Quantcast
Channel: Cultura – Sisohpromatem (Marco Vignolo Gargini)
Viewing all 196 articles
Browse latest View live

Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy II

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

Yasnaya Polyana

7 Ottobre 1909

A M. K. Gandhi

Transvaal

Ho ricevuto proprio adesso la sua interessantissima lettera, che mi dà un gran piacere. Possa Dio aiutare tutti i nostri cari fratelli e collaboratori in Transvaal. Questa lotta tra la gentilezza e la brutalità, tra l’umiltà e l’amore da un lato, e la presunzione e la violenza dall’altro, si fa sentire ancora di più con forza anche da noi qui — specialmente negli aspri conflitti tra gli obblighi religiosi e le leggi dello Stato — espressa dalle obiezioni di coscienza nel prestare il servizio militare. Tali obiezioni hanno luogo molto spesso.

Ho scritto Lettera a un Indù e sono molto contento di averla tradotta (in inglese). Il titolo del libro di Krishna le sarà comunicato da Mosca. Riguardo la rinascita io, per parte mia, non tralascerò niente; giacché, come appare a me, la credenza in una rinascita non sarà mai in grado di colpire radici così profonde e reprimere l’umanità come la credenza nell’immortalità dell’anima e la fede nella verità e nell’amore divino; naturalmente le verrò volentieri incontro, se è suo desiderio, eliminando quei passaggi in questione. Sarà fonte di gran piacere per me aiutarvi nella vostra edizione. La pubblicazione e la circolazione dei miei scritti, tradotti nei dialetti indiani, può soltanto essere un motivo di gioia per me.

Alla questione pertinente il pagamento monetario dei diritti d’autore, non dovrebbe affatto essere consentito di sembrare in termini di garanzie religiose.

Le porgo i miei fraterni saluti e sono lieto di essere entrato in contatto personalmente con lei.

Leo Tolstoi



Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” XVIII

$
0
0

cuoco-saggio-storico-sulla-rivoluzione-napoletana-del-1799-con-prefazione-e-note-di-ottolini

XLIV

RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA

I francesi dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed all’isola di Sora e nelle gole di Castelforte perdettero non poca gente. Appena essi partirono, nuove insorgenze scoppiarono in molti luoghi.

Roccaromana suscitò l’insorgenza nelle sue terre alle mura di Capua. Egli divenne l’istrumento piú grande della nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per sospetti troppo anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo e perderlo: offendendo, non seppe metterlo nella impossibilitá di far male.

Luigi de Gams organizzò nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze, unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto dell’Italia.

La ritirata dei francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni vogliono, gelosia del governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove poteva esser utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera. A questo male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise; ma le spedizioni di questi due, ritardate soverchio, non furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando cioè era impossibile eseguirle.

Cosí sopra tutta la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo a Mammone (57), comandante dell’insorgenza di Sora: con poco piú di forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore, opponendosi all’unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo avesse inviati loro non piú che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertá non sarebbe perita. Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l’insorgenza delle Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era una cittá piena di democratici: essa avea una guardia nazionale di duemila persone; era una cittá che, per lo stato politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano Serracapriola, Casacalenda, Agnone, Lanciano… Dall’altra parte, per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava colle tante popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania. Noi vorremmo poter nominare tutte le popolazioni e tutti gl’individui; ma né tutto distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si può dire: un tempo forse si saprá, e si potrá loro rendere giustizia.

Ma che fare? A tutte queste forze mancava la mente, mancava la riunione tra tutti questi punti, mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si crederá, ma intanto è vero: una delle cagioni, che piú hanno contribuito a rovesciar la nostra repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province delle persone che riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gl’insorgenti aveano tutti questi vantaggi.

(57) Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui difficilmente si ritrova l’eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici; oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti. Non si parla de’ saccheggi, delle violenze, degl’incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl’infelici che cadevano nelle sue mani, non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltá inventati. Ha rinnovate le invenzioni di Procuste, di Mezenzio… Il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva scannare. Chi scrive lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con aviditá quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di sangue; beveva in un cranio… A questi mostri scriveva Ferdinando da Sicilia: «mio generale e mio amico».

XLV

CARDINAL RUFFO

Ruffo intanto trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito seguendo la corte, era ritornato quasiché solo nella Calabria; ma le terre nelle quali si era fermato erano appunto le terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli diede qualche seguace: a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan condannati nelle isole della Sicilia, ai quali fu promesso il perdono; tutt’i scellerati banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa l’impunitá. A Ruffo si unirono il preside della provincia, Winspeare, e l’uditore Fiore. L’impunitá, la rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso (58); tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con picciole operazioni, piú per tentare gli animi e le cose che per invadere. Ma, vinte una volta le forze repubblicane perché divise e mal dirette, superata Monteleone, attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria ulteriore, e, passando quindi alla citeriore, attaccò e prese Cosenza, sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima degli errori del governo, perché disgustò il basso popolo coll’ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle imposizioni dovute al re, perché vi costituí comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo scellerato ed attaccato all’antico governo. Quando Ruffo era giá vicino a Cosenza, De Chiara era alla testa di sette in ottomila patrioti, risoluti di vincere o di morire. Ruffo aveva appena diecimila uomini. Quando queste truppe furono a vista, De Chiara ordinò la ritirata; intanto ad un segno concertato scoppiò la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i repubblicani si trovarono tra due fuochi; ma, ciò non ostante, riguadagnano la cittá e si difendono tre giorni. Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma, quando il soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si ridussero a dover fare prodigi di valore nella difesa di Rossano. Ma Rossano, rimasta sola, cadde anch’essa: cadde Paola, una delle piú belle cittá di Calabria, incendiata dal barbaro vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare. La fama del successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di tutte le Calabrie fino a Matera, dove incontrò il còrso De Cesare, di cui parlammo nel paragrafo decimosesto (59).

Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l’assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa piú ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mitraglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro giá da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la cittá fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato né al sesso né all’etá. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tuttavia: – Viva la repubblica! – Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue.

Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa comune. La stessa mancanza di provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono tanto di quell’ascendente che il valore dá sul numero, che fecero una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di valore. Intanto Micheroux fece nell’Adriatico uno sbarco di russi, che occuparono Foggia.

L’occupazione, sia caso, sia arte, avvenne ne’ giorni in cui la fiera richiamava colá gli abitanti di tutte le altre province del Regno; e cosí la nuova dell’invasione, sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche prima delle armi.

Chi non sarebbesi rivoltato allora contro il governo repubblicano, dopo i funesti esempi di coloro che eran rimasti vittima del suo partito, vedendo dappertutto il nemico vincitore e niuna difesa rimaner a sperarsi dagli amici? Si era giá nel caso che i repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser gl’insorgenti. Eppure l’amore per la repubblica era cosí grande, che faceva ancora amare il governo, e tutt’i repubblicani morirono con lui.

Un poco di truppa francese e patriotica che era in Campobasso fu costretta ad abbandonarla. Si perdette anche il contado di Molise. Non si era pensato a guadagnar le posizioni di Monteforte, Benevento, Cerreto ed Isernia, onde impedire le comunicazioni di queste insorgenze tra loro. Ribollí l’insorgenza di Nola, comunicando con quella di Puglia; e Napoli fu quasi che assediata.

 

(58) Quest’uomo ai creduli abitanti delle Calabrie si fece creder papa. Il cardinale Zurolo, arcivescovo di Napoli, ebbe il coraggio di anatemizzarlo.
(59) Le notizie dell’insurrezione della provincia di Lecce e delle operazioni dei còrsi mi sono state comunicate dal mio amico Giovanni Battista Gagliardo, il quale fu principal parte di tutto ciò che avvenne in Taranto. Le memorie, ch’egli ha scritte sopra gli accidenti della rivoluzione della sua patria, sono importanti. Io ho lette molte memorie simili. È degno di osservazione che in tutte le sollevazioni del Regno ci è stato sempre suono di campane ed una processione del santo protettore.

XLVI

MINISTRO DELLA GUERRA

Si era esposto mille volte al ministro della guerra tutto il pericolo che si correva per le insorgenze troppo trascurate; ma egli credeva ed avea fatto credere al governo non esser ciò altro che voci di allarmisti. Si giunse a promulgare una legge severissima contro i medesimi; ma la legge dovea farsi perché gli allarmisti non ingannassero il popolo, e non giá perché il governo fosse ingannato dagli adulatori.

Il governo era su questo oggetto molto mal servito da’ suoi agenti tanto interni che esterni, poiché per lo piú eransi affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che l’entusiasmo; ed essi piú del pericolo temevano la fatica di doverlo prevedere.

I popoli non erano creduti. Si chiesero de’ soccorsi al governo per frenare l’insorgenza scoppiata nel Cilento. Si proponeva al ministro che s’inviassero i francesi. – I francesi – si rispondeva – non sono buoni a frenare l’insorgenza; – e si diceva il vero (60). – Vi anderanno dunque i patrioti? – I patrioti faranno peggio. – Ma intanto il pessimo di tutt’i partiti fu quello di non prenderne alcuno; ed il piú funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse potuto giovare a distruggere l’insorgenza.

Il ministro della guerra diceva sempre al governo che egli si occupava a formare un piano, che avrebbe riparato a tutto. Prima parte però di ogni piano avrebbe dovuto esser quella di far presto. Si disse al ministro che avesse occupata Ariano, e non curò di farlo; se gli disse che avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva che il nemico non fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò se stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in Puglia, non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli avea spediti abbigliati alla russa. Gl’insorgenti erano giá alla Torre, lo stesso Ruffo co’ suoi calabresi era in Nola, Micheroux co’ russi era al Cardinale, Aversa era insorta ed aveva rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro della guerra, a cui tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser altro che pochi briganti, i quali non avrebbero ardito di attaccar la capitale. Quale stranezza! Una centrale immensa, aperta da tutt’i lati, il di cui popolo vi è nemico, a cui dopo un giorno si toglie l’acqua e dopo due giorni il pane!…

(60) Per le ragioni dette di sopra, cioè che contro gl’insorgenti poco vale l’armata, ma si richiedono le piccole forze e permanenti.

Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy III

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

Westminster Palace Hotel,

4, Victoria Street,

Londra W.C.

10/11/1909

Caro Signore,

mi permetto di porgerle i miei ringraziamenti per la sua raccomandata in relazione alla Lettera a un Indu e agli argomenti che ho toccato nella mia precedente lettera.

Avendo sentito della sua salute malferma, mi sono trattenuto per risparmiarle la fatica di inviare un riconoscimento, ben sapendo che un’espressione scritta della mia gratitudine era una formalità superflua; ma Mr. Aylmer Maude, che ora sono stato in grado di incontrare, mi ha rassicurato che lei gode veramente di una buona salute e che immancabilmente e regolarmente lei si occupa della sua corrispondenza ogni mattina. Per me è stata una notizia davvero lieta e mi incoraggia a scriverle ancora sugli argomenti che sono, lo so, della massima importanza secondo il suo insegnamento.

Mi permetto di inviarle con la presente una copia di un libro scritto da un amico — un inglese — che si trova al momento in Sud Africa, libro collegato alla mia vita, nella misura in cui ha un rapporto con la lotta alla quale io sono connesso e alla quale la mia vita è dedicata. Visto che sono molto ansioso di coinvolgere il suo interesse attivo e la sua simpatia, ho ritenuto che non sarebbe stato considerato da lei fuori luogo il fatto che io le spedissi il libro.

A mio parere, questa lotta degli indiani nel Transvaal è la più grande dei tempi moderni, in quanto è stata idealizzata per ciò che concerne l’obiettivo e anche in relazione ai metodi adottati per raggiungerlo. Non sono a conoscenza di una lotta in cui i partecipanti non devono trarre alcun vantaggio personale alla fine della stessa, e nella quale una percentuale delle persone interessate hanno subito grandi patimenti e difficoltà per il bene di un principio. Non mi è stato possibile pubblicizzare la lotta tanto quanto avrei gradito. Lei oggi ha il controllo, probabilmente, del più vasto pubblico. Se si ritiene pago per i fatti che troverà esposti nel libro di Mr. Doke, e se considera che le conclusioni a cui sono arrivato sono giustificate dai fatti, posso chiederle di usare la sua influenza in qualsiasi modo la ritenga adatta per diffondere il movimento? Se il movimento avrà successo, non sarà soltanto un trionfo della religione, dell’amore e della verità sull’irreligiosità, l’odio e la falsità, ma è altamente probabile che servirà da esempio per milioni di persone in India e per le popolazioni nelle altre parti del mondo, che possono essere oppresse, e certamente rappresenterà un ottimo viatico per spezzare il partito della violenza, almeno in India. Se resistiamo fino alla fine, come penso dovremmo, non nutro il minimo dubbio circa il suo successo finale e il suo incoraggiamento nei modi da lei suggeriti può solo rafforzarci nella nostra determinazione.

I negoziati in corso per una risoluzione del problema sono andati praticamente in fumo, e insieme ai miei colleghi tornerò in Sud Africa questa settimana per farci arrestare. Posso aggiungere che mio figlio si è felicemente unito a me nella lotta e adesso sta scontando una condanna ai lavori forzati di sei mesi.

Questa è la sua quarta carcerazione nel corso della lotta.

Se vuol essere così gentile da rispondere a questa lettera, posso chiederle di indirizzare la sua risposta a Johannesburg, S.A. Box 6522.

Nella speranza di trovarla in buona salute.

Resto,

Il suo servo obbediente

M. K. Gandhi


Sante zoccole

$
0
0

buz_14_672-458_resize

   La morte di Laura Antonelli ha dato spunto a una fiera di dubbio gusto. Prima di tutto è stata un’operazione di puro sciacallaggio la trasformazione di un evento triste e doloroso, come è la morte di ogni persona, in uno strumento per sciorinare discorsi moralistici e prese di posizione maschiliste. Credo che per coloro che hanno rispetto – quello vero – per la dignità sia stato un pugno nello stomaco assistere allo sbavare spasmodico di giornalisti e soci alla ricerca della notizia sensazionale o del fatto morboso. La mia indignazione, spero non solo mia, nasce dalla constatazione che se una donna nella sua attività professionale entra in un determinato cliché ne resta condizionata ed incastonata definitivamente. Ci sono molti messaggi più o meno evidenti che sono passati tutti in odore di moralismo e del tipo più deleterio. Chi è stata Laura Antonelli? L’hanno resa la musa dell’erotismo italico grazie a un film che raccontava in salsa casereccia una storiella vecchia come il mondo. Non c’è bisogno di dire altro. Non sono certo la persona in grado di esprimere una valutazione sui meriti artistici dell’attrice, ma desidero spendere qualche parola sull’erotismo. Che cos’è? Per secoli era un termine legato al peccato. Poi la psicoanalisi e la rivoluzione sessuale gli ha dato un’altra valenza. Si scopre così che l’erotismo è una componente essenziale della vita di relazione di ognuno di noi. Però si è sentito il bisogno di imbrigliare l’erotismo in un insieme di stereotipi, in nuovi codici di comportamento. Attrici come Laura Antonelli hanno contribuito a questo bisogno di imbrigliare, inquadrare, rendere l’erotismo uno stereotipo, privandolo della sua dimensione intima e privata. LA è stata una dea dell’effimero.

   È stato penoso sentire la descrizione dell’esistenza di LA. Il messaggio è chiaro: ecco cosa succede a chi va oltre il bigottismo imperante oggi come allora nei lontani anni ’70. Ed in fondo al tunnel la reproba scopre Gesù… Ora, un cammino di incontro con Dio resta un mistero. È facile e scontata l’immagine della donna frivola che scopre il messaggio evangelico. LA è stata imprigionata in vari stereotipi da diva dell’erotismo a nuova Maddalena. Cos’altro dire? Silenzio, per favore è morta una donna che ha sofferto molto e pagato per il suo essere stata una dea dell’effimero.

   Vari anni fa è stato pubblicato un libro il cui titolo recitava Le brave ragazze vanno in paradiso e le cattive dappertutto [1]. Ho rimuginato molte volte su questa spassosa formuletta, soprattutto quando vedo l’ipocrisia bigotta riapparire. Si è voluto leggere la vicenda di LA in questa chiave di lettura: vedete cosa succede a chi si immerge in certi ruoli? però ha ritrovato Gesù che l’ha salvata! I valori cristiani sono conosciuti e noti da duemila anni… Possibile che Lui diventi l’ancora di salvataggio dopo il tunnel? Sempre la stessa operazione culturale. LA si è convertita, i motivi sono suoi. Non sta a noi stabilire il perché. Triste constatare che Gesù viene identificato come l’ultimo antidepressivo. 

Orrendo inoltre l’intervento di un’altra reproba redenta, Claudia Kohl. Le fa onore aver cercato di “aiutare” LA, edificante sapere che lei non ha avuto bisogno di precipitare dal podio per scoprire la religione. Avrei preferito un silenzio dignitoso perché la morte non è mai uno spettacolo.

Infine si è insistito molto sul fatto che LA era sola, abbandonata da tutti… ma da chi? Io credo che voleva soprattutto essere lasciata in pace. 

In sintesi: si sta tornando ad un moralismo e perbenismo da epoca vittoriana. Basti dire che in campo politico ha fatto più scalpore il fatto che Berlusconi si comporti come un califfo con un harem molto frequentato e non tutta la corruzione di cui è stato accusato. 

Dott.ssa Franca Colonna Crupi, psichiatra

[1] (N.d.R.) Ute Ehrhardt, Gute Mädchen kommen in den Himmel, böse überall hin. Warum Bravsein uns nicht weiterbringt. Fischer Taschenbuch, Frankfurt am Main 2000, tradotto in italiano e pubblicato da TEA nel 2007.


