Artillery. The whole State, for a need, can arm eighteen thousand men of service, and it hath about five hundred thousand French Livres a year. It was in this Town that Caesar, Pompey, and Crassus met; and agreed among themselves that all things in Rome should pass as they pleased.
The chief things to be seen here, are the Cathedral, called S. Martins, whose Bishop hath the Ensigns of an Archbishop, to wit, the use of the Pallium and the Cross, and whose Canons in the Quite wear a Rocchet and Camail, and Miters of silk like Bishops.
2. The Town-House, or Senate House, where the Confalionero lives during the time of his Charge.
3. The Church of S. Frediano belonging to the Canon Regulars, where, in a Chappel on the left hand , is the Tomb of S. Richard King of England who died here in his Pilgrimage to Rome.
4. The Augustins Church, where is seen a hole where the Earth opened to swallow up a blaspheming Gamester.
Of this Town was Pope Lucius the III. the two famous men of this Town, the one for Soldiery, the other for Learning, were, brave Castruccio, and Sanctus Pagninus a great Hebrician.
Richard Lassels, The Voyage of Italy, 1670
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Lucca è una piccosa graziosa repubblica, ciò nonostante riposa tranquillamente in seno allo Stato del Granduca. Ma quello Stato (Lucca) può saggiamente non temere nessuno che non lo tema; e il Granduca non è disposto a misurare la sua spada, o prendere le difese contro la piccola Lucca, altrimenti il mondo gli griderebbe addosso vergogna e lo inviterebbe a mischiarsi con un suo pari. Questa piccola Repubblica apparve ai miei occhi come una mappa perfetta dell’antica Roma ai suoi esordi.
È governata da un Gonfaloniere e dalla piccola nobiltà. Il gran Consiglio è composto da 160 cittadini che si alternano ogni anno. È sotto la protezione dell’Imperatore vi dimorano e circa trentamila anime. Avvicinandosi somiglia a una perfetta città dei Paesi Bassi, con le sue Mura in mattoni, grandi bastioni che la circondano con alberi e profondi fossati intorno alle Mura. Ha undici baluardi ben custoditi dai cittadini, e ben equipaggiati di cannoni di grandi dimensioni. La circonferenza della città è di tre miglia; possiede trentamila moschetti, o moschetti e mezzo nel suo arsenale, ottomila picche, duemila corazze a prova di moschetto, e un deposito di grande artiglieria. L’intero stato, per necessità, può chiamare alle armi diciottomila uomini, e ha un bilancio di cinquecentomila lire francesi all’anno. Fu in questa città che Cesare, Pompeo e Crasso si incontrarono e si accordarono perché tutto a Roma accadesse secondo il loro piacimento.
Le cose principali da vedere qui sono la Cattedrale, chiamata S. Martino, il cui Vescovo ha le insegne di un Arcivescovo, ossia, l’uso del Pallio e della Croce, e i cui canonici nella cappella indossano un rocchetto e una mozzetta, e mitra di seta come i vescovi.
2. Il municipio, o Senato, dove il Gonfaioniere vive durante il periodo della sua carica.
3. La Chiesa di S. Frediano che appartiene ai canonici regolari, dove, in una cappella sulla navata sinistra, si trova la Tomba di S. Riccardo Re di Inghilterra [1], che qui morì durante il suo pellegrinaggio a Roma.
4. La Chiesa di Agostino, in cui si vede un buco dove la terra si aprì per inghiottire un baro bestemmiatore.
Di questa città fu Papa Lucio III. I due uomini famosi di questa città, uno per valore militare, l’altro per la cultura, furono il coraggioso Castruccio e Sante Pagnini [2], un grande ebraista.
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XLII
ABOLIZIONE DEL TESTATICO, DELLA GABELLA DELLA FARINA E DEL PESCE
Per giudicare rettamente di un legislatore, conviene che ei sia indipendente; per far che le sue leggi abbiano tutto l’effetto, conviene che egli sia libero. Quando o altri uomini o le cose tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani, quando la sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel legislatore, nelle di cui mani è il cuore delle nazioni: i consigli son timidi, le misure mezzane; tra l’imperiosa necessitá e l’occasione precipitosa, spesso il miglior consiglio non è quello che si può seguire, o solo si segue quando l’occasione è giá passata, e di tutte le operazioni voi altro non potete rilevare che la puritá del cuore e la rettitudine dei suoi pensieri.