AETERNI PATRIS

$
0
0


Papa Leone XIII

AETERNI PATRIS

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII

A tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi


del mondo cattolico che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.


Venerabili Fratelli,


salute e Apostolica Benedizione.


Il Figlio Unigenito dell’Eterno Padre, che apparve in terra a portare salute e luce di divina sapienza al genere umano, recò al mondo un beneficio grande e stupendo quando, sul punto di risalire al cielo, ordinò agli Apostoli che “andando ammaestrassero tutte le genti” (Mt 28,19), e lasciò la Chiesa, da Lui stesso fondata, maestra universale e suprema dei popoli. Infatti gli uomini, che furono salvi in forza della verità, attraverso la verità si dovevano conservare; né sarebbero durati a lungo i frutti delle dottrine celesti, donde derivò all’uomo la salute, se Cristo Signore non avesse stabilito un indefettibile magistero per erudire le menti nella fede. La Chiesa poi, confortata dalle promesse ed ispirandosi alla carità del suo divino Autore, rispose così fedelmente al mandato, che questo sempre ebbe in mira, questo volle soprattutto: ammaestrare nella religione e combattere senza tregua l’errore. Qua si rapportano le vigili fatiche dei singoli Vescovi, qua le leggi e i decreti dei Concili, e soprattutto la quotidiana sollecitudine dei Romani Pontefici, i quali, come successori del Beato Pietro Principe degli Apostoli nel primato, hanno il diritto ed il dovere di ammaestrare i fratelli e di consolidarli nella fede. E poiché, come ammonisce l’Apostolo, è facile che “tramite la filosofia e la vana fallacia” (Col 2,18) le menti dei fedeli siano tratte in inganno e che si corrompa in essi la purezza della fede, perciò i Pastori supremi della Chiesa ritennero sempre loro dovere far progredire con tutti i mezzi anche la vera scienza, e nel tempo stesso provvedere con particolare vigilanza che secondo la norma della fede cattolica fossero dovunque insegnate tutte le umane discipline, ma specialmente la filosofia, da cui dipende in gran parte la diretta ragione di tutte le altre scienze. Noi pure, fra le altre cose, abbiamo brevemente segnalato ciò, Venerabili Fratelli, quando a Voi tutti rivolgemmo la parola con la prima Lettera enciclica; ma ora l’importanza della materia e la condizione dei tempi Ci spingono a trattare nuovamente con Voi del modo di condurre gli studi di filosofia: esso deve corrispondere convenientemente al bene della fede ed alla stessa dignità delle scienze umane.

Se qualcuno medita sull’acerbità dei nostri tempi e comprende bene la ragione di ciò che in pubblico e in privato si va operando, scoprirà certamente che la vera causa dei mali che ci affliggono e di quelli che ci sovrastano è riposta nelle prave dottrine, che intorno alle cose divine ed umane uscirono dapprima dalle scuole dei filosofi, e si insinuarono poi in tutti gli ordini della società, accolte con il generale consenso di moltissimi. Infatti, essendo insito da natura nell’uomo che egli nell’operare segua la ragione, se l’intelletto pecca in qualche cosa, facilmente fallisce anche la volontà; così accade che le erronee opinioni, le quali hanno sede nell’intelletto, influiscano nelle azioni umane e le pervertano. Al contrario, se la mente degli uomini sarà sana e poggerà sopra solidi e veri principi, allora frutterà sicuramente larga copia di benefici a vantaggio pubblico e privato.

Noi certamente non attribuiamo alla filosofia umana tanta forza e tanta autorità fino a stimare che essa sia in grado di tenere lontani e sterminare tutti gli errori; infatti come, quando fu da principio stabilita la religione cristiana, toccò in sorte al mondo di essere ridonato alla primitiva dignità per l’ammirabile lume della fede, diffuso “non con le parole persuasive della umana sapienza, ma con la dimostrazione dello spirito e delle virtù” (1Cor 2,4), così anche al presente si deve aspettare innanzi tutto dall’onnipotente virtù e dall’aiuto divino che le menti dei mortali, sgombrate le tenebre degli errori, rinsaviscano. Ma non sono da disprezzare, né da trascurare gli aiuti naturali benignamente somministrati all’uomo dalla divina sapienza, la quale con efficacia e soavità dispone di tutte le cose: fra tali aiuti è certamente principale il retto uso della filosofia. Infatti non inutilmente Iddio accese nella mente umana il lume della ragione; ed e così lungi dal vero che la luce della fede aggiunta alla ragione ne spenga la virtù o l’affievolisca, ché anzi la perfeziona, accresciutane la vigorìa, la rende adatta a cose più alte. Dunque l’ordine della stessa Provvidenza divina richiede che, per ricondurre i popoli alla fede ed alla salute, si domandi aiuto anche alla scienza umana; tale soluzione, prudente e saggia, fu usata frequentemente dai più illustri Padri della Chiesa, come attestano le memorie dell’antichità. Essi infatti furono soliti dare alla ragione molte ed importantissime parti, compendiate in brevissime parole dal grande Agostino, “il quale attribuisce a questa scienza… ciò per cui la fede salutare… ha principio, nutrimento, forza e difesa”.

Innanzi tutto la filosofia: se dai sapienti viene usata rettamente, serve in certo qual modo a spianare ed a rafforzare la via alla vera fede, e ad apparecchiare convenientemente gli animi dei suoi discepoli a ricevere la rivelazione; onde, non senza ragione, fu detta dagli antichi, ora “istituzione preparatoria alla fede cristiana”, ora “preludio ed aiuto del cristianesimo”, ora, “guida al Vangelo”.

Certamente il benignissimo Iddio, in ciò che appartiene alle cose divine, col lume della fede non manifestò solamente quelle verità alle quali l’intelligenza umana è incapace di giungere, ma ne manifestò pure alcune altre non del tutto impenetrabili dalla ragione, affinché per l’autorità divina subito e senza commistione di errore fossero a tutti palesi. Quindi alcune verità, o divinamente rivelate o strettamente connesse con l’insegnamento della fede, furono conosciute, con la scorta della ragione naturale, anche dai filosofi pagani e dai medesimi con argomenti propri dimostrati e difesi. “Giacché, come dice l’Apostolo, le perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, e così anche la Sua eterna potenza e divinità” (Rm 1,20); e “le genti che non hanno legge mostrano, ciononostante, che il bisogno della legge è scritto nei loro cuori” (Rm 2,14-15). Or dunque è assai opportuno rivolgere a bene e a vantaggio della rivelazione queste verità conosciute dagli stessi filosofi pagani, allo scopo di mostrare concretamente che anche l’umana sapienza e gli stessi avversari rendono favorevole testimonianza alla fede cristiana. Consta che tale comportamento non è stato introdotto recentemente, ma è antico e usato spesso dai Santi Padri della Chiesa. Anzi, questi venerabili testimoni e custodi delle tradizioni religiose riconoscono una certa similitudine e quasi una figura di ciò nel fatto degli Ebrei, ai quali, in partenza dall’Egitto, fu comandato di portare con sé i vasi d’argento e d’oro degli Egiziani nonché le vesti preziose, affinché, mutatone subito l’uso, fosse dedicato al culto del vero Dio ciò che prima era servito a riti d’ignominia e di superstizione. Gregorio di Neocesarea loda Origene per avere con singolare abilità rivolto in difesa della sapienza cristiana e a danno della superstizione molti detti ingegnosamente distaccati dai precetti dei pagani, a guisa di saette strappate di mano al nemico. Ed un simile modo di disputare Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno lodano ed approvano in Basilio Magno; e Girolamo sommamente l’esalta in Quadrato, discepolo degli Apostoli, in Aristide, in Giustino, in Ireneo ed in molti altri . Agostino poi: “Non vediamo noi, dice, con quanto oro e con quanto argento, ricco di vesti, sia uscito dall’Egitto il dottore soavissimo e beatissimo martire Cipriano? Con quanto Lattanzio? Con quanto Vittorino, Ottato, Ilario? e per tacere dei vivi, con quanto innumerevoli Greci?” . Se la ragione naturale diede questa ricca messe di dottrina prima che essa fosse fecondata dalla virtù di Cristo, molto più abbondante certamente ne produrrà da quando la grazia del Salvatore ristorò e aumentò le sue forze native. E chi non vede come con siffatto modo di filosofare si apre una via piana e facile alla fede?

Ma non è circoscritta entro questi limiti l’utilità che ne deriva. Invero la divina sapienza gravemente censura la stoltezza di coloro i quali “dalle cose buone che si vedono non sono giunti a conoscere Colui che è; né dalla considerazione delle opere conobbero chi ne era l’artefice” (Sap 13,1). Dunque questo grande e preclaro frutto si coglie in primo luogo dalla umana ragione, perché essa ci dimostra esservi un Dio: “infatti, dalla grandezza e dalla bellezza della creatura, si potrà intuire il loro Creatore” (Sap 13,5). Inoltre la ragione dimostra che Dio è singolarmente eccellente per il cumulo di tutte le perfezioni: innanzi tutto per la sapienza infinita, alla quale nulla può essere nascosto, e per la somma giustizia inaccessibile a qualsiasi perversità; perciò Iddio non solamente è verace, ma è la stessa verità, incapace sia di cadere, sia di trarre in inganno. Dal che manifestamente consegue che la ragione umana fornisce pienissima fede ed autorità alla parola di Dio. Parimenti la ragione dichiara che la dottrina evangelica, fin dalla sua prima origine, sfolgorò per mirabili segni, per argomenti infallibili di sicura verità, e che quanti credono al Vangelo non vi credono imprudentemente, quasi fossero seguaci di dotte favole (cf. 2Pt 1,16), ma con ossequio del tutto ragionevole assoggettano l’intelletto e il loro giudizio alla divina autorità. Né si deve stimare da meno che la ragione metta in luce come la Chiesa fondata da Cristo (secondo quanto stabilì il Concilio Vaticano) “per la sua ammirabile diffusione, per la sua esimia santità ed inesausta fecondità in tutti i beni, per la sua cattolica unità ed invitta stabilità, è un grande e perenne motivo di credibilità e testimonio irrefragabile della sua missione divina”:

Posti in questo modo i saldissimi fondamenti, si chiede ancora un continuo e molteplice uso della filosofia, affinché la sacra Teologia assuma e vesta natura, forma e carattere di vera scienza. Infatti in questa disciplina, la più nobile fra tutte, è sommamente necessario che le molte e diverse parti delle dottrine celesti si colleghino come in un sol corpo, affinché messe ordinatamente al loro posto e derivate ciascuna dai propri principi, stiano fra loro in idonea armonia; ed infine, tutte e singole, siano confermate con propri ed invincibili argomenti.

Non sono poi da passare sotto silenzio, né da stimare di poco conto, la conoscenza più accurata e più ampia delle cose che si credono, e la comprensione un po’ più limpida, per quanto è possibile, degli stessi misteri della fede, che Agostino e gli altri Padri hanno lodata e si sono studiati di conseguire, e che lo stesso Concilio Vaticano ha giudicata fruttuosissima. A tale conoscenza e a tale comprensione senza dubbio più largamente e più facilmente giungono coloro che all’integrità della vita e all’amore ardente della fede congiungono una mente erudita nelle scienze filosofiche; tanto più che, secondo gl’insegnamenti dello stesso Concilio Vaticano, la comprensione di questi dogmi deve essere ricavata “sia dall’analogia delle cose che naturalmente si conoscono, sia dal nesso degli stessi misteri tra loro e coll’ultimo fine dell’uomo”.

Infine, alla filosofia compete difendere con ogni diligenza le divine verità rivelate, e opporsi a coloro che ardiscono contrastarle. Pertanto torna a gran vanto della filosofia essere considerata baluardo della fede e sicuro bastione della religione. “La dottrina del Salvatore, come attesta Clemente Alessandrino, è certamente perfetta in sé, e non è bisognosa di alcun aiuto essendo virtù e sapienza di Dio. La filosofia greca, unendosi ad essa, non rende più potente la verità, ma indebolisce le argomentazioni dei sofisti contro di lei e respinge le ingannevoli insidie tese contro la verità: pertanto fu detta siepe della vigna e trincea nel bisogno” . Per la verità, come i nemici del nome cattolico, volendo combattere la religione, il più delle volte prendono dalla filosofia gli strumenti della loro guerra, così i difensori della sacra dottrina traggono dal seno della filosofia molte cose a difesa delle verità rivelate. Né è da ritenere piccolo trionfo per la fede cristiana che le armi nemiche, industriosamente trovate dall’umana ragione per nuocerle, siano dalla stessa ragione respinte con efficacia e agevolmente. Tale forma di combattimento religioso, usata dallo stesso Apostolo delle genti, viene ricordata da San Girolamo nella lettera a Magno: “Paolo, duce dell’esercito cristiano ed oratore invitto, trattando la causa di Cristo rivolta con arte in argomento della fede anche una casuale epigrafe, giacché aveva imparato dal vero Davide a strappare dalle mani dei nemici la spada ed a troncare il capo del superbissimo Golia col suo stesso ferro” . La stessa Chiesa non solamente consiglia che i maestri cattolici piglino dalla filosofia codesto aiuto, ma lo ordina apertamente. Infatti il Concilio Lateranense V, dopo avere definito “essere del tutto falsa ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata, perché il vero non può contraddire al vero”, ingiunge ai dottori in filosofia di esercitarsi diligentemente nel confutare i fallaci argomenti, essendo certo, come attesta Agostino, che “se la ragione che si porta è contro l’autorità della divina Scrittura, per guanto sia acuta, essa inganna sotto apparenza di verità, perché è impossibile che sia vera” .

Ma, affinché la filosofia sia capace di portare questi frutti preziosi che abbiamo rammentato, è del tutto necessario che non esca mai dalla via già presa dai venerandi Padri dell’antichità, e approvata dal Concilio Vaticano col suo solenne ed autorevole suffragio. Invero, essendo del tutto manifesto che si devono ammettere molte verità di ordine soprannaturale che vincono di molto l’acutezza di qualsiasi ingegno, la ragione, conscia della propria debolezza, non ardisca aspirare a cose superiori a sé, né osi negare le stesse verità, né misurarle con la propria forza, né interpretarle a capriccio; ma piuttosto le accolga con umile e totale fede, ed abbia in conto di sommo onore che le sia permesso di servire alle dottrine celesti quale ancella e seguace, e di conseguirne per divino favore in qualche modo la conoscenza.

Quanto poi a quei capitoli di dottrina che l’intelligenza umana può naturalmente comprendere, è giustissimo che la filosofia usi per essi il proprio metodo, i propri principi e i propri argomenti: non tanto, però, che sembri volersi audacemente sottrarre alla divina autorità. Anzi, essendo fuor di ogni dubbio che le cose manifestate dalla rivelazione sono infallibilmente vere, e che quelle le quali contraddicono alla fede si oppongono parimenti alla retta ragione, il filosofo cattolico sappia che farebbe ingiuria alla fede, e contemporaneamente alla ragione, se abbracciasse una conclusione riconosciuta contraria alla dottrina rivelata.

Sappiamo con certezza che non mancano coloro che, magnificando oltremodo le facoltà della natura umana, sostengono che l’intelligenza dell’uomo, tosto che si sottomette all’autorità divina, decade dalla sua naturale dignità e, come declassata sotto il giogo della servitù, viene ritardata ed impedita nel suo cammino di avvicinamento verso il sommo della verità e della grandezza. Ma queste asserzioni sono piene di errore e d’inganno; ed infine mirano a questo, che gli uomini per colmo di stoltezza e non senza colpa d’ingratitudine rifiutino le verità più sublimi e rigettino spontaneamente il divino beneficio della fede, dalla quale sgorgarono a vantaggio della società le sorgenti di tutti i beni. Infatti, essendo la mente umana rinchiusa entro determinati, piuttosto angusti confini, essa va molto soggetta all’ignoranza e all’errore. Al contrario, la fede cristiana, appoggiandosi sull’autorità di Dio, è maestra sicurissima di verità; nessuno, seguendola, viene preso ai lacci dell’errore, né sbattuto dai flutti d’incerte opinioni. Per la qual cosa coloro che congiungono lo studio della filosofia con l’ossequio della fede cristiana sono ottimi filosofi, poiché del lume delle verità divine, accolto nell’animo, si avvantaggia la stessa intelligenza alla quale – in forza di esso – non solo nulla si toglie di dignità, ma moltissimo anzi si aggiunge di nobiltà, di certezza, di acume. E quando essi, nel confutare le opinioni che sono contrarie alla fede e nel provare quelle che si accordano con la medesima, adoperano la forza del loro ingegno, fanno degno ed utile uso della ragione: infatti nelle prime ravvisano le cause degli errori e conoscono il vizio degli argomenti su cui si fondano, e nelle seconde giungono a trovare convincenti ragioni per solidamente dimostrarle e argomentarle presso ogni saggio. Ora, chi negasse che tale attività ed esercizio accrescono le ricchezze della mente e ne sviluppano le forze, dovrebbe anche sostenere l’assurdo che nulla giovi all’ingegno il saper discernere il vero dal falso. A buon diritto pertanto il Concilio Vaticano ricorda con le seguenti parole gl’insigni benefìci procurati alla ragione dalla fede: “La fede libera e preserva la ragione dagli errori, e l’arricchisce di molte cognizioni”. Perciò l’uomo, se avesse senno, non dovrebbe accusare la fede come nemica della ragione e delle verità naturali, ma piuttosto con letizia dovrebbe essere grato e rendere degne grazie a Dio, perché tra le molte cause d’ignoranza e in mezzo ai flutti degli errori, gli rifulse la santissima fede la quale, quasi amica stella, con ogni sicurezza gli addita il porto della verità.