Cosí, non altrimenti che la legge sui banchi, riuscirono inutili quasi tutte le altre leggi immaginate per isgravare i popoli dai pesi che nell’antico governo sofferiva. Io non ne eccettuo che la sola legge colla quale si abolí la gabella del pesce; legge che produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale.
Quando si abolí la gabella sulla farina, non si ottenne l’intento di far ribassare il prezzo de’ grani in Napoli, dove, per le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le strade delle province, non potevano ivi piú entrar grani nuovi, e quei che esistevano erano pochi ed avean giá pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora: che «la gabella si era tolta quando non vi era piú farina».
Dal 1764 era in Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento fosse in parte effetto della maggior ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in controversia che l’aumento del prezzo degli altri generi non era proporzionato all’aumento di quello del grano (52). Questo non era alterato, quando si paragonava al prezzo del grano nelle altre nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione napolitana. Tutto il male nasceva da che l’industria, ed in conseguenza la ricchezza, non si era risvegliata e diffusa equabilmente sopra tutt’i generi ed in tutte le persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale, non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto piú caro che nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di renditieri, di oziosi o di persone che, senza essere oziose, nulla producevano e che non partecipavano dell’aumento dell’industria e della ricchezza nazionale. Per rendere il popolo napolitano contento sull’articolo del pane, o conveniva migliorarlo e renderlo cosí piú attivo e piú ricco, o conveniva render piú misere le province: la prima operazione avrebbe reso il popolo napolitano contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli antichi (53). La sola abolizione della gabella era nella capitale un’operazione piú pomposa che utile.
Guardiamola nelle province. Essa dovette esser inutile in quei luoghi nei quali non si pagava, e questi formavano il numero maggiore; in quelli nei quali si pagava, dovette riuscire piuttosto dannosa. Il ritratto della gabella serviva a pagare le pubbliche imposizioni: proibir quella e pretender queste era un contradditorio; rinunciare a queste era impossibile tra i tanti urgentissimi bisogni dai quali era allora il governo premuto; obbligare le popolazioni a sostituire all’antico metodo un nuovo, ed obbligarle a sostituirlo di loro autoritá (giacché colla legge non si era preveduto questo caso), era pericoloso in un tempo in cui lo spirito di partito né fa conoscere il giusto né lo fa amare. Un dio solo avrebbe potuto persuadere alle popolazioni che una novitá non fosse stata allora una ingiustizia patriotica. Infatti molte popolazioni, che per la vicinanza alla capitale erano nello stato di portar i loro reclami al governo (54), chiesero che la gabella sulla farina si ristabilisse.
Nella costituzione antica del regno di Napoli, ove si trattava d’imposizioni dirette, il sovrano quasi altro non faceva che imporre il tributo: la ripartizione era determinata da una legge quasi che fondamentale dello Stato, ed il modo di esigerlo era in arbitrio di ciascuna popolazione. Non si esigeva dappertutto nello stesso modo: una popolazione avea una gabella, un’altra ne avea un’altra; chi non avea gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi pagava sui fondi, chi in un modo, chi in un altro, secondo le sue circostanze, i suoi prodotti, i suoi bisogni, i suoi costumi e talora i pregiudizi suoi. Questo metodo di amministrazione avea i suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti si potean correggere, e conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo rendeva però meno sensibile.
Questo stato della nazione fece sí che inutile riuscisse anche la legge sull’abolizione del testatico. «Nessun testatico, nessuna imposizione personale avrá luogo nella nazione napolitana».
Questo stesso, e colle stesse parole, era stato detto quasi tre secoli prima: quella legge era tuttavia in vigore nel Regno; ed intanto, ad onta della medesima, si pagava l’imposizione personale. In pochi luoghi si esigeva ancora sotto il nome di «testatico»; in molti si pagava ricoperta del nome d’«industria»; in moltissimi si pagava pagando un dazio indiretto sui generi di prima necessitá, che si consumano egualmente da chi possiede e da chi non possiede: ove in un modo, ove in un altro, il testatico si pagava dappertutto e non era in verun luogo nominato. La legge esisteva; ma l’abuso, cangiando le parole, faceva una frode alla legge.
Prima di riformare l’antico sistema delle nostre finanze, conveniva conoscerlo: la riforma dovea essere simultanea ed intera. Tutte le parti di un sistema di finanze hanno stretti rapporti tra loro e collo stato intero della nazione. Ma la maggior parte degli Stati di Europa erano nati, non dalle unioni spontanee, ma dalla conquista: il signore di un piccolo Stato avea oppressi gli altri con diversi mezzi ed in diversi tempi; per lo piú si erano transatti colle popolazioni, che avean conservati i loro usi, i dazi loro, i loro costumi. Una gran nazione non fu che l’aggregato di tante piccole nazioni, che si consideravano come estranee tra loro; ed il sovrano si considerava estraneo a tutte. Invece di leggi, si chiedevano «privilegi»; il sistema delle finanze non era che un’unione di diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi; i bisogni del momento, non essendo mai quelli della nazione, facevano sí che, invece di correggersi gli antichi abusi, se ne aggiugnessero dei nuovi; e tutto ciò produceva quell’orribile caos di finanze, in cui, al dir di Vauban, era grande quell’uomo che sapesse immaginar nuovi nomi per poter imporre un nuovo tributo senza alterare gli antichi. Era venuta l’epoca fortunata della riforma; ma questa riforma né dovea esser fatta con leggi particolari, le quali o presto o tardi si sarebbero contraddette, né in un momento. Era l’opera di molto tempo. Sulle prime, per contentare il popolo, il quale fra le novitá è sempre impaziente di veder segni sensibili di utile, bastava dire che si pagassero solo due terzi delle antiche imposizioni.
Questa diminuzione di un terzo di tutt’i tributi avrebbe attirato alla rivoluzione maggior numero di persone; mentre colla sola abolizione del testatico e della gabella della farina non si giovava che ai poveri. In séguito, quando il favore dei ricchi non era piú tanto necessario e l’odio loro tanto pericoloso, i poveri si sarebbero del tutto sgravati. Un governo stabilito deve esser giusto; un governo nuovo deve farsi amare: quello deve dare a ciascuno ciò che è suo; questo deve dare a tutti.
Una commissione a quest’oggetto stabilita avrebbe fatto in séguito conoscere le antiche finanze, i nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe formato un sistema generale e durevole, su di cui si sarebbe potuta fondare la felicitá della nazione.
(52) Questo fenomeno, in Napoli sensibilissimo, avrebbe meritata attenzione maggiore per parte dei nostri economisti. Io lo ripeto da varie cagioni: 1. Dall’esser il grano una delle poche derrate che noi vendevamo agli esteri: l’olio per la stessa ragione era nelle stesse circostanze ed avea sofferte le stesse alterazioni ne’ suoi prezzi. Una derrata che sia richiesta da maggior numero deve per necessitá crescere di prezzo; e, se mai presso una nazione avvien che essa formi tutto o grandissima parte del commercio estero, allora diviene una specie di moneta di conto ed accresce il suo valore, non solo per le richieste de’ compratori, ma anche per le speculazioni de’ venditori. Una moneta di conto è oggi in Sicilia il grano, e l’olio in Napoli, perché l’olio in Napoli occupa il primo luogo tra’ generi che si estraggono, ed il grano il secondo. Questo fenomeno, non osservato da nessuno, meriterebbe di esserlo. 2. Il consumo che la nazione napolitana fa di paste. 3. Il monopolio che vi è nelle terre, ridotte in poche mani e desiderate da molti, dacché non vi è altro mezzo d’impiegare il proprio danaro né in rendite, che son poche, né in oggetti di manifatture e di commercio. Promovendo tali oggetti, son persuaso che le stesse avrebbero ribassato il loro prezzo, e che questo ribasso avrebbe potuto influire anche su quello del grano. 4. La male intesa agricoltura, la quale rende necessaria molta estensione di terreno, ecc. ecc.