Se, Venerabili Fratelli, volgete lo sguardo alla storia della filosofia, vedrete che quanto abbiamo detto è confermato dai fatti. Fra i filosofi antichi che non ebbero il beneficio della fede, anche quelli che erano ritenuti i più sapienti in molte cose errarono pessimamente. Infatti Voi ben sapete quanto spesso abbiano mescolato ad alcune verità opinioni false ed assurde, dubbie ed incerte intorno alla natura divina e alla prima origine delle cose; intorno al governo del mondo e alla conoscenza che Dio ha del futuro; intorno al principio e alla causa dei mali; intorno al fine ultimo dell’uomo e all’eterna beatitudine; intorno alle virtù ed ai vizi, e ad altre dottrine, della vera e sicura conoscenza delle quali non vi è cosa più necessaria per l’uomo.

Per contro, i primi Padri e Dottori della Chiesa, i quali avevano ben compreso che per divino consiglio il vero restauratore anche della scienza umana è Cristo, il quale è virtù e sapienza di Dio (1Cor 1,24), e “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3), si diedero a studiare profondamente i libri degli antichi filosofi ed a paragonare le loro tesi con le dottrine rivelate, e, sceverandole prudentemente, accettarono quelle che erano dette secondo verità e pensate saggiamente, correggendo o rifiutando tutte le altre.

Giacché il provvidentissimo Iddio, come contro la crudeltà dei tiranni suscitò a difesa della Chiesa fortissimi martiri prodighi della loro grande anima, così ai falsi filosofi ed agli eretici oppose uomini sommi per sapienza, affinché difendessero il tesoro delle verità rivelate anche con l’aiuto dell’umana ragione. Dunque, fino dai primordi della Chiesa la dottrina cattolica ebbe contro di sé fierissimi avversari i quali, dileggiando i dogmi e i costumi dei cristiani, affermavano che esistevano più dei, che la materia del mondo non aveva avuto né principio né causa, e che il corso delle cose era condotto da una forza cieca e da una fatale necessità, non governato dal consiglio della divina provvidenza. In verità contro i maestri di queste pazze dottrine combatterono prontamente quei savi che chiamiamo Apologisti, i quali, con la scorta della fede, utilizzarono pure dall’umana sapienza le prove per dimostrare che si deve ammettere ed onorare un solo Dio, eminentissimo in ogni genere di perfezioni: tutte le cose per la sua onnipotenza sono tratte dal nulla; per la sua sapienza hanno vigore e sono mosse e dirette ai propri fini.

Fra essi tiene il primo posto San Giustino martire il quale, dopo avere visitato le più celebri Accademie dei Greci, al fine di valutarle, e dopo avere conosciuto, come egli stesso confessa, che la verità si può ottenere con sicurezza solamente dalle dottrine rivelate, abbracciò queste con tutto l’ardore dell’animo, le purgò dalle calunnie, le difese con forza e con eloquenza presso gli Imperatori Romani, e non poche dichiarazioni dei filosofi greci mise d’accordo con quelle. Il che fecero pure ottimamente nel medesimo tempo Quadrato, Aristide, Ermia ed Atenagora.

Né si acquistò minor gloria nella stessa causa l’invitto martire e Pontefice della Chiesa di Lione Sant’Ireneo, il quale strenuamente confutando le opinioni perverse degli orientali, disseminate nell’Impero Romano per opera degli Gnostici, “spiegò, secondo la testimonianza di Girolamo, le origini delle singole eresie e da quali fonti scaturirono” . Nessuno poi ignora le dispute di Clemente di Alessandria, rammentate a grande onore dallo stesso Girolamo in questi termini: “Che vi è in esse di scritto non dottamente? che vi è non tratto dal seno della filosofia?”. Con incredibile varietà egli ragionò di molte cose, tutte utilissime per redigere la storia della filosofia, per esercitare rettamente la dialettica, e per procurare la concordia della ragione con la fede. Origene, famoso per il magistero tenuto nella scuola Alessandrina, eruditissimo nelle dottrine dei greci e degli orientali, seguì le sue orme pubblicando moltissimi volumi, tutti di grande studio, mirabilmente opportuni nel commentare le sacre Scritture e nell’illustrare i sacri dogmi. Benché non siano affatto privi di errori, almeno come ora si leggono, pure contengono grande quantità di sentenze che vanno ad accrescere il numero e la certezza delle verità naturali. Tertulliano combatte contro gli eretici con l’autorità delle sacre Lettere; contro i filosofi, mutato il genere delle armi, con la filosofia; e li confuta con tanta acutezza d’ingegno e con tanta erudizione da potere, con tutta fiducia, dir loro pubblicamente: “Né quanto alla dottrina, né quanto all’insegnamento, come voi credete, ci siete eguali”. Anche Arnobio, con i libri pubblicati contro i gentili, e Lattanzio, specialmente con le sue divine Istituzioni, valorosamente si studiano, con pari eloquenza e forza, d’insegnare agli uomini i dogmi e i precetti della sapienza cattolica, non rovesciando la filosofia, come sogliono fare gli Accademici , ma confutando gli avversari, in parte con le proprie armi e in parte con quelle tolte dai dissensi sorti fra loro.

Le cose poi che il grande Atanasio e Crisostomo, principe degli oratori, ci lasciarono scritte sull’anima umana, sui divini attributi, e intorno ad altre importantissime questioni, sono, per unanime giudizio, così eccellenti, che sembra nulla potersi aggiungere alla sottigliezza e alla copiosità di quei testi. E quantunque non vogliamo eccedere nell’annoverarli tutti ad uno ad uno, al numero di quei sommi, dei quali si è fatta menzione, aggiungiamo il grande Basilio, e l’uno e l’altro Gregorio, i quali, essendo usciti da Atene, sede di ogni cultura umanistica, abbondantemente forniti di ogni strumento filosofico, utilizzarono a confutazione degli eretici e ad ammaestramento dei fedeli la dovizia di quella dottrina che con ardente studio si erano procurata. Ma parve che a tutti togliesse la palma Agostino il quale, dotato di robustissimo ingegno e sommamente preparato nelle discipline sacre e profane, gagliardamente combatté tutti gli errori dell’età sua con somma fede e con eguale dottrina. Qual punto di filosofia non ha egli toccato? Anzi, quale non approfondì con somma diligenza, o quando spiegava ai fedeli i misteri altissimi della fede e li difendeva contro gli stolti assalti degli avversari, o quando, annientate le follie degli Accademici e dei Manichei, metteva in salvo i fondamenti e la solidità della scienza umana, o quando andava ricercando la ragione, l’origine o le cause di quei mali onde gli uomini sono travagliati? Quanto ampiamente e con quanta sottigliezza egli non disputò intorno agli Angeli, all’anima e alla mente umana, intorno alla volontà e al libero arbitrio, intorno alla religione e alla vita beata, al tempo e all’eternità, e, infine intorno alla stessa natura dei corpi mutabili? Dopo questo tempo, Giovanni Damasceno in Oriente, messosi sulla via di Basilio e di Gregorio Nazianzeno, e Boezio ed Anselmo in Occidente, calcando le orme di Agostino, arricchirono moltissimo il patrimonio della filosofia.

Poscia i Dottori del medio evo, che vanno sotto il nome di Scolastici, intrapresero un’opera di grande rilievo, vale a dire raccogliere con diligenza la feconda ed ubertosa messe di dottrina sparsa nei moltissimi volumi dei Santi Padri e, dopo averla raccolta, riporla come in un sol luogo, ad uso e vantaggio dei posteri. Ma quali siano l’origine, l’indole e l’eccellenza della Scolastica, vogliamo, Venerabili Fratelli, qui dichiararlo più diffusamente con le parole del sapientissimo Nostro Predecessore Sisto V: “Per dono divino di Colui il quale, solo, dà lo spirito della scienza e della sapienza, e il quale nel corso dei secoli ricolma di nuovi benefici la sua Chiesa secondo il bisogno, e la munisce di nuovi presidi, fu trovata dai nostri maggiori, savissimi uomini, la Teologia scolastica, che in modo particolare i due gloriosi Dottori l’angelico San Tommaso ed il serafico San Bonaventura, professori chiarissimi di questa facoltà… coltivarono ed illustrarono con eccellente ingegno, con assiduo studio, con grandi fatiche e con lunghe veglie e la lasciarono ai posteri ottimamente ordinata ed in molti e chiarissimi modi esplicata. Per certo la cognizione e l’esercizio di una scienza così salutare, che deriva dalle abbondantissime fonti delle divine Lettere, dei Sommi Pontefici, dei Santi Padri e dei Concili, poterono senza dubbio apportare sempre alla Chiesa grandissimo aiuto, sia per intendere ed interpretare, secondo il loro vero e schietto senso, le stesse Scritture, sia per leggere e spiegare con maggiore sicurezza e con maggiore utilità i Padri; sia per scoprire e confutare i vari errori e le eresie. In questi ultimi tempi, in cui sono giunti quei giorni pericolosi descritti dall’Apostolo, ed uomini blasfemi, superbi e seduttori procedono di male in peggio, errando essi stessi e traendo gli altri nell’errore, essa certamente è oltremodo necessaria per confermare i dogmi della fede cattolica e per ribattere le eresie” . Tali parole, benché sembrino riferirsi soltanto alla Teologia scolastica, nondimeno vanno chiaramente intese come dette anche per la Filosofia e per le sue doti. Giacché quelle chiare doti che rendono la Teologia scolastica tanto terribile per i nemici della verità “vale a dire, come aggiunge lo stesso Pontefice, quella concatenazione delle cose e delle loro cause tra sé, quell’ordine e quella disposizione come di soldati schierati a battaglia, quelle limpide definizioni e distinzioni, quella sodezza di argomenti e quelle sottilissime dispute per le quali la luce è separata dalle tenebre e il vero dal falso, e le menzogne degli eretici, avviluppate da molti inganni ed intrighi, come se fosse loro strappata di dosso la veste, sono rese manifeste e messe a nudo” , codeste preclare e mirabili doti, diciamo, si debbono attribuire al retto uso di quella filosofia, della quale i maestri scolastici si avvalsero assai frequentemente di proposito e con savio intendimento anche nelle dispute di Teologia. Oltre a ciò, essendo una singolarità tutta propria dei Teologi scolastici l’avere congiunto tra loro con strettissimo nodo la scienza umana e la divina, di certo la Teologia, in cui essi furono eccellenti, non si sarebbe acquistata nell’opinione degli uomini tanto onore e tanta lode, se avessero usato una filosofia monca, imperfetta o leggera.

Per la verità, sopra tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale, come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti” . Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Egli, d’ingegno docile ed acuto, di memoria facile e tenace, di vita integerrima, amante unicamente della verità, ricchissimo della divina e della umana scienza a guisa di sole riscaldò il mondo con il calore delle sue virtù, e lo riempì dello splendore della sua dottrina. Non esiste settore della filosofia che egli non abbia acutamente e solidamente trattato, perché egli disputò delle leggi della dialettica, di Dio e delle sostanze incorporee, dell’uomo e delle altre cose sensibili, degli atti umani e dei loro principi, in modo che in lui non rimane da desiderare né una copiosa messe di questioni, né un conveniente ordinamento di parti, né un metodo eccellente di procedere, né una fermezza di principi o una forza di argomenti, né una limpidezza o proprietà del dire, né facilità di spiegare qualunque più astrusa materia.

A questo si aggiunge ancora che l’angelico Dottore speculò le conclusioni filosofiche nelle intime ragioni delle cose e nei principi universalissimi, che nel loro seno racchiudono i semi di verità pressoché infinite, e che a tempo opportuno sarebbero poi stati fatti germogliare con abbondantissimo frutto dai successivi maestri. Avendo adoperato tale modo di filosofare anche nel confutare gli errori, egli ottenne così di avere debellato da solo tutti gli errori dei tempi passati e di avere fornito potentissime armi per mettere in rotta coloro che con perpetuo avvicendarsi sarebbero sorti dopo di lui. Inoltre egli distinse accuratamente, come si conviene, la ragione dalla fede; ma stringendo l’una e l’altra in amichevole consorzio, di ambedue conservò interi i diritti, e intatta la dignità, in modo che la ragione, portata al sommo della sua grandezza sulle ali di San Tommaso, quasi dispera di salire più alto; e la fede difficilmente può ripromettersi dalla ragione aiuti maggiori e più potenti di quelli che ormai ha ottenuto grazie a San Tommaso.

Per queste ragioni, specialmente nelle passate età, uomini dottissimi e celebratissimi per dottrina teologica e filosofica, ricercati con somma cura gl’immortali volumi di Tommaso, si diedero tutti all’angelica sapienza di lui, non tanto per averne ornamento e cultura, quanto per esserne sostanzialmente nutriti. È cosa nota che quasi tutti i fondatori e i legislatori degli Ordini religiosi hanno ingiunto ai loro seguaci di studiare le dottrine di San Tommaso, e di attenersi ad esse con la maggiore fedeltà, provvedendo che a nessuno sia lecito impunemente dipartirsi anche di poco dalle orme di tanto Dottore. Per non dire dell’Ordine domenicano, il quale come per suo proprio diritto si onora di questo sommo maestro, sono tenuti da tale legge anche i Benedettini, i Carmelitani, gli Agostiniani, la Compagnia di Gesù e parecchi altri, come attestano i loro specifici statuti.

E qui con grande diletto il pensiero corre a quelle celebratissime Accademie e Scuole che un tempo fiorirono in Europa, quelle, cioè, di Parigi, di Salamanca, di Alcalà, di Douai, di Tolosa, di Lovanio, di Padova, di Bologna, di Napoli, di Coimbra, e moltissime altre. Nessuno ignora che il nome di tali Accademie è venuto crescendo in qualche modo con il tempo, e che negli affari di maggior momento i loro responsi ebbero presso tutti grandissimo peso. Ora non è men certo che in quelle grandi sedi dell’umano sapere, Tommaso aveva un posto come il principe nel proprio regno, e che gli animi di tutti, vuoi maestri, vuoi discepoli, si ritrovavano pienamente , con meraviglioso accordo, nel magistero e nell’autorità del solo Aquinate.

Ma, quel che più conta, i Romani Pontefici Nostri Predecessori esaltarono con singolari manifestazioni di lodi e con amplissime testimonianze la sapienza di Tommaso d’Aquino. Infatti Clemente VI , Nicolò V , Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente XII , affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri, infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi studiate con tutte le forze di ampliarla” . Successivamente Innocenzo XII , nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV , nel Collegio Dionisiano presso Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.

Ma a questi giudizi dei Sommi Pontefici su Tommaso d’Aquino mette come una corona la testimonianza d’Innocenzo VI: “La dottrina di questo (di Tommaso) possiede sopra tutte le altre, eccettuata la canonica, la proprietà delle parole, la forma del dire, la verità delle sentenze; così che non è mai capitato che abbiano deviato dalla verità quelli che l’hanno professata, e sempre sono stati sospetti circa la verità quelli che l’hanno impugnata” .

Gli stessi Concili Ecumenici, nei quali risplende il fiore della sapienza raccoltovi da tutto l’universo, si adoperarono per onorare in modo singolare Tommaso d’Aquino. Nei Concili di Lione, di Vienna, di Firenze e del Vaticano si direbbe che Tommaso abbia assistito e quasi presieduto alle deliberazioni ed ai decreti dei Padri, combattendo con invincibile valore e con lietissimo successo contro gli errori dei Greci, degli eretici e dei razionalisti. Ma somma lode e tutta propria di Tommaso, concessa a nessun altro dottore cattolico, è che i Padri del Concilio Tridentino hanno voluto che nel mezzo dell’aula delle adunanze, insieme con i codici della Sacra Scrittura e con i decreti dei Romani Pontefici, stesse aperta, sull’altare, anche la Somma di Tommaso d’Aquino per derivarne consigli, ragioni e sentenze.

Infine parve riservata ad un uomo così incomparabile anche la palma di strappare di bocca agli stessi nemici del nome cattolico ossequi, elogi ed ammirazione. Infatti, è cosa nota che fra i capi delle fazioni eretiche non mancarono coloro che confessarono pubblicamente che, tolta una volta di mezzo la dottrina di Tommaso d’Aquino, “essi potrebbero facilmente affrontare tutti i dottori cattolici, vincerli, ed annientare la Chiesa”. Vana speranza senza dubbio; ma non vana testimonianza.

Per questi fatti e per queste cause, Venerabili Fratelli, ogni volta in cui volgiamo lo sguardo alla bontà, alla forza ed ai preclari vantaggi del suo insegnamenti filosofico, che i nostri maggiori ebbero in particolare amore, giudichiamo essersi sconsigliatamente commesso che non sempre né ovunque fosse al medesimo conservato l’onore dovuto, tanto più che era ben noto come una lunga esperienza, il giudizio di uomini sommi e, quello che vale soprattutto, il suffragio della Chiesa, avevano favorito la filosofia scolastica. Allora, in luogo dell’antica dottrina subentrò qua e là una nuova scuola filosofica, dalla quale non si colsero quei frutti preziosi e salutari che la Chiesa e la stessa società civile avrebbero preferibilmente desiderato. Infatti agli sforzi nei Novatori del secolo XVI piacque filosofare senza il menomo riguardo alla fede, avendo chiesto ed essendosi data scambievolmente la facoltà di escogitare tutto ciò che piacesse e fosse gradito. Quindi, com’era ben naturale, le varie maniere di filosofare si moltiplicarono più del dovuto, e sorsero teorie diverse e fra sé contrastanti, anche intorno a quelle cose che sono fondamentali nelle cognizioni umane. Dalla molteplicità delle opinioni si passò assai spesso alle incertezze e ai dubbi: dal dubbio, poi, quanto sia facile all’uomo precipitare nell’errore, non v’è chi non lo veda. E poiché gli uomini si lasciano trascinare dall’esempio, anche le menti dei filosofi cattolici sembrarono invase dall’amore della novità: ond’è che, trascurato il patrimonio dell’antica sapienza, preferirono tentare cose nuove piuttosto che aumentare e perfezionare le antiche con le nuove, e questo certamente con poco saggio consiglio e non senza detrimento delle scienze. Infatti questa molteplice forma di dottrina, appoggiandosi sull’autorità e sull’arbitrio dei singoli maestri, ha un fondamento malfermo, e per tale motivo non costituisce una filosofia certa, stabile e robusta come l’antica, ma vacillante e leggera. La quale, se per caso le accada di sentirsi qualche volta poco idonea a sostenere l’impeto dei nemici, dovrà riconoscerne in se stessa la causa e la colpa. Dicendo ciò non disapproviamo certamente quei dotti e solerti uomini i quali volgono la loro operosità, la loro erudizione e la dovizia dei nuovi ritrovati allo studio della filosofia, giacché sappiamo bene che questo conduce all’incremento e al progresso della scienza. Ma conviene evitare con somma cura che in tale erudizione ed operosità s’impieghi tutto l’impegno, o la parte principale di esso. Non altrimenti si deve giudicare della sacra Teologia, la quale si giovi pure e s’illustri con l’aiuto di svariata erudizione, tuttavia è assolutamente necessario che essa sia trattata nel modo nobile usato dagli Scolastici, affinché, riunite in essa le forze della ragione e della rivelazione, continui ad essere “il propugnacolo invincibile della fede”.

Con ottima decisione dunque non pochi cultori delle scienze filosofiche, avendo recentemente applicato l’animo a restaurare con profitto la filosofia, attesero ed attendono a far rivivere e ritornare nel primitivo splendore la dottrina di San Tommaso d’Aquino. Abbiamo saputo con grande letizia dell’animo Nostro, come molti dell’Ordine Vostro si siano con pari desiderio messi alacremente nella stessa via. E mentre altamente di ciò li lodiamo, li confortiamo altresì a rimanere fermi nella decisione intrapresa; vogliamo poi che tutti gli altri sappiano non esservi per Noi cosa più cara e più desiderabile di questa: che tutti offriate largamente e copiosamente alla gioventù l’acqua di quei rivi purissimi di sapienza, che con perenne abbondantissima vena scorrono dall’Angelico Dottore.

Molte poi sono le ragioni che Ci muovono a volere questo. Innanzi tutto in questi nostri tempi, essendo in uso combattere la fede cristiana con le arti e con le astuzie di una scienza fallace, è necessario che tutti i giovani, e particolarmente quelli che crescono sperando nella Chiesa, siano nutriti di una dottrina sostanziosa e robusta, affinché vigorosi e ben preparati si abituino tempestivamente a trattare valorosamente e sapientemente la causa della religione e siano “sempre pronti, secondo gli ammonimenti apostolici, a soddisfare chiunque domanda ragione di quella speranza che è in noi” (1Pt 3,15), e “ad esortare nella sana dottrina ed a convincere coloro che la contraddicono” (Tt 1,9). Inoltre, molti di quelli che, inimicatisi con la fede, hanno in odio gl’insegnamenti cattolici, dichiarano di avere a maestro e duce la sola ragione. A sanare costoro ed a riportarli in grazia con la fede cattolica, riteniamo che, dopo il soprannaturale aiuto di Dio, non vi sia mezzo più opportuno della solida dottrina dei Padri e degli Scolastici, i quali dimostrano i saldissimi fondamenti della fede, la sua divina origine, l’inconcussa verità, gli argomenti che la sorreggono, i benefici arrecati al genere umano e la sua perfetta armonia con la ragione, apportando tanta evidenza e tanta forza, quanta è sovrabbondantemente sufficiente a piegare gli animi anche più ritrosi ed ostinati.

Anche la società familiare e quella civile, le quali a causa di perverse ed esiziali dottrine si trovano esposte, come tutti vediamo, al più grave pericolo, se ne starebbero certamente più tranquille e più sicure se nelle Accademie e nelle scuole s’insegnasse una dottrina più sana e più conforme al magistero della Chiesa, quale appunto è contenuta nei volumi di Tommaso d’Aquino. Infatti, quello che Tommaso insegna circa la vera natura della libertà, che va oggidì tramutandosi in licenza, circa la divina origine di ogni autorità, circa le leggi e la loro forza, circa la paterna e giusta sovranità dei Principi, circa l’obbedienza dovuta ai più alti poteri, circa la mutua carità fra gli uomini, queste ed altre simili dottrine hanno una forza grandissima e invincibile per rovesciare quei principi del nuovo diritto, che si conoscono perniciosi alla tranquillità dell’ordine sociale ed alla pubblica salute.

Infine, tutte le umane discipline debbono concepire una speranza di avanzamento e ripromettersi moltissimi aiuti da questo rinnovamento della filosofia, che Noi Ci siamo proposti. Infatti le scienze e le arti liberali trassero sempre dalla filosofia, come da scienza moderatrice, la saggia norma e il corretto modo di procedere; dalla medesima, come dal fonte universale della vita, derivarono lo spirito che le alimenta. Dal fatto e dalla esperienza è continuamente provato che sommamente fiorirono le arti liberali quando si mantenne incolume l’onore, e fu saggio il giudizio della filosofia; per contro giacquero neglette e pressoché dimenticate quando la filosofia volse in basso, e fu confusa da errori e da inezie. Pertanto, anche le scienze fisiche che al presente sono in gran pregio, e che per tante e così splendide invenzioni suscitano ovunque singolare ammirazione di sé, non solo non patiranno alcun detrimento dalla recuperata filosofia degli antichi, ma ne saranno anzi molto avvalorate. Infatti, per studiarle con frutto e per accrescerle non bastano la sola osservazione dei fatti e la sola considerazione della natura, ma quando i fatti siano certi è necessario sollevarsi più alto e operare con solerzia per conoscere la natura della cose, per investigarne le leggi a cui obbediscono ed i principi dai quali nascono il loro ordine, l’unità nella varietà e la mutua affinità nella diversità. A tali ricerche la filosofia scolastica, se saggiamente insegnata, potrà fornire meravigliosamente forza e luce.

A questo proposito giova pure avvertire che con somma ingiustizia si accusa la medesima filosofia di essere contraria al progresso ed all’incremento delle scienze naturali. Infatti gli Scolastici, seguendo il pensiero dei Santi Padri, avendo spesso insegnato nell’Antropologia che l’intelletto umano giunge alla conoscenza delle cose incorporee e spirituali non altrimenti che dalle cose materiali, compresero di per sé che non esiste per il filosofo cosa più utile che investigare con diligenza i segreti della natura e impegnarsi lungamente nello studio di essa. Il che essi confermarono anche con il proprio esempio, in quanto San Tommaso, il Beato Alberto Magno e gli altri esponenti della Scolastica non si diedero soltanto alla speculazione della filosofia, ma si occuparono grandemente anche della conoscenza delle cose naturali. Anzi, non sono poche in questo settore le loro affermazioni e le loro sentenze che i maestri moderni approvano e sostengono essere conformi alla verità. Inoltre, in questa stessa nostra epoca, molti insigni professori delle scienze fisiche pubblicamente ed apertamente attestano che fra le conclusioni certe ed accettate della fisica moderna ed i principi filosofici della Scuola non si trova alcuna vera e reale contrapposizione.

Noi dunque, mentre dichiariamo che si deve accogliere con aperto e grato animo tutto ciò che sapientemente è stato detto e che è stato inventato ed escogitato utilmente da chicchessia, esortiamo Voi tutti, Venerabili Fratelli, a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso e a propagarla il più largamente possibile, a tutela e ad onore della fede cattolica, per il bene della società, e ad incremento di tutte le scienze. Diciamo la dottrina di San Tommaso. Infatti, se qualche cosa fu cercata dagli Scolastici con eccessiva semplicità o insegnata con poca ponderazione; se ve n’è qualche altra che non si accordi pienamente con gl’insegnamenti certi dei tempi più recenti, o infine se ve n’è qualcuna che in qualunque modo non merita di essere accettata, non intendiamo che sia proposta all’età presente, perché la segua.

Per il resto, i maestri scelti da Voi con saggio discernimento cerchino di far penetrare negli animi dei discepoli la dottrina di San Tommaso d’Aquino, e mettano in luce lo spessore e l’eccellenza di essa a preferenza di tutte le altre. Le Accademie da Voi fondate o che si fonderanno la illustrino e la difendano, e se ne valgano per confutare gli errori correnti. Affinché poi non si abbia ad attingere la dottrina supposta invece della genuina, né la corrotta invece della pura, fate in modo che la sapienza di San Tommaso sia prelevata dalle sue proprie fonti, o per lo meno da quei rivi che, usciti dallo stesso fonte, scorrono ancora puri e limpidissimi, secondo il sicuro e concorde giudizio dei dotti. Da quei ruscelli, poi, che pur si dicono sgorgati di là, ma di fatto crebbero da acque estranee e per niente salubri, procurate di tener lontani gli animi dei giovani.

Sappiamo però che i Nostri sforzi saranno vani, se le comuni iniziative, Venerabili Fratelli, non saranno favorite da Colui che “Dio delle scienze” è chiamato nelle divine Scritture (1Sam 2,3), dalle quali siamo pure ammoniti che ci vengono “dall’alto ogni buona donazione ed ogni dono perfetto, discendendo dal Padre dei lumi” (Gc 1,17). E di nuovo: “Se qualcuno di voi manca di sapienza, la chieda a Dio, il quale dà a tutti liberamente e non rinfaccia; e gli sarà donata” (Gc 1,5). Dunque, anche in questo prendiamo ad esempio il Dottore Angelico che non si mise mai ad insegnare o a scrivere, se non dopo essersi propiziato Dio con le preghiere e che francamente confessò che aveva acquistato tutto ciò che sapeva non tanto attraverso il proprio studio e la propria fatica, quanto per favore divino. Pertanto, con umile e concorde preghiera supplichiamo tutti insieme Iddio, affinché effonda sui figli della Chiesa lo spirito della scienza e dell’intelletto ed apra loro la capacità di intendere la sapienza.

Al fine di ottenere più abbondanti i frutti della divina bontà, interponete presso Dio il patrocinio efficacissimo della Beata Vergine Maria, la quale è chiamata Sede della sapienza, e insieme usate ad intercessori il Beato Giuseppe, Sposo purissimo della Vergine, ed i sommi Apostoli Pietro e Paolo, i quali con la verità rinnovarono il mondo corrotto dall’impuro contagio degli errori e lo riempirono della luce della celeste sapienza.

Infine, confortati dalla speranza del divino soccorso, e confidando nella Vostra pastorale sollecitudine, a Voi, Venerabili Fratelli, a tutto il Clero ed al popolo affidato a ciascuno in particolare, quale auspicio dei celesti favori e come pegno della Nostra singolare benevolenza, impartiamo con tutto l’affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 agosto 1879, anno secondo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII


Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” XIX

$
0
0

cuoco-saggio-storico-sulla-rivoluzione-napoletana-del-1799-con-prefazione-e-note-di-ottolini

XLVII

DISFATTA DI MARIGLIANO

Ma chi potea smuovere il ministro della guerra dall’idea di difendere la repubblica nella centrale? Egli volle anche difenderla in un modo tutto suo. Non impiegò se non picciolissime forze, le quali, se prima sarebbero state bastanti ad impedire che l’insorgenza nascesse, non erano poi sufficienti a combatterla.

Egli avea fatto credere al governo ed alla nazione che potea disporre di ottomila uomini di truppe di linea; ma questa colonna, colla quale si avrebbe potuto formare un campo per difendere Napoli, non si vide mai intera. Molti credettero che si avrebbe potuto riunire gran numero di patrioti, se si dichiarasse la patria in pericolo; ma, sia timore, sia soverchia confidenza, questo linguaggio franco non si volle mai adottare dal governo, e solo si ridusse ad ordinare che ad un tiro designato di cannone tutti della milizia nazionale dovessero condursi ai loro posti, e gli altri del popolo ritirarsi nelle loro case, né uscirne, sotto pena della vita, prima del nuovo segno. Misura piú allarmante di qualunque dichiarazione di pericolo, poiché, non dichiarandolo, lasciava libero il capo alla fantasia alterata d’immaginarlo piú grande di quello che era; misura che non dovea usarsi se non negli estremi casi e che, essendosi usata imprudentemente la prima volta, quando bisogno non vi era, fece sí che si fosse usata quasi che inutilmente, quando poi vi fu bisogno (61). Intanto le infinitesimali colonne spedite da Manthoné furono ad una ad una distrutte.

Quella comandata da Spanò fu battuta a Monteforte; l’altra, comandata da Belpulsi, che dovea esser per lo meno di mille e duecento uomini, vanguardia di un corpo piú numeroso, e che poi si trovò essere in tutto di duecentocinquanta, fu costretta a retrocedere da Marigliano, ove non potea piú reggere in faccia a tutta la forza di Ruffo. La sola colonna di Schipani resse nella Torre dell’Annunziata, perché era composta di numero maggiore, perché non poteva esser circondata se prima non si guadagnava Marigliano e perché finalmente era sotto la protezione delle barche cannoniere, le quali allontanavano l’inimico dalla strada che va lungo il mare. La nostra marina continuò a ben meritare della patria e, finché vi rimase il minimo legno, tenne sempre lontani gl’inglesi. E chi mai demeritò della patria, all’infuori di coloro che alla patria non appartenevano? Ma finalmente Ruffo, padrone di Nola e di Marigliano, si avanzò da quella via verso Portici, tagliando cosí la ritirata alla colonna di Schipani e togliendole ogni comunicazione con Napoli. Tra Portici e Napoli vi era il picciol forte di Vigliena, difeso da pochi patrioti; e, ad onta delle forze infinitamente superiori di Ruffo, sostennero oltre ogni credere il forte: quando furono ridotti alla necessitá di cederlo, risolverono di farlo saltar per aria. L’autore di questa ardita risoluzione fu Martelli.

Non minor valore dimostrò la colonna di Schipani: si aprí per sei miglia la strada in mezzo ai nemici, prese de’ cannoni, giunse a Portici. Le nuove che si aveano di Napoli, la quale si credeva giá presa, indussero alcuni vili a gridar «viva il re» e costrinsero gli altri a rendersi prigionieri di guerra.

(61) La prima volta si radunarono moltissimi patrioti; tutta la guardia nazionale fu al suo posto. Furono tenuti a disagio una notte; e la mattina furon congedati senza che avessero ottenuto neanche un ringraziamento, senza poter neanche comprendere la cagione dell’allarme. La seconda volta la credettero o frivola o finta come la prima; e questo fece perdere molti bravi patrioti, i quali si ritrovarono rinchiusi nelle loro case, allorché avrebbero potuto esser ne’ castelli a difenderli.

XLVIII

CAPITOLAZIONE

Ma Napoli non era presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte infelice nel dí 13 giugno al ponte della Maddalena, e furono costretti a ritirarsi nei castelli. Il governo si era giá ritirato nel Castello nuovo. Il solo castello del Carmine, il quale altro non è che una batteria di mare e che per la via di terra non si può difendere, era caduto nelle mani degl’insorgenti.

E quale castello di Napoli, all’infuori di Sant’Elmo si può difendere? Il partito migliore sarebbe stato quello di abbandonar la cittá, e, fatta una colonna di patrioti, che allora forse per la necessitá sarebbe divenuta numerosissima, guadagnar Capua per la via di Aversa o di Pozzuoli.

Questo era stato il progetto di Girardon, che comandava in Capua le poche forze francesi rimaste nel territorio della repubblica napolitana. Se questo progetto fosse stato eseguito, Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro di stragi, d’incendi, di scelleraggini e di crudeltá; ed ora non piangeremmo la perdita di tanti cittadini.

Durante l’assedio dei castelli il popolo napolitano, unito agl’insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere: incrudelí financo contro le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degl’infelici, parte gittati vivi e parte moribondi. Tutte queste scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo ed alla presenza degl’inglesi.

I due castelli Nuovo e dell’Uovo, difesi dai patrioti, fecero intanto per qualche giorno la piú vigorosa resistenza. Se i patrioti avessero avuto un poco piú di forza, avrebbero potuto riguadagnar Napoli: ma essi non erano che appena cinquecento uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava in Sant’Elmo, non permise piú ai suoi francesi di unirsi ai nostri.

Si sono tanto ammirati i trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero anche dippiú: seppero capitolare coll’inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napolitana.

La capitolazione fu sottoscritta nella fine di giugno. Si promise l’amnistia; si diede a ciascuno la libertá di partire o di restare, come piú gli piaceva; e tanto a coloro che partissero quanto a coloro che restassero si promise la sicurezza delle persone e degli averi. La capitolazione fu sottoscritta da Ruffo, vicario generale del re di Napoli; da Micheroux, generale delle sue armi; dall’ammiraglio russo; dal comandante delle forze turche; da Food, comandante i legni inglesi che si trovarono all’azione; e da Mégeant, il quale, in nome della repubblica francese, entrò garante della napolitana. Furon dati per parte di Ruffo degli ostaggi per la sicurezza dell’esecuzione del trattato, e questi furon consegnati a Mégeant (62).

Per eseguire il trattato fu stabilito un armistizio, ma nell’armistizio si preparò il tradimento. Appena che la regina seppe l’occupazione di Napoli, inviò da Palermo milady Hamilton a raggiungere Nelson. – Voglio prima perdere – avea detto la regina ad Hamilton – tutti e due i regni che avvilirmi a capitolar coi ribelli. – Che Hamilton si prestasse a servir la regina, era cosa non insolita; essa finalmente non disponeva che dell’onor suo: ma che Nelson, il quale avea trovata la capitolazione giá sottoscritta, prostituisse ad Hamilton l’onor suo, l’onor delle sue armi, l’onor della sua nazione; questo è ciò che il mondo non aspettava, e che il governo e la nazione inglese non dovea soffrire (63).