(53) Fa meraviglia come i scrittori di economia pubblica non abbiano distinte due specie di carestia, una reale, l’altra apparente, la quale non manca però di produrre mali reali. Quella reale si potrebbe suddividere in mancanza di genere ed alterazione di prezzo. Tutt’i difetti dei regolamenti annonari sono nati dall’aver voluto riparare ad una carestia apparente come se fosse carestia reale, e da questo primo errore ne è nato il secondo, che si è atteso piú all’alterazione del prezzo che alla mancanza del genere: chi conosce la storia degli stabilimenti annonari di Napoli intende la veritá di ciò che io dico. Ma tali stabilimenti sono simili a quelli di tutte le altre parti di Europa: eran figli de’ tempi e delle idee de’ tempi: il nostro errore è di volerli seguire anche quando i tempi e le idee son cangiati.
(54) Palma ed altre terre.
XLIII
RICHIAMO DE’ FRANCESI
Ma eccoci alfine ai giorni infelici della nostra repubblica: i mali da tanto tempo trascurati, ormai ingigantiti, ci soverchiano e minacciano di opprimerci. Le Calabrie si erano interamente perdute, e gl’insorgenti delle Calabrie comunicavano di giá cogl’insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano fino a Castellamare. Questa stessa cittá fu occupata dagl’inglesi, e si vide la bandiera dei superbi britanni sventolar vincitrice in faccia della stessa capitale.
I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta. Ma, pochi giorni dopo, i francesi furon costretti ad abbandonare il territorio napolitano, richiamati nell’Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con pomposi proclami la loro ritirata, gl’insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare s’inviò da Napoli una forte guarnigione, la quale però fu ridotta a dover difendere la sola cittá, quasi assediata dalle insorgenze che la circondavano.
Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini in Sant’Elmo; circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta. Egli avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in effetti altro non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati dalla guernigione di Capua, venivano a Sant’Elmo, donde altri quattrocento uomini partivano alternativamente per Capua.
Questa forza sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso di organizzar la forza nazionale. Poiché il far questo ci era stato tolto, la forza rimasta era insufficiente.
I rovesci d’Italia mostravano giá lo stato di languore, in cui la rilassatezza del governo direttoriale avea gittata la Francia. La Francia diminuiva di forze in proporzione che cresceva di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia, che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi, invece di amarle, le temettero.
I romani, di cui i francesi volevano esser imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli spagnuoli tennero una condotta diversa, ed avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma ciò che potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui allora si ritrovava l’Europa, non poteva riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e potenti ai loro confini.
Quando, in séguito di una conquista, si vuole organizzare una repubblica, l’operazione è sempre piú difficile che quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire, perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare. Ma non si avvezzano i popoli a comandare senza dar loro l’indipendenza, la quale richiede un sacrifizio, per lo piú doloroso, di autoritá per parte di colui che conquista. E quindi è che quasi sempre vana riesce la libertá che si riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi chi sappia comandare, non vi sará nemmeno chi sappia ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo, non si hanno che le volontá momentanee di coloro che comandano la forza straniera; volontá che sono tanto piú ruinose quanto il comando è piú vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo il merito della buona condotta. La libertá invidia e la legge toglie gl’impieghi anche agli ottimi.
Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i governanti nella repubblica romana. Come sperare quella stabilitá di princípi, quella costanza di operazioni, che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose?
Talora, oltre dei governanti, si violentava anche la costituzione; e quello stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche la cisalpina. Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere agl’intrighi ed alla forza, e preferirono la libertá del loro giuramento al favore del conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio potessero non esser quelle dell’indipendenza e felicitá della nazione, tutt’i governanti giurarono di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma possiamo noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre debole; ed il popolo intero come può amar una costituzione che non si abbia scelta da se stesso e che non possa conservare né distruggere se non per volere altrui?