Nelson col resto della sua flotta giunse nella rada di Napoli durante l’armistizio, e dichiarò che un trattato fatto senza di lui, che era ammiraglio in capo, non dovea esser valido; quasi che l’onorato e valoroso Food, che era persona legittima a ricevere i castelli, non lo fosse poi ad osservare le condizioni della resa; quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte ed illegittima per l’altra, e, non volendo mantener le promesse fatte alla repubblica napolitana, non fosse necessario restituire ai suoi agenti tutto ciò che per tali promesse aveano giá consegnato. Acton diceva e faceva dire al re, che era a bordo dei vascelli inglesi, circondato però dalle creature di Carolina: che «un re non capitola mai coi suoi ribelli»(64). Egli infatti era padrone di non capitolare; ma si poteva domandare se mai, quando un re abbia capitolato, debba o no mantenere la sua parola!

Intanto i patrioti per Napoli erano arrestati; la partenza di quei che eransi imbarcati si differiva; Mégeant che avea gli ostaggi nelle sue mani, Mégeant che avea ancora forza per resistere, che poteva e doveva essere il garante della capitolazione, Mégeant dormiva. Nel tempo dell’armistizio permise che i nemici erigessero le batterie sotto il suo forte. Fu attaccato, fu battuto, non fece una sortita, appena sparò un cannone, fu vinto, si rese.

Segnò una capitolazione vergognosissima al nome francese. Quando dovea rimaner solo per ricoprirsi di obbrobrio, perché non capitolò insieme cogli altri forti? Restituí gli ostaggi, ad onta che vedesse i patrioti non ancora partiti e ad onta che resistesse ancora Capua, ove gli ostaggi si poteano conservare. Promise di consegnare i patrioti che erano in Sant’Elmo, e li consegnò. Fu visto correre tra le file dei suoi soldati, e riconoscere ed indicare qualche infelice che si era nascosto alle ricerche, travestito tra quei bravi francesi, coi quali avea sparso il suo sangue. Neanche Matera, antico ufficiale francese, fu risparmiato, ad onta dell’onor nazionale che dovea salvarlo e del diritto di tutte le genti. Fu imbarcato colla sua truppa, partí solo colla sua truppa, e non domandò neanche dei napolitani.

E vi è taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che Mégeant sia un traditore? E quest’uomo intanto ancora «disonora, portandolo, l’uniforme francese», che è l’uniforme della gloria e dell’onore? (65). Bravi ed onorati militari destinati a giudicarlo, avvertite: il giudizio, che voi pronuncerete sopra di lui, sará il giudizio che cinque milioni di uomini pronunzieranno sopra di voi!

(62) Ecco la capitolazione:
«Articolo I. Il castel Nuovo ed il castel dell’Ovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie e di quelle dei suoi alleati, il re d’Inghilterra, l’imperadore di tutte le Russie e la Porta ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti di ogni specie, esistenti nei magazzeni, di cui si formerá inventario dai commissari rispettivi dopo la firma della presente capitolazione.
«II. Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti fino che i bastimenti, di cui si parlerá qui appresso, destinati a trasportar gl’individui che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.
«III. Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido.
«IV. Le persone e le proprietá mobili ed immobili di tutti gl’individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.
«V. Tutti gli suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra i bastimenti parlamentari, che saranno loro presentati per condursi a Tolone, o di restare in Napoli, senza essere inquietati né essi né le loro famiglie.
«VI. Le condizioni contenute nella presente capitolazione son comuni a tutte le persone dei due sessi rinchiuse nei forti.
«VII. Le stesse condizioni avran luogo riguardo a tutt’i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie e quelle dei suoi alleati nei diversi combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco dei forti.
«VIII. I signori arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon ed il vescovo di Avellino saranno rimessi al comandante del forte Sant’Elmo, ove resteranno in ostaggio fino a che sia assicurato l’arrivo a Tolone degl’individui che vi si mandano.
«IX. Tutti gli altri ostaggi e prigionieri di Stato, rinchiusi nei due forti, saranno rimessi in libertá subito dopo la firma della presente capitolazione.
«X. Tutti gli articoli della presente capitolazione non potranno eseguirsi se non dopo che saranno stati interamente approvati dal comandante del forte Sant’Elmo».
(63) Un segretario di Nelson scrivea ad un suo amico a Maone: «Noi commettiamo le piú orride scelleraggini per rimettere sul trono il piú stupido dei re». Io ho del ribrezzo in riferir queste parole, che pure ho letto io stesso. Oh! come gl’inglesi sanno compatire le loro vittime!
(64) Espressione di un dispaccio.
(65) Espressione del primo console in circostanze quasi simili.

XLIX

PERSECUZIONE DE’ REPUBBLICANI

Dopo la partenza di Mégeant, si spiegò tutto l’orrore del destino che minacciava i repubblicani. Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma giá da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli abiti repubblicani ai munícipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. – Egli è un furbo – diceva Speziale: – è bene che muoia. – Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest’ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: – Scannatelo – egli rispose.

Ma la Giunta che si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa cosí la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni.

Allora fu che Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza del re. Ma qual clemenza, qual generositá sperare da chi non osservava un trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che debbono per legge: cosí sotto l’apparenza del capriccio nascondono la viltá, e promettono piú di quel che debbono per non osservare quello che hanno promesso. Rendasi giustizia a Paolo primo. Egli conobbe quando importasse che i popoli prestassero fede alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della flotta inglese compresero quanta infamia si sarebbe rovesciata sulla loro nazione, giacché il loro ammiraglio era il vero, l’unico autore di tanta violazione del diritto delle genti; e si misero in aperta sedizione.

La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed invitata a formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser posti in libertá, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che di un fatto avvenuto dopo l’arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non potea chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi avean professata democrazia, perché democrazia professavano i vincitori: se i vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguite idee diverse. L’opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non era volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto ubbidire al vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni e le antiche idee, è lo stesso che voler fomentare l’insubordinazione, e coll’insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la distruzione di tutta l’Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietá l’affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l’antico sovrano? La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria, e non giá femminilmente dispettosa la disfatta.

I princípi della Giunta eran quelli della ragione, e non giá della corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta una volta, ne volesse l’osservanza: difatti era inutile coprirsi di obbrobrio per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina, che non avrebbe voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non dispiaceva che si fosse fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni, che furon date alla Giunta, da persone degne di fede si assicura che furono scritte da Castelcicala. In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali avean seguíta la repubblica: bastava che taluno avesse portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta, ammetteva che il re era partito; ma, per averne una ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto sempre presente in Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di conquista, quando si trattava di distruggere tutt’i privilegi della Cittá e del Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l’Europa «privilegi», mentre dovrebbero esser diritti, perché fondati sulle promesse dei re; ma, quando si trattava di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai stato perduto (66). Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla.

Nelson, unico autore dell’infrazione del trattato, quell’istesso Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai, partendo o ritornando, ebbe mai la minima cura dell’onor di lui: giacché, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti gl’infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l’ultimo respiro. Non s’intese mai da lui una sola parola di pietá.

Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d’infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell’acqua, per gl’insetti, sotto la piú ardente canicola, nell’ardente clima di Napoli. Egli avea degl’infelici ai ferri finanche nel suo legno.

Con tali princípi, la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto, delle noiose cure che la Giunta si prendeva per la salute dell’umanitá. Gli uomini dabbene, che la componevano, furono allontanati: non rimase altro che Fiore, il quale da piccioli princípi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era ritornato in Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò Guidobaldi, seco menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori, che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre siciliani: Damiani, Sambuti ed, il piú scellerato di tutti, Speziale.

La prima operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un carnefice. Al numero immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio, sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato. La storia ci offre mille esempi di regni perduti e poscia colle armi ricuperati: in nessuno però si ritrovano eguali esempi di tale stolta ferocia. Silla fece morire centomila romani non per altro che per la sua volontá: Augusto depose la sua ferocia colle armi.

Un altro re di Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò egualmente coi suoi sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li fece tutti assassinare. Ma, mentre commetteva il piú orribile tradimento di cui ci parli la storia, mostrò almeno di rispettare l’apparenza della santitá dei trattati.

Mostrarono almeno gli alleati, che li avean garantiti, di reclamarne l’esecuzione. Il nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa scelleraggine le calamitá, che poco dopo oppressero e finalmente distrussero la famiglia aragonese in Napoli.

La vera gloria di un vincitore è quella di esser clemente: il voler distruggere i suoi nemici per la sola ragione di esser piú forte è facile, e nulla ha con sé che il piú vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida e forte è simile ad un fulmine che sbalordisce; ma porta seco qualche carattere di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il gustare a sorsi tutto il calice della vendetta, il prolungarla al di lá del pericolo e dell’ira del momento, che sola può renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer la ferocia del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò prostituendo le formole piú sacre della giustizia; ecco ciò che non è né utile né giusto né nobile. La storia ha dato un luogo distinto tra i tiranni ai geni cupi e lentamente crudeli di Tiberio e di Filippo secondo, ai fatti dei quali la posteritá aggiungerá gli orrori commessi in Napoli.

Si conobbe finalmente la legge di maestá, che dovea esser di norma alla Giunta nei suoi giudizi; legge terribile, emanata dopo il fatto e da cui neanche gl’innocenti si potevan salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti raccogliere dalle voci piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze pronunziate dalla Giunta, poiché è da sapersi che questa legge, colla quale si sono giudicati quasi trentamila individui, non è stata pubblicata giammai.

«Sono dichiarati rei di lesa maestá in primo capo (e perciò degni di morte) tutti coloro che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per «primari impieghi» s’intendevano le cariche della rappresentanza nazionale, del direttorio esecutivo, dei generali, dell’alta commissione militare, del tribunale rivoluzionario (67). Egualmente erano rei «tutti coloro che fossero cospiratori prima della venuta dei francesi». Sotto questo nome andavano compresi tutti coloro che aveano occupato Sant’Elmo e tutti coloro che erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad onta che la cessione di Capua fosse stata fatta da autoritá legittima; ad onta che tra i privilegi della cittá di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse quello che, giunto il nemico a Capua, la cittá di Napoli potesse, senza taccia di ribellione, prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il nemico; ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le province del Regno a settentrione della linea di demarcazione, un numero infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che intanto aveano la cittadinanza in quelle province, fossero divenuti legittimamente cittadini francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa di Capua, in Napoli fosse cessata ogni autoritá legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale, nessuna forza pubblica; tutto era nell’anarchia ed a ciascuno nell’anarchia era permesso di salvar come meglio poteva la propria vita.

Intanto, ad onta di tutto ciò, furon dichiarati rei «tutti coloro che nelle due anarchie avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i quali non avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra la licenza dell’anarchia li assassinasse.

«Tutti coloro che avevano continuato a battersi in faccia alle armi del re, comandate dal cardinal Ruffo, o a vista del re, che stava a bordo degl’inglesi». Questo articolo avrebbe portate alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali eranvi tutti coloro che si trovavan rifugiati a Sant’Elmo, i quali, neanche volendo, poteano piú separarsi dai francesi.

«Tutti coloro che avessero assistito all’innalzamento dell’albero nella piazza dello Spirito santo (perché in quell’occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o alla festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese agl’insorgenti».

«Tutti coloro che durante il tempo della repubblica aveano, o predicando o scrivendo, offeso il re o l’augusta sua famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di morte chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato mosso da leggerezza, nol curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione, gli siam grati; e, se da malizia, lo perdoniamo, a meno che dalle parole non ne possa nascere un attentato piú grave». Una legge posteriore a questa condannò a morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto in un’epoca, nella quale forse nessuno poteva render ragione di ciò che avea fatto. Si vide allora che non bastava non aver offese le leggi per esser sicuro. «Finalmente tutti coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietá verso la sedicente caduta repubblica». Quest’ultimo comprendeva tutti.

Per questo articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher, quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non poté reggere all’idea del massacro, dell’incendio e della ruina totale di Napoli, che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte colui che per ventiquattr’ore l’ha veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata senza delitto!

«Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un’adunanza patriotica è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un governo democratico, è un’azione indifferente), pure Sua Maestá, per la sua innata clemenza, li condanna all’esilio in vita colla perdita de’ beni, se abbiano prestato il giuramento; quelli che non l’hanno prestato, sono condannati a quindici anni di esilio». «Finalmente coloro, i quali avessero avute cariche subalterne e non avessero altri delitti, saranno riserbati all’indulto che Sua Maestá concederá». Questo indulto fu immaginato per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle carceri coloro che non aveano alcun delitto. – Mio figlio è innocente – diceva una sventurata madre a Speziale. – Ebbene – rispondeva costui, – se è innocente, avrá l’onore di uscir l’ultimo. – Il secondo oggetto era quello di condannare almeno nell’opinione pubblica, con un perdono, anche coloro che per la loro innocenza doveano essere assoluti.

Non avea forse ragione la regina, quando, se è vero ciò che si dice, si opponeva a questa prostituzione di giudizi?

Io vorrei che si esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro che dirigevan la Giunta, non colle massime della ragione e della giustizia naturale, non colle massime della stessa giustizia civile, poiché neanche con queste si troverebbe ragion di condannar come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad una forza legittima e superiore, alla quale era stato costretto a cedere lo stesso re; ma colle massime dell’interesse del re. Io non dirò che la giustizia è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l’interesse del re è la norma della giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti (io dico «molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano dal credere tutt’i membri della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha altra colpa che quella di non esser stato abbastanza forte contro i tempi); chi potrebbe, dico, assolver molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche tradito il re?

Quando Silla fece scannare seimila sanniti, disse al senato, allarmato da’ gemiti e dalle grida di quest’infelici: – Ponete mente agli affari: son pochi sediziosetti che si correggono per ordine mio. – Silla era piú grande e forse anche men crudele.

Se coloro che consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio della saviezza e gli avessero fatto scrivere un editto, in cui si fosse ai popoli parlato cosí: «Coloro i quali han seguíto il partito della repubblica, ora che questo partito è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione per la loro salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore, avrebbero compreso che questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato la causa di tutt’i loro traviamenti. Obblio tutto. Possano cessare tutt’i partiti e riunirsi a me per il vero bene della patria! Possa questa generositá far loro comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le tante vicende e le tante sventure sofferte renderli piú saggi! Se, ad onta di tutto ciò, vi è taluno a cui il nuovo ordine di cose non piaccia, siagli permesso partire. Ma, o che parta o che resti, i suoi beni, la sua persona, la sua famiglia saranno intatte, ed in me non troverá che un padre»; in quel momento,… momento forsi di disinganno… un proclama di questa natura avrebbe riuniti tutti gli animi. La nazione non sarebbe stata distrutta da una guerra civile;… l’amor del popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del Regno… Se oggi il regno di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii intestini, quasi sul punto di sciogliersi, perché il re non dice ai suoi ministri e suoi consiglieri: – Voi siete stati tanti traditori! Voi colpate alla mia rovina! -?

L’esecuzione di questa legge spaventò finanche gli stessi carnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivoltare il popolo. La stessa crudeltá rese indispensabile la moderazione. Vennero da Palermo le note de’ proscritti; ma rimase la legge, affinché si potesse loro apporre un delitto. Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte dovea morire, ancorché il preteso reo fosse minore.

Tutti li mezzi si adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere l’innocenza. Il nome del re dispensò a tutte le formole del processo, quasi che si potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia. Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni non si ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si sbigottivano, talora anche si arrestavano; il tempo intanto scorreva, e l’infelice rimaneva senza difesa. Non confronto tra i testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di scritture si ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillitá di anni potevan salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte giovinetti di sedici anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici. Non solo tutt’i mezzi della difesa erano tolti, ma erano spenti tutt’i sensi di umanitá.

Se la Giunta, per invincibile evidenza d’innocenza, è stata talora quasi costretta ad assolvere suo malgrado un infelice, si è veduto da Palermo rimproverarsi di un tal atto di giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o assoluto o condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato Muscari per la repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse ritrovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la patria, uno dei migliori magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del re, fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di condannare Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime, e da Palermo fu condannato ad un esilio perpetuo. Michelangiolo Novi era stato condannato all’esilio; la sentenza era stata giá eseguita, si era giá imbarcato, il legno era per far vela: giunge un ordine da Palermo, e fu condannato al carcere perpetuo nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá giudicato, era stato giá condannato a quindici anni di esilio; di giá prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama, e lo conduce… dove?… alla morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome del re.

Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d’inganni per servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva tra’ ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non giá nel luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono le lagrime; lo abbraccia: – Povero amico! A quale stato ti veggo io ridotto! Io sono stanco di piú fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al tuo giudice; sei coll’amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò che hai fatto.

Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la Giunta… – Fiani presta fede alle parole dell’amicizia; Fiani confessa… – Bisogna scriverlo; servirá per memoria… – Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni va alla morte.

Speziale interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo nome e la carica che nella repubblica avea ottenuto, lo fa sedere. Gli fa sperare la clemenza del re; gli dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma che una carica eminente era segno di «patriotismo», e perciò delitto in coloro che erano stati, senza merito e senza nome, elevati per solo favore di fazione rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo sarebbe stato onorato da lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. – Tu conosci – gli dice – profondamente tali interessi. – La corte ha molte memorie mie – risponde Conforti. – Sí, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non saresti in grado di occupartici di nuovo? – E, cosí dicendo, gli fa quasi sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro del rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe ottenuto l’intento, lo mandò a morire (68).

Qual mostro era mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha conosciuto altro piacere che quello di insultar gl’infelici. Si dilettava passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare, opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora. Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o d’infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasiché accatastati, questo rapporto era per lui l’annunzio di «un incomodo di meno». Un soldato insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato ad una finestra della sua carcere a respirare un’aria meno infetta: gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto: – Che fate voi? – disse Speziale; – costui non ha fatto altro che toglierci l’incomodo di fare una sentenza. – La moglie di Baffa gli raccomanda il suo marito… – Vostro marito non morrá – gli diceva Speziale; – siate di buon animo: egli non avrá che l’esilio. – Ma quando? – Al piú presto. – Intanto scorsero molti giorni: non si avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna da Speziale, il quale si scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea date. – Ma perché insultare questa povera infelice? – gli disse allora uno che era presente al discorso… Baffa era stato giá condannato a morte; ma la sentenza s’ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti, le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un freddo sorriso le dice: – Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio. – Sotto la direzione di un tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la maniera con cui sieno stati tenuti i carcerati. Quante volte que gli infelici hanno desiderata ed invocata la morte!… Ma la mia mente è stanca di piú occuparsi de’ mali dell’umanitá… Il mio cuore giá freme!

(66) Esistono ancora ambidue gli editti: col primo il Regno si dichiara regno di conquista; col secondo si dichiara che il re non lo avea mai perduto.
(67) Subitoché in Napoli non vi era stata ribellione, non vi era piú differenza tra coloro che aveano occupate cariche e coloro che avean solo riconosciuta la repubblica. Tutti doveano essere o egualmente rei o egualmente innocenti.
(68) Questo fatto sembra tanto incredibile, che mi sarei astenuto dal narrarlo, se non mi fosse stato contestato da moltissimi degni di ogni fede. Ma, quando anche questi mentissero, gran Dio! quanto odio pubblico si è dovuto meritare, prima di mover gli uomini ad immaginare, a spacciare, a credere tali orrori!

Lucca in letteratura IX

$
0
0

NPG 6179; John Evelyn

John Evelyn (1620-1706) è passato alla storia, insieme a Samuel Pepys, come uno dei diaristi più importanti delle letteratura inglese, i suoi scritti narrano avvenimenti importanti del XVII° secolo, quali il grande incendio di Londra del 1666, la morte di Carlo II d’Inghilterra e di Oliver Cromwell. Figlio di un grosso produttore di polvere da sparo, ebbe modo di viaggiare molto e raggiungere l’Italia, della quale ci ha lasciato un interessante ritratto. Naturalmente, all’interno del suo Diario, pubblicato per la prima volta in versione integrale nel 1818, parla anche di Lucca, seppur brevemente. Da notare che Evelyn descrive la cattedrale lucchese con il nome di Santa Croce, e non di San Martino, una sineddoche dovuta alla presenza del famosissimo Volto Santo all’interno del duomo cittadino. La nota di Evelyn sulla tomba di San Riccardo in San Frediano dice una cosa non vera, in realtà sappiamo bene che le spoglie conservate dentro il sepolcro scolpito da Jacopo della Quercia appartengono a Riccardo del Wessex, detto anche Richard the Pilgrim, nobile inglese defunto nel 721 circa a Lucca durante il suo pellegrinaggio a Roma.[1]

John Evelyn, Diary and Correspondence, Vol. 1, Henry Colburn Publisher, London, 1850, pp. 185-86.

The next day, I came to Lucca, a small but pretty territory and state of itself.—The city is neat and well fortified, with noble and pleasant walks of trees on the works, where the gentry and ladies use to take the air. It is situate on an ample plain by the river Serchio, yet the country about it is hilly. The Senate-house is magnificent. The church of St. Michael is a noble piece, as is also St. Fredian, more remarkable to us for the corpse of St. Richard, an English king, who died here in his pilgrimage towards Rome. This epitaph is on his tomb :

Hic rex Richardus requiescit, sceptifer, almus :

Rex fuit Anglorum ; regnum tenet iste Polorum.

Regnum demisit ; pro Christo cuncta reliquit.

Ergo, Richardum nobis dedit Anglia sanctum.

Hic genitor Sanctæ Wulburgæ Virginis almæ

Est Vrillebaldi sancti simul et Vinebaldi,

Suffragium quorum nobis det regna Polorum. +

Next this, we visited St. Croce, an excellent structure all of marble both without and within, and so adorned as may vie with many of the fairest even in Rome; witness the huge cross, valued at £15,000, above all venerable for that sacred volto which (as tradition goes) was miraculously put on the image of Christ, and made by Nicodemus, whilst the artist, finishing the rest of the body, was meditating what face to set on it. The inhabitants are exceedingly civil to strangers, above all places in Italy, and they speak the purest Italian. It is also cheap living, which causes travellers to set up their rest here more than in Florence, though a more celebrated city; besides, the ladies here are very conversable, and the religious women not at all reserved; of these we bought gloves and embroidered stomachers, generally worn by gentlemen in these countries. The circuit of this state is but two easy days’ journey, and lies mixed with the Duke of Tuscany’s, but having Spain for a protector (though the least bigoted of all Roman Catholics), and being one of the fortified cities in Italy, it remains in peace. The whole country abounds in excellent olives, &c.

+ Who this Richard King of England was, it is impossible to say; the tomb still exists, and has long been a crux to antiquaries and travellers.

Il giorno seguente giunsi a Lucca, una piccola ma graziosa terra e uno stato indipendente. La città è ordinata e ben fortificata, con nobili e gradevoli passeggiate di alberi sui forti, dove di solito la piccola nobiltà e le signore prendono l’aria. È situata su di un’ampia pianura accanto al fiume Serchio, tuttavia il territorio intorno è collinoso. Il palazzo del Senato è magnifico. La chiesa di San Michele è un’opera nobile, come lo è anche San Frediano, più degna di attenzione per noi per il corpo di St. Richard, un re inglese, che morì qui durante il suo pellegrinaggio a Roma. Questo è l’epitaffio sulla sua tomba:

Hic rex Richardus requiescit, sceptifer, almus :

Rex fuit Anglorum ; regnum tenet iste Polorum.

Regnum demisit ; pro Christo cuncta reliquit.

Ergo, Richardum nobis dedit Anglia sanctum.

Hic genitor Sanctæ Wulburgæ Virginis almæ

Est Vrillebaldi sancti simul et Vinebaldi,

Suffragium quorum nobis det regna Polorum.*

Dopo questo, visitammo la Santa Croce, un’eccellente struttura interamente di marmo sia all’esterno che all’interno, e così decorata che potrebbe rivaleggiare con molte delle più belle strutture persino a Roma; testimone ne è l’immensa croce, valutata 15,000 sterline, venerata soprattutto per quel sacro volto che (come vuole la leggenda) fu miracolosamente apposto sull’immagine di Cristo, e realizzato da Nicodemo mentre l’artista, che stava finendo il resto del corpo, meditava quale viso disporre su di esso. Gli abitanti sono estremamente civili con gli stranieri, più di ogni altro luogo in Italia, e parlano il più puro Italiano. La vita è anche meno cara, la qual cosa fa sì che i viaggiatori dimorino qui più che a Firenze, sebbene sia una città più famosa; inoltre, le signore qui sono molto socievoli, e le religiose tutt’altro che riservate; da loro acquistammo dei guanti e delle pettorine ricamate, di solito indossate dai signori di queste lande. In due giorni di viaggio si può facilmente fare il viaggio di questo stato, che è alleato al Duca di Toscana, ma con la Spagna come protettrice (anche se la meno bigotta di tutti i cattolici romani), e pur essendo una delle città fortificate in Itala, se ne sta in pace. L’intero paese è ricco di eccellenti ulivi, &c.

* (N.d.A.) Chi fu questo Re Riccardo d’Inghilterra è impossibile dire; la tomba c’è ancora e da tempo è stata un punto cruciale per antiquari e viaggiatori.


[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Richard_the_Pilgrim


Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” XX

$
0
0

cuoco-saggio-storico-sulla-rivoluzione-napoletana-del-1799-con-prefazione-e-note-di-ottolini

L

TALUNI PATRIOTI

Dopo la caduta della repubblica, Napoli non presentò che l’immagine dello squallore. Tutto ciò che vi era di buono, di grande, d’industrioso, fu distrutto; ed appena pochi avanzi de’ suoi uomini illustri si possono contare, scampati quasi per miracolo dal naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria, sull’immensa superficie della terra.

Si può valutare a piú di ottanta milioni di ducati la perdita che la nazione ha fatto in industrie; quasi altrettanto ha perduto in mobili, in argenti, in beni confiscati: il prodotto di quattro secoli è stato distrutto in un momento. Si son veduti de’ monopolisti inglesi mercanteggiare i nostri capi d’opera di pittura, che il saccheggio avea fatti passare dagli antichi proprietari nelle mani del popolaccio, il quale non ne conosceva né il merito né il prezzo.

La rovina della parte attiva della nazione ha strascinata seco la rovina della nazione intera: tutto il popolo restò senza sussistenza, perché estinti furono o dispersi coloro che ne mantenevano o che ne animavano l’industria; e gli stessi controrivoluzionari piangono ora la perdita di coloro che essi stessi hanno spinti a morte.

Aggiungete a questi danni la perdita di tutt’i princípi, la corruzione di ogni costume, funeste ed inevitabili conseguenze delle vicende di una rivoluzione; una corte che da oggi in avanti riguarda la nazione come estranea e crede ritrovar nella di lei miseria e nella di lei ignoranza la sicurezza sua; e l’uomo che pensa vedrá con dolore una gran nazione respinta nel suo corso politico allo stato infelice in cui era due secoli fa.

Salviamo da tanta rovina taluni esempi di virtú: la memoria di coloro che abbiamo perduti è l’unico bene che ci resta, è l’unico bene che possiamo trasmettere alla posteritá. Vivono ancora le grandi anime di coloro che Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i loro nomi, trasmessi da noi a quella posteritá che essi tanto amavano, servir di sprone all’emulazione di quella virtú che era l’unico oggetto de’ loro voti.

Noi abbiamo sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche grandissimi esempi di virtú. La giusta posteritá obblierá gli errori che, come uomini, han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però ricercherá invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall’uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria.

In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltá. Tutti l’han guardata con quell’istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino. Manthoné, interrogato da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro che: – Ho capitolato. – Ad ogni interrogazione non dava altra risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: – Se non basta la capitolazione, arrossirei di ogni altra. – Cirillo, interrogato qual fosse la sua professione in tempo del re, rispose: – Medico. – Nella repubblica? – Rappresentante del popolo. – Ma in faccia a me che sei? – riprese Speziale, che pensava cosí avvilirlo (69). – In faccia a te? Un eroe. – Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la chitarra; continuò a suonarla ed a cantare finché venne l’ora di avviarsi al suo destino. Uscendo dalle carceri, disse al custode: – Ti raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu potresti esser infelice un giorno al pari di loro. – Carlomagno, montato giá sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: – Popolo stupido! tu godi adesso della mia morte. Verrá un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue giá si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la fortuna di non esser vivi, sul capo de’ vostri figli. – Granalè dall’istesso luogo guardò la folla spettatrice: – Vi ci riconosco – disse – molti miei amici: vendicatemi! – È da osservarsi che Speziale non risparmiava nessuno de’ piú vili epiteti del trivio e del bordello.

Nicola Palomba era giá sotto al patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare de’ complici. – Vile schiavo! – risponde Palomba – io non ho saputo comprar mai la vita coll’infamia. – Io ti manderò a morte – diceva Speziale a Velasco. – Tu?… Io morirò, ma tu non mi ci manderai. – Cosí dicendo, misura coll’occhio l’altezza di una finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito per aver perduto la vittima sua.

Ma, se vi vuole del coraggio per darsi la morte, non se ne richiede uno minore per non darsela, quando si è certo di averla da altri. A Baffa (70), giá certo del suo destino, fu offerto dell’oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che non l’avea ricusato per viltá. Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l’uomo sia posto in questo mondo come un soldato in fazione e che sia delitto l’abbandonar la vita, non altrimenti che lo sarebbe l’abbandonare il posto.

Questo sangue freddo, tanto superiore allo stesso coraggio, giunse all’estremo nella persona di Grimaldi. Era giá condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna piú di un mese tra’ ferri; finalmente l’ora fatale arriva: di notte, una compagnia di russi ed un’altra di soldati napoletani lo trasportano dalla custodia al luogo dell’esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle guardie; si difende da tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insiegue invano per quasi un miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto, se, invece di fuggire, non avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo tradí e lo scoperse ad un soldato, che l’inseguiva da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese, né lo potettero prendere se non quando, per tante ferite, era giá caduto semivivo.

Quante perdite dovrá piangere, e per lungo tempo, la nostra nazione! Io vorrei poter rendere ai nomi di tutti quell’onore che meritano, e spargere sul loro cenere quei fiori che forse chi sa se essi avranno giammai! Ma chi potrebbe rammentarli tutti?

Io non posso render a tutti quella giustizia che meritano, tra perché non ho potuto sapere tutto ciò ch’è avvenuto ne’ diversi luoghi del Regno, tra perché nella mia emigrazione non ho avuta altra guida che la mia memoria, la quale non ha potuto tutto ritenere. Mi sia perciò permesso trattenermi un momento sopra taluni piú noti.

Caracciolo Francesco. Era, senza contraddizione, uno de’ primi geni che avesse l’Europa. La nazione lo stimava, il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni giorno posposto… Caracciolo era uno di quei pochi che al piú gran genio riuniva la piú pura virtú. Chi piú di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo; avea in grandissima stima i nostri marinari. Egli morí vittima dell’antica gelosia di Thurn e della viltá di Nelson… Quando gli fu annunziata la morte, egli passeggiava sul cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era dirimpetto, e proseguí tranquillamente il suo ragionamento. Intanto un marinaro avea avuto l’ordine di preparargli

il capestro: la pietá glielo impediva… Egli piangeva sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante volte militato. – Sbrigati – gli disse Caracciolo: – è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere. – Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata «Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re… Fu raccolto dai marinari, che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa di Santa Lucia, che era prossima alla sua abitazione; offici tanto piú pomposi quantoché senza fasto veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono accompagnati dalle lagrime sincere di tutt’i poveri abitanti di quel quartiere, che lo riguardavano come il loro amico ed il loro padre.

Simile a Caracciolo era Ettore Carafa. Quest’eroe, unitamente al suo bravo aiutante Ginevra, sostenne Pescara anche dopo le capitolazioni di Capua, Gaeta e Sant’Elmo. Caduto nelle mani di Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte con intrepidezza e disinvoltura.

Cirillo Domenico. Era uno de’ primi tra i medici di una cittá ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la medicina formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un nome superiore all’invidia, amico della tranquillitá e della pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il piú sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a’ quali avea piú volte prestato i soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe costata una viltá.

Conforti Francesco. Si è giá detto il tratto di perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga che Conforti in tutto il corso della sua vita avea reso de’ servigi importanti alla corte; avea difesi i diritti della sovranitá contro le pretensioni di Roma; avea fissati i nuovi princípi per i beni ecclesiastici, princípi che riportavano la ricchezza nello Stato e la felicitá nella nazione; molte utili riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati piú di cinquanta milioni di ducati in fondi… Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra etá; ma avea fatto piú di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per cosí dire, una gioventú nuova. Pochi sono i napolitani che sanno leggere, che non lo abbiano avuto a maestro. E quest’uomo, senza verun delitto, si mandò a morire! Egli riuniva eminentemente tutto ciò che formava l’uomo di lettere e l’uomo di Stato.

Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico.

Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet viris concurrere virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il piú puro ed il piú ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: – «Forsan haec olim meminisse iuvabit». – Russo Vincenzio. È impossibile spinger piú avanti di quello che egli lo spinse l’amore della patria e della virtú. La sua opera de’ Pensieri politici è una delle piú forti che si possano leggere.

Egli ne preparava una seconda edizione, e l’avrebbe resa anche migliore, rendendola piú moderata. La sua eloquenza popolare era sublime, straordinaria… Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla forza delle sue parole… Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle memorie sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al luogo del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di sentimento, il quale ben mostrava che la morte potea distruggerlo, non mai però il suo aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi il suo discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella forte impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le irresistibili impressioni degli spiriti troppo sublimi… Oh! se la tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che ti furono cari, rimira me, fin dalla piú tenera nostra adolescenza tuo amico, che piango, non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei morto.

Federici Francesco. Era maresciallo in tempo del re; fu generale in tempo della repubblica. Il ministro di guerra lo rese inutile, mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l’arte della guerra; ma insieme coll’arte della guerra egli sapeva mille altre cose, che per lo piú ignorano coloro che sanno l’arte della guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente.

Scotti Marcello. È difficile immaginare un cuore piú evangelico. Egli era l’autore del Catechismo nautico, opera destinata all’istruzione de’ marinai dell’isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla «chinea» scrisse, sebben senza suo nome, l’opera della Monarchia papale, di cui non si era veduta l’eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morí vittima dell’invidia di taluni suoi compatrioti.

Parlando di Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile prelato Troise, e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è cara, perché è la memoria della virtú. Verrá, spero, quel giorno in cui, nel luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la posteritá, piú giusta, vi potrá dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, piú felice, vi potrá elevare un monumento piú durevole della debole mia voce (71).