Si aggiunga a ciò che il principio fondamentale delle repubbliche, che è il rispetto e l’amore pe’ suoi cittadini, mentre rende un governo repubblicano attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra’ suoi, lo rende negligente sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro che erano suoi eguali e che temevano piú di lui che delle province desolate. Le repubbliche italiane segnavano l’etá con sempre nuovo languore invece di rassettarsi cogli anni, quanto piú vivevano piú si accostavano alla morte; e le altre repubbliche d’Italia, dopo quattro anni di libertá, si trovarono tanto deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione.
Se i francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di organizzare una forza regolare, se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero potuto piú lungo tempo contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non impedivano l’organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero assicurata la vittoria al partito repubblicano. Ma il voler difendere la repubblica cisalpina, la romana, la napolitana colle sole proprie forze; il voler temere egualmente il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero dei soggetti senza aumentar la forza (55).
Si parla tanto del tradimento di Scherer: Scherer tradí il governo, ma la condotta di quel governo avea di giá tradita una gran nazione.
La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l’indipendenza d’Italia, e l’indipendenza d’Italia potea solo assicurar la Francia. L’equilibrio tanto vantato di Europa non può esser affidato se non all’indipendenza italiana; a quell’indipendenza, che tutte le potenze, quando seguissero piú il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l’Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore che piú sinceramente favorirá l’indipendenza italiana (56).
Il destino avea finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea la Francia non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i prodirettoriali governi d’Italia non seppero comprenderne le intenzioni.
Dura necessitá ci costrinse a trascurare tutti gli esterni rapporti che avrebbero potuto salvar la nostra esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente dell’Europa, e l’Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese non avevamo che gazzette o rapporti piú frivoli di una gazzetta e piú mendaci. I generali francesi ci scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e l’ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli furon date di prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non della repubblica, almeno dei repubblicani. Napoli avrebbe potuto salvar l’Italia; ma l’Italia cadde, ed involse anche Napoli nella sua ruina.
(55) La piú chiara prova che abbia dato il primo console di amar sinceramente la libertá d’Italia è stata quella di aver concesso alla Cisalpina il corpo de’ polacchi. Chi legge con attenzione questo paragrafo e tutta l’opera, vedrá come gli avvenimenti stessi giustificano il nuovo ordine di cose, desiderato tanto dalla giustizia e dall’umanitá.
(56) Se io dovessi parlare al governo francese per l’Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta o non toccarla. Formandone un solo governo, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa piccola parte né potrebbe sperar pace dalle altre potenze né potrebbe difendersi da se sola, cosí o dovrebbe perire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra. Questa è la ragione per cui Luigi decimoprimo, ad onta della sua ambizione, allorché Genova si offerí a lui, le rispose che «si dasse al diavolo». Questa è la ragione per cui si è detto che gli stabilimenti in Italia non giovavano alla Francia: duecento anni di guerra distruttiva le ha costato il possesso del Milanese. Allora i sovrani di Francia non avean comprese due veritá, la prima delle quali è che l’Italia è piú utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia. Questa veritá si è compresa da qualche anno, sebbene il Direttorio si conduceva come se non l’avesse compresa ancora o non volesse comprenderla, e solo dal nuovo piú giusto ordine di cose si può sperare l’utile effetto di questa veritá. La seconda è che l’Italia non dev’esser divisa, ma riunita: e la riunione dell’Italia dipende dalla libertá di Napoli; paese che la Francia non potrá giammai conservare e che ha tante risorse in sé, che solo potrebbe disturbar tutta la tranquillitá italiana, quando non sia in mano di un governo umano ed amico della libertá. È l’esperienza di tutt’i secoli, la quale ci mostra che i conquistatori dell’Alta Italia han per lo piú rotto alle sponde del Garigliano; e la filosofia spiega la ragione di tali avvenimenti.
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