(69) È da osservarsi che Speziale non risparmiava nessuno de’ piú vili epiteti del trivio e del bordello
(70) Baffa era uno de’ piú eruditi uomini d’Italia, era uno de’ primi per l’erudizione greca.
(71) Per riunire sotto un colpo di occhio tutto il male che in Napoli ha prodotta la controrivoluzione, basterá fare il seguente calcolo: Ettore Carafa, Giovanni Riari, Giuliano Colonna, Serra, Torella, Caracciolo, Ferdinando e Mario Pignatelli di Strongoli, Pignatelli Vaglio, Pignatelli Marsico son della prima nobiltá d’Italia; e venti altre famiglie nobili al pari di queste sono state quasiché distrutte. Tra le altre non vi è chi non pianga una perdita. La rivoluzione conta trenta in quaranta vescovi, altri venti in trenta magistrati rispettabili per il loro grado e piú per il loro merito, molti avvocati di primo ordine ed infiniti uomini di lettere. A quelli che abbiamo nominati si possono aggiugnere, tra’ morti, Falconieri, Logoteta, Albanese, De Filippis, Fiorentino, Ciaia, Bagni, Neri… La professione medica pare che sia stata presa di mira dalla persecuzione controrivoluzionaria. Sará un giorno oggetto di ammirazione per la posteritá l’ardore che i nostri medici aveano sviluppato per la buona causa. I giovani medici del grande ospedale degl’Incurabili formavano il «battaglione sacro» della nostra repubblica. Io non parlo che della capitale. Eguale e forse anche piú feroce è stata la distruzione che gli emissari della Giunta, sotto nome di «visitatori», han fatta nelle provincie. Si possono calcolare a quattromila coloro che sono morti per furore degl’insorgenti, come l’infelice Serao vescovo di Potenza, uomo rispettabile per la sua dottrina e per lo suo costume; il giovine Spinelli di San Giorgio… Tutti gli altri erano egualmente i migliori della nazione. Dopo ciò, si calcoli il danno. La nazione potrá rimpiazzar gli uomini, ma non la coltura. Ed è forse esagerata l’espressione di esser essa retroceduta di due secoli?

LI

CONCLUSIONE

Il re, strascinato da’ falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I suoi ministri o non amavano o non curavano la nazione: dovea perciò perdersi, e si perdette. I repubblicani, colle piú pure intenzioni, col piú caldo amor della patria, non mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e caddero colla patria, vittime di quell’ordine di cose, a cui tentarono di resistere, ma a cui nulla piú si poteva fare che cedere.

Una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo, da cui l’umanitá non si libera se non quando le sue idee tornano di nuovo al livello coi governi suoi; e quindi i governi diventano piú umani, perché piú sicuri; l’umanitá piú libera, perché piú tranquilla; piú industriosa e piú felice, perché non deve consumar le sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano de’ secoli e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non a traverso degli estremi de’ mali.

Quale sará il destino di Napoli, dell’Italia, dell’Europa? Io non lo so: una notte profonda circonda e ricopre tutto di un’ombra impenetrabile. Sembra che il destino non sia ancora propizio per la libertá italiana; ma sembra dall’altra parte che egli, col nuovo miglior ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa che gli stessi re travaglino a preparar quell’opera che con infelice successo hanno tentata i repubblicani. Forse la corte di Napoli, spingendo le cose all’estremo, per desiderio smoderato di conservare il Regno, lo perderá di nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche la seconda rivoluzione, la quale sará piú felice, perché desiderata e conseguíta dalla nazione intera per suo bisogno e non per solo altrui dono.

Queste cose io scriveva sul cader del 1799, e gli avvenimenti posteriori le hanno confermate.

La corte di Napoli ha prodotto un nuovo cangiamento politico; e questo, diretto da altre massime, può produrre nel Regno quella felicitá che si sperò invano dal primo.

Dal 1800 fino al 1806 abbiamo veduto la corte di Napoli seguir sempre quelle stesse massime dalle quali tanti mali eran nati; la Francia, al contrario, cangiar quegli ordini, da’ quali, siccome da ordini irregolarissimi, nessun bene e nessuna durevolezza di bene poteva sperarsi; e si può dire che alla nuova felicitá, che il gran Napoleone ora ci ha data, abbiano egualmente contribuito e l’ostinazione della corte di Napoli ed il cangiamento avvenuto nella Francia.

Per effetto della prima gli stessi errori han confermata ed accresciuta la debolezza del Regno: nell’interno lo stesso languor di amministrazione, la stessa negligenza nella milizia, la stessa inconseguenza ne’ piani, diffidenza tra il governo e la nazione, animositá, spirito di partito piú che ragione; nell’esterno la stessa debolezza, la stessa audacia nelle speranze e timiditá nelle imprese, la stessa malafede: non si è saputo né evitar la guerra né condurla; si è suscitata, e si è rimasto perdente.

Per effetto del secondo, nella Francia gli ordini pubblici sono divenuti piú regolari: i diversi poteri piú concordi tra loro: il massimo tra essi piú stabile, piú sicuro; perciò meno intento a vincer gli altri che a dirigerli tutti al bene della patria: le idee si sono messe al livello con quelle di tutte le altre nazioni dell’Europa; perciò minore esagerazione nelle promesse, animositá minore ne’ partiti, facilitá maggiore dopo la vittoria di stabilire presso gli altri popoli un nuovo ordine di cose: il potere piú concentrato; onde meno disordine e piú concerto nelle operazioni de’ comandanti militari, abuso minore nell’esercizio de’ poteri inferiori, maggiore prudenza, perché comune a tutti e dipendente dalla stessa natura comune degli ordini e non dalla natura particolare degl’individui: al sistema di democratizzazione sostituito quello di federazione, il quale assicura la pace, che è sempre per i popoli il maggiore de’ beni; e che finalmente ha procurati all’Italia tutti que’ vantaggi che non poteva avere col sistema precedente, secondo il quale si voleva amica e si temeva rivale; onde, non

formando mai in essa uno Stato forte ed indipendente, andava a distruggersi interamente: e finalmente, oltre tutti questi beni, il dono grandissimo di un re che tutta l’Europa venerava per la sua mente e pel suo cuore.

Me felice, se la lettura di questo libro potrá convincere un solo de’ miei lettori che lo spirito di partito nel cittadino è un delitto, nel governo una stoltezza; che la sorte degli Stati dipende da leggi certe, immutabili, eterne, e che queste leggi impongono ai cittadini l’amor della patria, ai governi la giustizia e l’attivitá nell’amministrazione interna, il valore, la prudenza, la fede nell’esterna; che alla felicitá de’ popoli sono piú necessari gli ordini che gli uomini; e che noi, dopo replicate vicende, siamo giunti ad avere al tempo istesso ordini buoni ed un ottimo re; e che la memoria del passato deve esser per ogni uomo, che non odia la patria e se stesso, il piú forte stimolo per amare il presente.



Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy IV

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

Envelope_Gandhi_to_Tolstoy

Gandhi_to_Tolstoy

Johannesburg,

4 Aprile 1910

Caro Signore,

Lei si ricorderà che ho proseguito la mia corrispondenza da Londra, dove mi sono trattenuto temporaneamente. Come suo devoto seguace, le allego qui un breve opuscolo che ho scritto. È la mia traduzione della versione in Gujarati.

La cosa rimarchevole è che il mio libro originale è stato confiscato dal Governo indiano. Pertanto avevo fretta di pubblicare questa traduzione. Temo di sovraccaricarla, ma se la sua salute lo permette e ha il tempo per dare una scorsa al mio opuscolo, allora non ci sarà bisogno di esprimerle il mio più grande apprezzamento per la sua critica. Le mando anche poche copie della sua Lettera a un Indu che lei mi ha permesso di pubblicare. Questa stessa lettera sarà tradotta in dialetto indiano.

                                                                                        Sono,

                                                                                           Il suo servo obbediente,

                                                                                              M. K. Gandhi.


Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy V

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

Yasnaya Polyana

7 Ottobre 1909

A M. K. Gandhi

Transvaal

Ho ricevuto proprio adesso la sua interessantissima lettera, che mi dà un gran piacere. Possa Dio aiutare tutti i nostri cari fratelli e collaboratori in Transvaal. Questa lotta tra la gentilezza e la brutalità, tra l’umiltà e l’amore da un lato, e la presunzione e la violenza dall’altro, si fa sentire ancora di più con forza anche da noi qui — specialmente negli aspri conflitti tra gli obblighi religiosi e le leggi dello Stato — espressa dalle obiezioni di coscienza nel prestare il servizio militare. Tali obiezioni hanno luogo molto spesso.

Ho scritto Lettera a un Indù e sono molto contento di averla tradotta (in inglese). Il titolo del libro di Krishna le sarà comunicato da Mosca. Riguardo la rinascita io, per parte mia, non tralascerò niente; giacché, come appare a me, la credenza in una rinascita non sarà mai in grado di colpire radici così profonde e reprimere l’umanità come la credenza nell’immortalità dell’anima e la fede nella verità e nell’amore divino; naturalmente le verrò volentieri incontro, se è suo desiderio, eliminando quei passaggi in questione. Sarà fonte di gran piacere per me aiutarvi nella vostra edizione. La pubblicazione e la circolazione dei miei scritti, tradotti nei dialetti indiani, può soltanto essere un motivo di gioia per me.

Alla questione pertinente il pagamento monetario dei diritti d’autore, non dovrebbe affatto essere consentito di sembrare in termini di garanzie religiose.

Le porgo i miei fraterni saluti e sono lieto di essere entrato in contatto personalmente con lei.

Leo Tolstoi


Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy VI

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

Westminster Palace Hotel,

4, Victoria Street,

Londra W.C.

10/11/1909

Caro Signore,

mi permetto di porgerle i miei ringraziamenti per la sua raccomandata in relazione alla Lettera a un Indu e agli argomenti che ho toccato nella mia precedente lettera.

Avendo sentito della sua salute malferma mi sono trattenuto, per risparmiarle la fatica di inviare un riconoscimento, ben sapendo che un’espressione scritta della mia gratitudine era una formalità superflua; ma Mr. Aylmer Maude, che ora sono stato in grado di incontrare, mi ha rassicurato che lei gode veramente di una buona salute e che immancabilmente e regolarmente lei si occupa della sua corrispondenza ogni mattina. Per me è stata una notizia davvero lieta e mi incoraggia a scriverle ancora sugli argomenti che sono, lo so, della massima importanza secondo il suo insegnamento.

Mi permetto di inviarle con la presente una copia di un libro scritto da un amico — un inglese — che si trova al momento in Sud Africa, libro collegato alla mia vita, nella misura in cui ha un rapporto con la lotta alla quale io sono connesso e alla quale la mia vita è dedicata. Visto che sono molto ansioso di coinvolgere il suo interesse attivo e la sua simpatia, ho ritenuto che non sarebbe stato considerato da lei fuori luogo il fatto che io le spedissi il libro.

A mio parere, questa lotta degli indiani nel Transvaal è la più grande dei tempi moderni, in quanto è stata idealizzata per ciò che concerne l’obiettivo e anche in relazione ai metodi adottati per raggiungerlo. Non sono a conoscenza di una lotta in cui i partecipanti non devono trarre alcun vantaggio personale alla fine della stessa, e nella quale una percentuale delle persone interessate hanno subito grandi patimenti e difficoltà per il bene di un principio. Non mi è stato possibile pubblicizzare la lotta tanto quanto avrei gradito. Lei oggi ha il controllo, probabilmente, del più vasto pubblico. Se si ritiene pago per i fatti che troverà esposti nel libro di Mr. Doke, e se considera che le conclusioni a cui sono arrivato sono giustificate dai fatti, posso chiederle di usare la sua influenza in qualsiasi modo la ritenga adatta per diffondere il movimento? Se il movimento avrà successo, non sarà soltanto un trionfo della religione, dell’amore e della verità sull’irreligiosità, l’odio e la falsità, ma è altamente probabile che servirà da esempio per milioni di persone in India e per le popolazioni nelle altre parti del mondo, che possono essere oppresse, e certamente rappresenterà un ottimo viatico per spezzare il partito della violenza, almeno in India. Se resistiamo fino alla fine, come penso dovremmo, non nutro il minimo dubbio circa il suo successo finale e il suo incoraggiamento nei modi da lei suggeriti può solo rafforzarci nella nostra determinazione.

I negoziati in corso per una risoluzione del problema sono andati praticamente in fumo, e insieme ai miei colleghi tornerò in Sud Africa questa settimana per farci arrestare. Posso aggiungere che mio figlio si è felicemente unito a me nella lotta e adesso sta scontando una condanna ai lavori forzati di sei mesi.

Questa è la sua quarta carcerazione nel corso della lotta.

Se vuol essere così gentile da rispondere a questa lettera, posso chiederle di indirizzare la sua risposta a Johannesburg, S.A. Box 6522.

Nella speranza di trovarla in buona salute.

Resto,

Il suo servo obbediente

M. K. Gandhi


Lucca in letteratura X

$
0
0

Nostradamus_portrait_ca1690 Centurie 3 19

Non abbiamo notizie certe di un soggiorno a Lucca di Michel de Nostredame, più noto come Nostradamus (1503-1566), ma si sa che il ben noto veggente di origine provenzale viaggiò in Italia nel periodo 1547-49 e non è da escludere che verosimilmente abbia visitato la Serenissima Repubblica Lucense, all’epoca un cantiere a cielo aperto in cui si stava costruendo la terza e definitiva cerchia muraria. Lucca, città nota allora in Europa per le sue sete e il Volto Santo, è comunque presente nel celeberrimo Prophéties di Nostradamus, quattro volte viene citata e in forme diverse. La prima edizione dell’opera risale al 1555, edita a Lione a cura dello stesso Nostradamus, composta da quattro centurie, ossia cento quartine di decasillabi a rima alterna (a b a b), le successive vedranno la luce in seguito, fino alla forma definitiva di dieci centurie che conosciamo oggi e corrisponderebbe alla versione finale del 1558. La dizione corretta francese è “Lucques”, ma Nostradamus usa soltanto una volta la forma usuale, alternandola a “Luques” e “Luc”. Del significato delle quartine e dei possibili riferimenti ad eventi passati o futuri non è dato sapere con certezza, di sicuro lascia interdetti il fatto che in una traduzione italiana delle Prophéties, piuttosto rinomata, qualcuno abbia tradotto “Duc” con “Duce”, parola presente in due quartine che riguardano Lucca. Non facciamo nomi, però non è impresa ardua intuire che “Duc” può avere molta più attinenza con il Granduca di Toscana che non con Mussolini, almeno che il traduttore non sia stato in possesso della “divinazione” giusta, cosa di cui si dubita fortemente.

Ecco le quartine dove compare Lucca:

 

3:19

En Luques sant et laict viendra plouvoir,

Un peu devant changement de preteur:

Grand peste et guerre, faim et soif fera voir

Loing oa’ mourra leur Prince recteur.

In Lucca sangue e latte pioverà,

Un po’ prima cambiamento del pretore,

Gran peste e guerra, fame e sete sarà vista

A lungo dove morirà il loro Principe rettore.

9:5

Tiers doigt du pied au premier semblera

A un nouveau monarque de bas hault,

Qui Pyse et Lucques Tyran occupera

Du precedant corriger le deffaut.

Il terzo dito del piede al primo sarà simile,

A un nuovo monarca di bassa statura,

Che Pisa e Lucca il Tiranno occuperà,

Del precedente correggere l’errore.

9:80

Le Duc voudra les siens exterminers,

Envoyera les plus forts lieux estranges,

Par tyrannie Pyze et Luc ruinera,

Puis les Barbares sans vin feront vendanges.

Il Duca sterminare i suoi vorrà,

E i più forti invierà in luoghi stranieri,

Con la tirannide Pisa e Lucca rovinerà,

Poi i Barbari senza vino faran vendemmia.

10:64

Pleure Milan, pleure Luques, Florance,

Que ton grand Duc sur le char montera,

Changer le siege pres de Venise s’advance,

Lors que Colomne a Rome changera.

Piangi Milano, piangi Lucca, Firenze,

Che il tuo gran Duca sul carro salirà,

Cambiar la sede presso Venezia s’approssima,

Quando Colonna a Roma cambierà.


https://fr.wikisource.org/wiki/Les_Proph%C3%A9ties_de_M._Nostradamus


Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” XVIII

$
0
0

cuoco-saggio-storico-sulla-rivoluzione-napoletana-del-1799-con-prefazione-e-note-di-ottolini

XLIV

RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA

I francesi dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed all’isola di Sora e nelle gole di Castelforte perdettero non poca gente. Appena essi partirono, nuove insorgenze scoppiarono in molti luoghi.

Roccaromana suscitò l’insorgenza nelle sue terre alle mura di Capua. Egli divenne l’istrumento piú grande della nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per sospetti troppo anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo e perderlo: offendendo, non seppe metterlo nella impossibilitá di far male.

Luigi de Gams organizzò nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze, unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto dell’Italia.

La ritirata dei francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni vogliono, gelosia del governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove poteva esser utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera. A questo male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise; ma le spedizioni di questi due, ritardate soverchio, non furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando cioè era impossibile eseguirle.

Cosí sopra tutta la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo a Mammone (57), comandante dell’insorgenza di Sora: con poco piú di forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore, opponendosi all’unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo avesse inviati loro non piú che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertá non sarebbe perita. Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l’insorgenza delle Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era una cittá piena di democratici: essa avea una guardia nazionale di duemila persone; era una cittá che, per lo stato politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano Serracapriola, Casacalenda, Agnone, Lanciano… Dall’altra parte, per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava colle tante popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania. Noi vorremmo poter nominare tutte le popolazioni e tutti gl’individui; ma né tutto distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si può dire: un tempo forse si saprá, e si potrá loro rendere giustizia.

Ma che fare? A tutte queste forze mancava la mente, mancava la riunione tra tutti questi punti, mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si crederá, ma intanto è vero: una delle cagioni, che piú hanno contribuito a rovesciar la nostra repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province delle persone che riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gl’insorgenti aveano tutti questi vantaggi.

(57) Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui difficilmente si ritrova l’eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici; oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti. Non si parla de’ saccheggi, delle violenze, degl’incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl’infelici che cadevano nelle sue mani, non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltá inventati. Ha rinnovate le invenzioni di Procuste, di Mezenzio… Il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva scannare. Chi scrive lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con aviditá quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di sangue; beveva in un cranio… A questi mostri scriveva Ferdinando da Sicilia: «mio generale e mio amico».

XLV

CARDINAL RUFFO

Ruffo intanto trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito seguendo la corte, era ritornato quasiché solo nella Calabria; ma le terre nelle quali si era fermato erano appunto le terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli diede qualche seguace: a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan condannati nelle isole della Sicilia, ai quali fu promesso il perdono; tutt’i scellerati banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa l’impunitá. A Ruffo si unirono il preside della provincia, Winspeare, e l’uditore Fiore. L’impunitá, la rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso (58); tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con picciole operazioni, piú per tentare gli animi e le cose che per invadere. Ma, vinte una volta le forze repubblicane perché divise e mal dirette, superata Monteleone, attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria ulteriore, e, passando quindi alla citeriore, attaccò e prese Cosenza, sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima degli errori del governo, perché disgustò il basso popolo coll’ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle imposizioni dovute al re, perché vi costituí comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo scellerato ed attaccato all’antico governo. Quando Ruffo era giá vicino a Cosenza, De Chiara era alla testa di sette in ottomila patrioti, risoluti di vincere o di morire. Ruffo aveva appena diecimila uomini. Quando queste truppe furono a vista, De Chiara ordinò la ritirata; intanto ad un segno concertato scoppiò la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i repubblicani si trovarono tra due fuochi; ma, ciò non ostante, riguadagnano la cittá e si difendono tre giorni. Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma, quando il soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si ridussero a dover fare prodigi di valore nella difesa di Rossano. Ma Rossano, rimasta sola, cadde anch’essa: cadde Paola, una delle piú belle cittá di Calabria, incendiata dal barbaro vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare. La fama del successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di tutte le Calabrie fino a Matera, dove incontrò il còrso De Cesare, di cui parlammo nel paragrafo decimosesto (59).

Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l’assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa piú ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mitraglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro giá da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la cittá fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato né al sesso né all’etá. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tuttavia: – Viva la repubblica! – Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue.

Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa comune. La stessa mancanza di provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono tanto di quell’ascendente che il valore dá sul numero, che fecero una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di valore. Intanto Micheroux fece nell’Adriatico uno sbarco di russi, che occuparono Foggia.

L’occupazione, sia caso, sia arte, avvenne ne’ giorni in cui la fiera richiamava colá gli abitanti di tutte le altre province del Regno; e cosí la nuova dell’invasione, sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche prima delle armi.

Chi non sarebbesi rivoltato allora contro il governo repubblicano, dopo i funesti esempi di coloro che eran rimasti vittima del suo partito, vedendo dappertutto il nemico vincitore e niuna difesa rimaner a sperarsi dagli amici? Si era giá nel caso che i repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser gl’insorgenti. Eppure l’amore per la repubblica era cosí grande, che faceva ancora amare il governo, e tutt’i repubblicani morirono con lui.

Un poco di truppa francese e patriotica che era in Campobasso fu costretta ad abbandonarla. Si perdette anche il contado di Molise. Non si era pensato a guadagnar le posizioni di Monteforte, Benevento, Cerreto ed Isernia, onde impedire le comunicazioni di queste insorgenze tra loro. Ribollí l’insorgenza di Nola, comunicando con quella di Puglia; e Napoli fu quasi che assediata.

 

(58) Quest’uomo ai creduli abitanti delle Calabrie si fece creder papa. Il cardinale Zurolo, arcivescovo di Napoli, ebbe il coraggio di anatemizzarlo.
(59) Le notizie dell’insurrezione della provincia di Lecce e delle operazioni dei còrsi mi sono state comunicate dal mio amico Giovanni Battista Gagliardo, il quale fu principal parte di tutto ciò che avvenne in Taranto. Le memorie, ch’egli ha scritte sopra gli accidenti della rivoluzione della sua patria, sono importanti. Io ho lette molte memorie simili. È degno di osservazione che in tutte le sollevazioni del Regno ci è stato sempre suono di campane ed una processione del santo protettore.

XLVI

MINISTRO DELLA GUERRA

Si era esposto mille volte al ministro della guerra tutto il pericolo che si correva per le insorgenze troppo trascurate; ma egli credeva ed avea fatto credere al governo non esser ciò altro che voci di allarmisti. Si giunse a promulgare una legge severissima contro i medesimi; ma la legge dovea farsi perché gli allarmisti non ingannassero il popolo, e non giá perché il governo fosse ingannato dagli adulatori.

Il governo era su questo oggetto molto mal servito da’ suoi agenti tanto interni che esterni, poiché per lo piú eransi affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che l’entusiasmo; ed essi piú del pericolo temevano la fatica di doverlo prevedere.

I popoli non erano creduti. Si chiesero de’ soccorsi al governo per frenare l’insorgenza scoppiata nel Cilento. Si proponeva al ministro che s’inviassero i francesi. – I francesi – si rispondeva – non sono buoni a frenare l’insorgenza; – e si diceva il vero (60). – Vi anderanno dunque i patrioti? – I patrioti faranno peggio. – Ma intanto il pessimo di tutt’i partiti fu quello di non prenderne alcuno; ed il piú funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse potuto giovare a distruggere l’insorgenza.

Il ministro della guerra diceva sempre al governo che egli si occupava a formare un piano, che avrebbe riparato a tutto. Prima parte però di ogni piano avrebbe dovuto esser quella di far presto. Si disse al ministro che avesse occupata Ariano, e non curò di farlo; se gli disse che avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva che il nemico non fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò se stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in Puglia, non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli avea spediti abbigliati alla russa. Gl’insorgenti erano giá alla Torre, lo stesso Ruffo co’ suoi calabresi era in Nola, Micheroux co’ russi era al Cardinale, Aversa era insorta ed aveva rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro della guerra, a cui tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser altro che pochi briganti, i quali non avrebbero ardito di attaccar la capitale. Quale stranezza! Una centrale immensa, aperta da tutt’i lati, il di cui popolo vi è nemico, a cui dopo un giorno si toglie l’acqua e dopo due giorni il pane!…

(60) Per le ragioni dette di sopra, cioè che contro gl’insorgenti poco vale l’armata, ma si richiedono le piccole forze e permanenti.

Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy V

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

8 Maggio 1910

   Caro amico,

Proprio adesso ho ricevuto la sua lettera e il suo libro, Indian Home Rule.

   L’ho letto con grande interesse, perché penso che la questione che lei ha affrontato nel libro è importante non solo per gli indiani, ma per tutta l’umanità.

   Non riesco a trovare la sua prima lettera, ma avendo scoperto la sua biografia scritta da Doke [1], mi è capitato di conoscerla attraverso quella biografia che mi ha avvinto e dato la possibilità di conoscerla e capirla meglio.

   Non sto molto bene al presente. Così non riesco a scriverle su tutte le questioni che sono connesse con il suo libro e anche con le sue attività in generale, che apprezzo tantissimo.

   Ma le scriverò appena mi sarò rimesso.

Il suo amico e fratello,

Leo Tolstoi.


[1] Joseph Doke (1861-1913), missionario cristiano a Johannesburg, conobbe Gandhi personalmente e fu il primo a scrivere una biografia dal titolo MK Gandhi – An Indian patriot in South Africa.

Gli Arazzi dei Mesi Trivulzio – Agosto


Gli Arazzi dei Mesi Trivulzio – Settembre

Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy VI

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

21-24, Court Chambers,

Johannesburg.

15 agosto 1910

M. K. Gandhi,

Procuratore.

Al Conte Leo Tolstoy.

Caro Signore,

Le sono molto obbligato per il suo incoraggiamento e per la lettera cordiale dello scorso 8 maggio. Apprezzo moltissimo il suo consenso generale del mio opuscolo, Indian Home Rule.

E se ha tempo, non vedo l’ora di conoscere la sua critica dettagliata dell’opera, che lei è stato così gentile di promettere nella sua lettera.

Mr. Kallenbach ha scritto per lei sulla fattoria Tolstoy. Mr. Kallenbach e io siamo amici da molti anni. Posso affermare che lui ha attraversato la maggior parte delle esperienze che lei ha descritto così graficamente nella sua opera Confessione[1]. Nessuno scritto ha toccato profondamente Mr. Kallenbach come i suoi, e, come stimolo per un ulteriore sforzo a vivere nel segno degli ideali da lei impugnati davanti al mondo, si è presa la libertà, dopo avermi consultato, di nominare la sua fattoria dopo di lei.

Del suo atto generoso nel concedere l’uso della fattoria per i resistenti passivi, i numeri dell’Indian Opinion che le accludo qui le daranno le informazioni complete.

Non avrei dovuto oberarla con questi dettagli, se non per il fatto di essersi interessato personalmente alla lotta della resistenza passiva che si svolge in Transvaal.

Resto,

Il suo servo fedele,

M. K. Gandhi.



[1] http://it.wikipedia.org/wiki/La_confessione_%28Lev_Tolstoj%29


Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy VII

$
0
0

Tolstoj e Gandhi

7 settembre 1910

“KOTCHETY.”

A

M. K. Gandhi,

Johannesburg,

Transvaal, South Africa

Ho ricevuto il suo giornale Indian Opinion e sono contento di conoscere tutto ciò che è scritto sulla non-resistenza. Desidero comunicarle le riflessioni che in me hanno suscitato la lettura di questi articoli.

Più vivo — e specialmente adesso che mi sto avvicinando alla morte — più mi sento incline a esprimere agli altri i sentimenti che agitano in modo così forte il mio essere e che, secondo il mio parere, sono di grande importanza. Ossia, ciò che si chiama non-resistenza, in realtà altro non è che la disciplina dell’amore deformata da false interpretazioni. L’amore è l’aspirazione alla comunione e solidarietà con le altre anime e quell’aspirazione sprigiona sempre la fonte dei nobili atti. Quell’amore è la legge suprema e unica della vita umana che ognuno sente nel profondo della sua anima.

Quell’amore lo troviamo manifestato nel modo più chiaro nell’anima dei bambini. Gli uomini lo percepiscono fino a quando non vengono accecati dalle false dottrine del mondo.

Quella legge dell’amore è stata promulgata da tutti i filosofi —indiani, cinesi, ebrei, greci e romani. Penso che sia stata espressa più chiaramente da Cristo, che disse che in quella legge sono contenuti sia la legge che i profeti. Ma Cristo ha fatto di più; anticipando la deformazione a cui quella legge è esposta, ha indicato direttamente il pericolo di una deformazione del genere che è naturale per la gente che vive solo per gli interessi terreni. Il pericolo consiste precisamente nel permettere a se stessi di difendere quegli interessi con la violenza; vale a dire, come egli ha espresso, restituendo colpo su colpo e riprendendoci con la forza le cose che ci sono state sottratte, e così via.

Cristo sapeva anche, proprio come tutti gli esseri umani ragionevoli devono sapere, che l’impiego della violenza è incompatibile con l’amore, che è la legge fondamentale della vita. Lui sapeva che una volta ammessa la violenza — non importa se soltanto in un singolo caso — la legge dell’amore diventa in tal modo vana. Vale a dire che la legge dell’amore cessa di esistere. Tutta la civiltà cristiana, così brillante all’esterno, è cresciuta su questo malinteso e su questa flagrante e strana contraddizione, talvolta in modo conscio ma il più delle volte inconsciamente.

In realtà, non appena la resistenza viene ammessa sul versante dell’amore, l’amore non esiste più e non può esistere come legge dell’esistenza; e se la legge dell’amore non può esistere, allora non rimane altra legge se non quella della violenza, che è il diritto del più forte. È così che la società cristiana è vissuta durante questi diciannove secoli. È un dato di fatto che le persone in tutti i tempi hanno seguito soltanto la violenza nell’organizzazione della società. Ma la differenza tra gli ideali dei cristiani e quelli di altre nazioni consiste solo in questo: che nel Cristianesimo la legge dell’amore è stata espressa in modo così chiaro e deciso come non lo era mai stata in qualsiasi altra dottrina religiosa; che il mondo cristiano ha solennemente accettato quella legge, sebbene allo stesso tempo abbia permesso l’impiego della violenza e su quella violenza ha costruito tutta la sua vita. Di conseguenza, la vita dei cristiani è una assoluta contraddizione tra la loro professione di fede e la base della loro vita; contraddizione tra l’amore riconosciuto come legge della vita, e la violenza riconosciuta come inevitabile in diversi settori della vita; come i governi, i tribunali, l’esercito, ecc., che sono riconosciuti e elogiati. Questa contraddizione si è evoluta con lo sviluppo interiore del mondo cristiano e ha raggiunto il suo parossismo recentemente.

Al momento la questione si pone con evidenza nel modo seguente: o si deve ammettere che non riconosciamo alcuna disciplina, religiosa o morale, e siamo guidati nell’organizzazione della vita solo dalla legge della forza, o che devono essere abolite tutte le imposte che esigiamo con la forza, le organizzazioni della giustizia e della polizia e, soprattutto, l’esercito.

Questa primavera, durante gli esami di religione di un liceo femminile a Mosca, il professore di catechismo ha interrogato le ragazze insieme al vescovo sui Dieci Comandamenti e soprattutto sul sesto “Non uccidere” .

Quando l’esaminatore ha ricevuto una buona risposta, il vescovo di solito si ferma per un’altra domanda: uccidere è sempre e in ogni caso proibito dalla Legge sacra? E le povere ragazze corrotte dai loro insegnanti devono rispondere: No, non sempre; è permesso uccidere in guerra e per le esecuzioni dei criminali. Tuttavia, una di quelle disgraziate ragazze, (quello che riporto non è un’invenzione ma un fatto che mi è stato trasmesso da un testimone oculare) a cui era stata fatta la stessa domanda, “Uccidere è sempre un crimine?”, si commosse profondamente, arrossì e rispose con decisione “Sì, sempre”. A tutte le domande sofisticate consuete per il vescovo la ragazza rispose con ferma convinzione: uccidere è sempre proibito nel Vecchio Testamento così come da Cristo, che proibisce non solo di uccidere ma ogni malvagità commessa contro il nostro prossimo. Nonostante tutto il suo talento retorico e la sua imponente grandeur, il vescovo fu obbligato a battere in ritirata e la giovane ragazza se ne uscì vittoriosa.

Sì, noi possiamo discutere nei nostri giornali del progresso dell’aviazione e delle altre scoperte, delle complicate relazioni diplomatiche, delle diverse organizzazioni e alleanze, delle cosiddette creazioni artistiche, etc., e far passare sotto silenzio ciò che è stato affermato dalla ragazza. Ma il silenzio è vano in tali casi, perché ogni appartenente del mondo cristiano prova, in modo più o meno vago, gli stessi sentimenti di quella ragazza. Il Socialismo, il Comunismo, l’Anarchismo, l’Esercito della Salvezza, la criminalità in aumento, la disoccupazione e il lusso assurdo dei ricchi, aumentato senza limiti, e la miseria orribile dei poveri, il numero terribilmente in crescita dei suicidi — tutti questi sono i segnali di quella contraddizione interiore che deve esserci e che non può essere risolta; e indubbiamente, può essere soltanto risolta con l’accettazione della legge dell’amore e il rifiuto di ogni tipo di violenza. Di conseguenza il suo lavoro in Transvaal, che sembra essere così distante dal centro del nostro mondo, è ancora più fondamentale e importante per noi, fornendo la prova pratica più significante che il mondo può adesso condividere e a cui dobbiamo aderire, non soltanto i cristiani ma tutte le persone del mondo.

Penso che dovrebbe farle piacere sapere che anche da noi in Russia un movimento simile si sta sviluppando rapidamente sotto forma di rifiuto del servizio militare che cresce anno dopo anno. Benché possa essere piccolo il numero dei vostri participanti alla non-resistenza e il numero di quelli che in Russia rifiutano il servizio militare, sia gli uni che gli altri possono affermare con audacia che “Dio è con noi” e che “Dio è più potente degli uomini.”

Tra la confessione del cristianesimo, persino nella forma perversa con cui compare in mezzo a noi cristiani, e il riconoscimento simultaneo della necessità degli eserciti e della preparazione per l’uccisione su scala crescente, esiste un contraddizione così flagrante e immensa che prima o poi, probabilmente molto presto, dovrà manifestarsi completamente in tutta la sua nudità; e ci porterà o a rinunciare alla religione cristiane, e mantenere il potere del governo, o a rinunciare all’esercito e a tutte le forme di violenza che lo Stato appoggia e che sono più o meno necessarie a sostenere il suo potere. Questa contraddizione è sentita da tutti i governi così come dal nostro governo russo; e perciò, con lo spirito di conservazione naturale a questi governi, l’opposizione è perseguitata, come riscontriamo in Russia ed esattamente come negli articoli dei vostri giornali, più di ogni altra attività antigovernativa. I governi sanno da quale direzione proviene il pericolo principale e cercano di difendersi con un gran zelo in quel processo, non soltanto per preservare i propri interessi ma per lottare effettivamente per la propria esistenza.

Con la mia assoluta stima,

Leo Tolstoi.


Gli Arazzi dei Mesi Trivulzio – Ottobre

Gli Arazzi dei Mesi Trivulzio – Novembre

Viewing all 196 articles
Browse latest View live